Il mare e le spiagge di Ettore Tito, il “Paolo Veronese con la kodak”


Tre sono i principali ingredienti delle splendide opere di Ettore Tito: la luce, la tecnica e il mare. Vediamo come l'artista dipingeva mare e spiagge!

Quando Ettore Tito (1859 - 1941) esponeva la sua meravigliosa opera Luglio, appena terminata, alle Esposizioni Riunite di Milano del 1894, lo scrittore Leone Fortis, che a quelle Esposizioni dedicò un libro, descrisse il dipinto come una “scena di bagni sul mare, piena di luce e di effetto”. Così invece ne parlava la Guida illustrata per il visitatore: “il mare sotto il sole cocente, e le figure piene dei riflessi dell’acqua, danno l’effetto complessivo della gran luce diffusa; oltre a ciò le figure hanno una grande giustezza di forma e di movimento - e il colore generale è caldo e simpatico”. La scena è, apparentemente, molto semplice: c’è una nutrita schiera di personaggi che stanno facendo il bagno in mare. In primissimo piano, una madre sta facendo uscire dall’acqua due bambini. Poco più indietro, un gruppetto di ragazzini e di bambini, insieme, che si tengono per mano. Ancora più indietro un’altra madre che porta in braccio il figlio più piccolo e tiene per mano la più grande. Il dipinto, che passò attraverso diverse collezioni private, è oggi conservato presso la quadreria di Villa Trissino Marzotto a Trissino, in provincia di Vicenza, dove il pubblico lo può ammirare.

Ettore Tito, Luglio (1893-1894; Trissino, Villa Trissino Marzotto)
Ettore Tito, Luglio (1893-1894; Trissino, Villa Trissino Marzotto)

Se dovessimo indicare tre protagonisti ulteriori, oltre ai personaggi che affollano il dipinto, dovremmo citarne tre: la luce, la tecnica e il mare. La luce, in Ettore Tito, è calda, avvolgente, fa vibrare di vitalità non solo i personaggi, di cui ammiriamo anche la ricchezza di dettagli (basti vedere la veste della donna in primo piano: il pittore ha reso in modo impeccabile le parti bagnate), ma financo le increspature di un mare lambito da una dolce brezza, a giudicare dalla spumetta bianca che si forma sulla superficie. Questo realismo, che non arrivò mai ai livelli di crudezza di quello della pittura di altri pittori suoi contemporanei, ma che, al contrario, spesso trasudava poeticità e tenerezza, proseguiva una secolare tradizione, quella della grande pittura veneta di cui Ettore Tito fu tra i principali esponenti a cavallo tra Otto e Novecento, a dispetto delle sue origini napoletane: era infatti nato a Castellammare di Stabia, ma si era trasferito a Venezia già da bambino, e lì aveva compiuto tutti i suoi studi e tratto tutte le sue ispirazioni. Storici e critici d’arte lo hanno accostato ora a Giambattista Tiepolo, ora a Francesco Guardi, ora a Paolo Veronese. Si è voluto vedere in Ettore Tito una sorta di continuatore della libertà e della leggerezza tiepolesche: alcuni suoi affreschi mostrano chiarissime suggestioni tratte dall’arte di Tiepolo, e in un’occasione, nel 1917, si trovò anche a dover sostituire un distrutto affresco dell’illustre pittore settecentesco. Ma in Tito si possono rivedere anche le ovattate atmosfere di Guardi, nonché i generosi corpi e il vivace colorismo del Veronese: non a caso, Roberto Longhi definì Ettore Tito “un Paolo Veronese con la Kodak”.

Abbiamo detto infatti che il secondo protagonista del dipinto di Villa Trissino Marzotto, così come di moltissimi altri dipinti di Ettore Tito, è la tecnica, che possiamo quasi considerare mutuata dalla fotografia: tipicamente fotografico è l’uso di disporre alcune figure, molto grandi, vicinissime all’osservatore, quasi attaccate al bordo inferiore della composizione, allontanando via via tutti gli altri personaggi. E quella che vediamo in Luglio non è neppure una delle inquadrature più ardite: ci sono dipinti, come Sulla laguna del 1897, una delle sue opere più celebri, conservata a Venezia a Ca’ Pesaro, in cui i due protagonisti, il gondoliere e la ragazza trasportata sulla gondola, sono così vicini a noi che sembra quasi che il pittore si sia messo anche lui sulla gondola, davanti alla ragazza, e lì abbia creato il dipinto. E, ovviamente, parte della gondola è tagliata fuori dalla composizione: un espediente, anche questo tipicamente fotografico, per suggerire il movimento, l’incedere dell’imbarcazione sull’acqua. La fotografia, del resto, esercitò un certo fascino sui pittori di fine Ottocento, e indubbiamente anche Ettore Tito fu ammaliato dalle nuove possibilità che questo mezzo offriva agli artisti: non sappiamo se scattò delle fotografie, perché non ci sono rimaste prove al riguardo, ma sicuramente ne conosceva tecniche, trucchi, inquadrature.

Ettore Tito, Sulla laguna (1897; Venezia, Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro)
Ettore Tito, Sulla laguna (1897; Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro)

Infine, il mare, elemento costante e pressoché onnipresente, anche per motivi geografici, nell’arte di Ettore Tito. E anche quando non è visibile entro i limiti fisici della composizione, spesso se ne percepisce la presenza, si avverte che una scena è ambientata nei pressi della costa perché la luce avvolgente e abbacinante fa percepire la vicinanza del mare. È vicino al mare, su una spiaggia, che si svolge la vicenda delle Pagine d’amore, opera conservata presso le Raccolte Frugone di Genova, e che conobbe un grande successo quando fu esposta per la prima volta, alla Biennale di Venezia del 1909. Una gustosa scena di genere ambientata sotto un pergolato sulla spiaggia, dove alcune donne ascoltano la lettura di una lettera d’amore da una di loro, che porta i capelli rosso fuoco avvolti in un velo bianco, suggerito da brevi e rapide pennellate sulle quali però si posano tocchi di colore per cercare effetti luministici, come un po’ in tutto il quadro. La luce è quella un po’ soffusa, dolce, fresca e radente di quel particolare momento in cui il giorno sta per cedere alla sera: il sole scompare gettando gli ultimi bagliori, le ombre si allungano per trasformarsi poi in una penombra che avvolgerà la spiaggia smorzando la calura, e il cielo si tinge di rosa. Il dipinto è suggestivo: sembra quasi di percepire il silenzio della spiaggia interrotto solo dal rumore sommesso della risacca, dai fruscii delle vesti mosse dal vento e dalla voce soave della ragazza che legge la lettera. E magari delle timide risate di quella che sorride poggiando il mento sul dorso della mano.

Ettore Tito, Pagine d'amore (1909; Genova, Raccolte Frugone)
Ettore Tito, Pagine d’amore (1909; Genova, Raccolte Frugone)

Realizzato nel 1909, e anch’esso esposto alla Biennale di Venezia, è un altro dipinto “acquatico”, ambientato però in un fiume invece che al mare: l’opera è Il bagno e ci presenta una ragazza, dalle forme leggiadre e sinuose, che si sta rinfrescando sotto le fronde di un albero, mentre con fare vezzoso si sistema i capelli. Il pennello di Ettore Tito crea effetti di luce sull’acqua che crea cerchi concentrici attorno alle gambe della giovane, immerse fino a metà polpaccio, ma soprattutto crea, sempre col tramite della luce, un corpo bello, che ispira sensualità e amore, che ricorda, come molti notarono anche all’epoca, i voluttuosi nudi di Anders Zorn, ma che riporta anche alle dee greche dell’antichità: non bisogna tralasciare l’influenza che anche l’arte classica giocò sulla poetica del pittore campano di nascita, ma veneto d’adozione. Non di rado capita di imbattersi, nella sua produzione, in scene mitologiche: ninfe che giocano sulle rive del mare, Veneri che nascono dalle onde, sirene che emergono dai flutti.

Ettore Tito, Il bagno (1909; Parigi, Musée d'Orsay)
Ettore Tito, Il bagno (1909; Parigi, Musée d’Orsay)

Ettore Tito, Il bagno, particolare
Ettore Tito, Il bagno, particolare

Vale la pena, a tal proposito, citare almeno Le ninfe della Galleria Ricci Oddi di Piacenza, esposto alla Biennale veneziana del 1912. Nello stesso anno in cui i pittori futuristi iniziavano a mostrare pubblicamente le loro opere, Ettore Tito rimaneva saldamente ancorato a una tradizione figurativa tersa, luminosa, che guardava a un passato felice e ricco di altisonanti esperienze. Una tradizione che gli permetteva di ambientare la danza delle sue ninfe nude e leggere in un paesaggio tipico della Laguna Veneta, facendo risaltare i corpi veronesiani delle ninfe attraverso la luminosità solare della laguna, con i salici che si rispecchiano sull’acqua dove galleggiano le ninfee. Il tutto unito a quel lirismo che par sempre scorrere nelle pennellate di uno dei pittori più poetici, evocativi e suggestivi della sua generazione.

Ettore Tito, Le ninfe (1912; Piacenza, Galleria Ricci Oddi)
Ettore Tito, Le ninfe (1912; Piacenza, Galleria Ricci Oddi)


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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