Giotto: il polittico Baroncelli riunito


Il Polittico Baroncelli è un'opera chiave della maturità di Giotto. Un articolo per parlare di questo splendido dipinto conservato a Firenze, Basilica di Santa Croce

La mostra milanese su Giotto (1267 - 1337) ha avuto, a mio avviso, uno dei suoi due apici nell’esposizione del Polittico Baroncelli ricongiunto per l’occasione alla cuspide del pannello centrale (l’altro culmine, invece, può essere individuato nella presenza in mostra del Polittico Stefaneschi, che esce per la prima volta dai Musei Vaticani). Il polittico Baroncelli e la sua cuspide, normalmente, sarebbero divisi da migliaia di chilometri, dal momento che il primo si trova a Firenze, nella Basilica di Santa Croce, e la seconda è conservata presso il Museum of Art di San Diego, in California. Spetta a Federico Zeri il merito d’aver riconosciuto, nel frammento americano, la “punta” che anticamente completava il pannello centrale del polittico. E perché non si trovi più assieme al resto del dipinto è presto detto: nel Quattrocento inoltrato un valente pittore fiorentino, Sebastiano Mainardi (1460 - 1513), si trovò ad adattare il polittico ai gusti dell’epoca, secondo una prassi per quei tempi accettabile. Via quindi la cornice gotica, via la cuspide per inserire gli scomparti all’interno di una rinascimentale cornice rettangolare, ed ecco comparire, negli intervalli lasciati dagli archi ogivali degli scomparti, i serafini rossi di chiara matrice ghirlandaiesca e attribuibili senza troppi dubbi a Mainardi.

Il Polittico Baroncelli in Santa Croce
Il Polittico Baroncelli nella sua collocazione abituale: la Cappella Baroncelli nella Basilica di Santa Croce a Firenze


Il Polittico Baroncelli alla mostra di Milano
Il Polittico Baroncelli ricongiunto alla sua cuspide nella mostra Giotto, l’Italia (Milano, Palazzo Reale, 2 settembre 2015 - 10 gennaio 2016)

Giotto e Taddeo Gaddi, cuspide del polittico Baroncelli
Giotto e Taddeo Gaddi, Il Padreterno con gli angeli, cuspide del polittico Baroncelli (1328 circa; tempera su tavola; 71 x 75 cm; San Diego, The San Diego Museum of Art)
Partiamo dalla cuspide: in che modo Federico Zeri giunse a intuire che si trattasse di una parte del polittico Baroncelli? Il frammento, ricorda lo studioso nel suo saggio Due appunti su Giotto (pubblicato nel 1957 nella rivista Paragone), era già stato riconosciuto negli anni Trenta come opera di Giotto da un altro grande storico dell’arte del passato, Lionello Venturi, che però lo assegnò al periodo padovano dell’artista (dunque tra il 1303 e il 1309), senza riconoscerne l’esatta provenienza. Zeri, dal canto suo, s’accorse che il soggetto e le misure del frammento non potevano far supporre che si trattasse della cuspide d’una tavola isolata, e inoltre, come si può facilmente vedere, nella parte inferiore del dipinto si scorge la sommità d’un triangolo, il che lasciava intendere che quella figura dovesse essere la cima d’un trono. Il trono, dice Zeri, è compatibile unicamente con due soggetti: una Madonna col Bambino in trono, o un’Incoronazione della Vergine, il che restringerebbe notevolmente il cerchio dei possibili dipinti ai quali riferire il frammento. Se si passa poi a esaminare il pannello centrale del Polittico Baroncelli, si può ben vedere che gli archetti che decorano i bordi dello scomparto coincidono con quelli che ornano il bordo della cuspide. Identica è inoltre la fascia decorativa che corre all’esterno degli archetti, identico è l’ornamento dei peducci degli archetti, e ovviamente il triangolo della cuspide combacia con il trono della scena centrale del polittico Baroncelli, dove è raffigurata, appunto, una incoronazione della Vergine. Sono questi gli elementi che hanno portato a un riconoscimento oggi accettato da tutta la critica: si comprende dunque la grande occasione offerta dalla mostra Giotto e l’Italia, che dà modo di vedere assieme polittico e cuspide.

Al centro di quest’ultima vediamo la raffigurazione di Dio che regge il libro con l’alfa e l’omega (simbolo dell’inizio e della fine) e tiene nella mano destra una spada e nella sinistra un ramo dell’albero della vita. Sotto a lui accorrono degli angeli che, per usare le parole di Federico Zeri, “si dirigono con fulmineo, rapidissimo volo verso ciò che, nella parte centrale e superiore della figurazione, risplende di tale irresistibile fulgore da risultare insostenibile anche per esseri di puro spirito”: sono quindi costretti a ripararsi dall’abbagliante luce divina facendosi schermo con le mani oppure, molto curiosamente, con filtri di vetro affumicato. Zeri, tuttavia, riferiva non a Giotto, bensì a Taddeo Gaddi (1300 circa - 1366) l’esecuzione degli angeli. Occorre infatti evidenziare come il polittico Baroncelli sia un dipinto alquanto problematico: si è a lungo dibattuto circa la datazione e soprattutto circa l’estensione degli interventi di Giotto sul dipinto, dacché c’è stato chi ha riferito il dipinto, nella sua interezza, al maestro toscano, e chi invece ha ipotizzato aiuti più o meno ampi. Se il dibattito sulla datazione si è assestato, trovando dunque una collocazione temporale per il dipinto attorno alla data in cui fu edificata la cappella Baroncelli (quindi verso il 1328), è stato più complicato individuare mani diverse rispetto a quelle di Giotto nell’esecuzione dell’opera, un’opera che rappresenta uno dei vertici della produzione dell’artista. Nel pannello centrale, come s’è già detto, troviamo un’incoronazione della Vergine, mentre ai lati i quattro pannelli sono interamente occupati da schiere di santi e angeli musicanti che contemplano estasiati la visione che si para dinnanzi a loro. Ricaviamo dal complesso una sensazione di profonda armonia e di grande raffinatezza: un complesso che abbina felicemente la modernissima concezione dell’unitarietà degli scomparti del polittico (le cinque tavole infatti partecipano alla stessa scena) al più arcaico gusto dei santi che, pur occupando piani sfalsati, sono disposti in modo equilibrato e quasi geometrico. I santi, peraltro, sono spesso connotati individualmente, e all’osservatore non può sfuggire la figura col copricapo rosso che, nel secondo pannello, volge lo sguardo in direzione opposta rispetto agli altri: pur senza aver alcuna certezza in merito, potrebbe trattarsi di una figura che Giotto ha inserito per rompere momentaneamente l’equilibrio e far assumere pertanto una connotazione più marcatamente terrena al suo dipinto. Completano la composizione i gustosi angeli che, nel suonare i loro strumenti, denotano una varietà e una accuratezza che renderebbero pressoché incontrovertibile la loro assegnazione alla mano di Giotto.

Giotto e Taddeo Gaddi, Polittico Baroncelli
Giotto e Taddeo Gaddi, Polittico Baroncelli (1328 circa; tempera su tavola, 185 x 323 cm; Firenze, Basilica di Santa Croce, Cappella Baroncelli)


Particolare dello pannello centrale e del secondo scomparto
Particolare dello pannello centrale e del secondo scomparto


Particolare degli angeli musicanti
Particolare degli angeli musicanti

Si è anticipato che il polittico Baroncelli è un’opera che ha avuto attorno a sé un dibattito piuttosto serrato. Fino all’Ottocento era ritenuto opera dovuta esclusivamente a Giotto: tale la consideravano i commentatori più antichi, tra i quali Vasari che ci parlava di “una tavola a tempera di man di Giotto, dove è condotta con molta diligenza l’incoronazione di Nostra Donna, et un grandissimo numero di figure piccole, et un coro di Angeli e di Santi molto diligentemente lavorati”, e aggiungeva che “in questa opera è scritto a lettere d’oro il nome suo et il millesimo”. Si tratta infatti di una delle poche opere firmate dall’artista toscano, che negli eleganti esagoni neri che corrono sul bordo inferiore del polittico, molto distanziati l’uno dall’altro, ha apposto una lettera per ogni figura a formare la frase OPUS MAGISTRI JOCTI, “Opera del maestro Giotto”. Proprio su questa firma si concentrarono i primi dubbi degli studiosi. Adolfo Venturi, in particolare, supponeva che l’iscrizione facesse parte della cornice ideata nel Quattrocento, aprendo la via alle reazioni di altri eminenti storici dell’arte che subito lo seguirono nel negare la paternità giottesca del dipinto: Venturi, nel 1907, formulò il nome di Taddeo Gaddi, attribuzione che Pietro Toesca definì “plausibile” nel 1927 (anche perché la poneva in relazione agli affreschi della cappella Baroncelli, realizzati proprio da Taddeo Gaddi) e che fu largamente accettata dalla critica del tempo. Nel 1941 Luigi Coletti dimostrava l’originalità della firma, pur avvisando che il fatto che la firma fosse trecentesca non significasse che il dipinto era automaticamente da attribuirsi a Giotto. Per una netta rivalutazione del nome di Giotto come “padre” del dipinto toccò attendere qualche anno: in particolare, Roberto Longhi tendeva a riconoscere, specialmente nel pannello centrale, la mano di Giotto, e sulla base di tali considerazioni diversi altri studiosi avrebbero poi ipotizzato che il dipinto dovesse essere il risultato di una collaborazione tra Giotto e la sua bottega, o un suo preciso allievo (il già citato Taddeo Gaddi). Proprio a una collaborazione tra Giotto e Taddeo Gaddi pensava Federico Zeri: il fatto che il polittico sia strettamente legato agli affreschi gaddiani che decorano la cappella in cui il dipinto e conservato, e la concezione moderna alla base dell’opera, ascrivibile al genio di Giotto, potrebbero in effetti suggerire tale ipotesi, che è anche quella che al giorno d’oggi riscontra forse il più largo favore da parte della critica.

Ai nodi sulla datazione e sugli interventi non può essere dunque apposta una conclusione certa e definitiva, ancorché si sian fatte strada determinate supposizioni che parrebbero accogliere ampi consensi. Quel che è certo, è che si tratta di una delle più affascinanti opere ideate dal maestro che rivoluzionò la storia dell’arte.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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