Gli splendori settecenteschi di Lorenzo De Ferrari in Palazzo Tobia Pallavicino a Genova


Continua il viaggio dentro a Palazzo Tobia Pallavicino (Genova), questa volta per scoprire la parte settecentesca decorata da Lorenzo De Ferrari.

Qualche giorno fa vi abbiamo portato alla scoperta di un brano di cultura raffaellesca a Genova: gli affreschi di Giovanni Battista Castello, detto il Bergamasco, in Palazzo Tobia Pallavicino. Prima di arrivare a parlare dei dipinti vi avevamo anche fatto qualche piccolo cenno alla storia dell’edificio, commissionato da uno dei più ricchi patrizi della Genova di metà Cinquecento (Tobia Pallavicino, per l’appunto). E vi avevamo detto che, nei secoli successivi, il palazzo cambiò i proprietari. La famiglia Pallavicino infatti risiedette nell’edificio fino agli inizi del Settecento: poi, nel 1704, un discendente di Tobia, Ignazio Pallavicino, vendette il palazzo al marchese Giacomo Filippo Carrega. Poiché nel 1830 i baroni Cataldi ne rilevarono la proprietà, l’edificio oggi è noto anche come Palazzo Carrega-Cataldi. Bene: tornando al Settecento, occorre partire dicendo che i Carrega diedero il via a una serie di ampliamenti. Il palazzo, tra il 1710 e il 1714, fu alzato di un piano, mentre qualche anno più tardi Giambattista Carrega, figlio di Giacomo Filippo, dotò l’edificio di due nuove ali e di un cortile interno.

La facciata di Palazzo Tobia Pallavicino
La facciata di Palazzo Tobia Pallavicino

È del tutto lecito immaginare che i nuovi spazi andassero adeguatamente decorati: e Giambattista Carrega, terminati i lavori sulla struttura, non perse tempo. Uno dei nuovi ambienti era la Cappella gentilizia del Palazzo, che fu realizzata nella seconda fase dei lavori di ampliamento, ovvero tra il 1727 e il 1746 (ma fu finita, comunque, ben prima di quest’ultima data). Si tratta di uno spazio davvero molto particolare, e per comprendere al meglio la sua storia è necessario soffermarsi per qualche istante sulla splendida Madonna col Bambino che troviamo al suo interno. Chiariamo fin da subito che si tratta di una copia dell’originale che i Carrega acquistarono per il palazzo: quest’ultima scultura, opera di un importante artista francese, Pierre Puget, ha infatti conosciuto diversi spostamenti. L’opera fu scolpita attorno al 1680 per un nobile genovese, probabilmente un membro dell’influente famiglia Balbi, dal momento che i documenti ci attestano la sua presenza, nel 1717, in un palazzo appartenente proprio ai Balbi. Acquistata poi, come detto, dai Carrega, fu collocata nella Cappella del palazzo, ma ne uscì quando l’edificio fu acquistato dai Cataldi. Passata quindi nelle raccolte dell’imprenditore e collezionista Luigi Frugone, fu da quest’ultimo donata alla città nel 1937 e venne così destinata al Museo di Sant’Agostino. Al fine di colmare il vuoto lasciato nella cappella di Palazzo Tobia Pallavicino, la Camera di Commercio, nel 2004, ha deciso di sistemare la copia nello spazio un tempo occupato dall’originale.

Non è azzardato ipotizzare che la decorazione della cappella fosse stata ideata proprio con lo scopo di dare risalto all’opera di Pierre Puget. E per portare a buon fine l’operazione, i Carrega chiamarono uno dei pittori genovesi più in auge nella prima metà del Settecento: Lorenzo De Ferrari (Genova, 1680 - 1744). Siamo attorno al 1740: l’artista concepì un impianto di grande impatto scenografico. Entrando nella piccola cappella, si ha quasi l’impressione che sulla parete di fondo si trovi un’abside profonda, scandita da una serie di colonne dorate che sorreggono una fastosa (ma leggera) trabeazione rococò, mentre sullo sfondo si apre un paesaggio collinare. Al centro di questa struttura, proprio nel mezzo del semicerchio creato dalle colonne, la statua di Puget è colpita dalla luce artificiale affinché risalti sullo sfondo. Se ci spingiamo per osservare meglio il colonnato della parete di fondo, noteremo che si tratta di nient’altro che un effetto illusionistico: in realtà non c’è alcun’abside, e la profondità del vano è sufficiente ad accogliere giusto la statua. Lorenzo De Ferrari ha realizzato le sue colonne in stucco dorato modellandole in modo da dare all’osservatore l’illusione della profondità: un sorprendente trompe l’oeil (con tale termine ci si riferisce a questo genere di pittura, che intende ingannare l’occhio dell’osservatore: l’espressione significa proprio “inganna l’occhio”), che ci illude di trovarci di fronte a uno spazio molto più ampio di quanto non lo sia in realtà. E per accrescere l’effetto, sulla parete opposta è stato posizionato uno specchio in cui la finta abside si riflette, in modo tale che le proporzioni dello spazio paiano farsi più ampie.

La cappella gentilizia
La cappella gentilizia di Palazzo Tobia Pallavicino (o Palazzo Carrega-Cataldi). Architetture dipinte da Lorenzo De Ferrari (1740 circa), statua di Pierre Puget (copia)

Gli specchi erano, del resto, utilizzati senza risparmio nelle decorazioni rococò, proprio con lo scopo di creare effetti scenografici e impressionare l’osservatore. E di specchi fa uso abbondante il più importante degli ambienti decorati da Lorenzo De Ferrari nel Palazzo: la celebre Galleria Dorata, la cui realizzazione risale agli anni 1743-1744. Una collocazione temporale che renderebbe l’impresa l’ultimo lavoro della vita dell’artista genovese. Si tratta di uno dei più grandi capolavori del rococò ligure: anzi, uno dei maggiori storici dell’arte del secolo scorso, Rudolf Wittkower, definì la Galleria Dorata “una delle più sublimi creazioni di tutto il diciottesimo secolo”. L’importanza di questo ambiente travalica, insomma, i confini della città, della regione, e forse anche dell’Italia: e per comprenderne i motivi è sufficiente recarsi al suo interno. La Galleria Dorata ci si presenta come un ambiente unico, colmo di quegli stucchi dorati, disegnati dallo stesso Lorenzo De Ferrari e realizzati probabilmente dallo stuccatore Diego Carlone, che dànno il nome alla sala e che incorniciano i dipinti dell’artista genovese. Putti, virtù alate, festoni, ghirlande e conchiglie si uniscono in un abbagliante intreccio che muove a meraviglia tutti i visitatori di questo sontuoso ambiente, e che De Ferrari studiò apposta per dare, come nella Cappella, l’idea di trovarsi in un locale che appaia ancora più grande di quanto effettivamente sia. L’artista pensò infatti di collocare numerosi specchi nella sala, che potessero riflettere l’oro degli stucchi in modo da esaltare la luce naturale proveniente dalle finestre: la sensazione è quella di trovarsi, insomma, in una galleria sfavillante, colma di luce.

Uno specchio è anche collocato sul grande tavolo al centro della sala: e non assolve solo a una funzione scenografica, ma fa quasi da enorme lente d’ingrandimento, in quanto sulla sua superficie si riflette perfettamente l’arioso affresco della volta, anch’esso opera di Lorenzo De Ferrari, consentendoci di studiarlo nei minimi particolari. Per l’ambiente più sontuoso del palazzo, i committenti vollero una serie di dipinti che potesse celebrare, in chiave letteraria, la loro cultura classica: il ciclo è infatti dedicato alle Storie di Enea.

La Galleria Dorata
La Galleria Dorata


Virtù alata, particolare degli stucchi della Galleria Dorata
Virtù alata, particolare degli stucchi della Galleria Dorata


Putto, particolare degli stucchi della Galleria Dorata
Putto, particolare degli stucchi della Galleria Dorata


Il tavolo con specchio al centro della Galleria
Il tavolo con specchio al centro della Galleria

Nella volta è raffigurato un affollato Olimpo, che ci appare solcato da due vistose crepe: sono le cicatrici lasciate, purtroppo, dai bombardamenti che colpirono il palazzo il 7 novembre del 1942, durante la seconda guerra mondiale. Al centro del dipinto, Zeus, il re degli dèi, tiene in mano il suo scettro, mentre attorno a lui sono facilmente riconoscibili tutte le divinità della mitologia greco-romana: Dioniso, il Bacco degli antichi romani, ha il capo coronato di foglie di vite e porta con sé un tralcio colmo di grappoli d’uva bianca. Sotto di lui abbiamo Crono, riconoscibile per le vistose ali e per la falce, mentre sopra a Zeus riconosciamo Hermes, che arriva in volo con i calzari alati. Dietro Zeus, vestito da soldato, ecco Ares, dio della guerra, mentre a fianco del re dell’Olimpo vediamo una bellissima Afrodite (Venere, per i romani) assieme a Cupido, che con in mano il suo arco, suo tipico attributo iconografico, si appoggia alla gamba nuda della madre. Venere sta arrivando di corsa, e si rivolge a Giove con sguardo supplichevole: sta infatti chiedendo protezione per Enea, e il gesto della mano destra, che sembra indicare la terra, non dovrebbe lasciar adito a dubbi circa le sue intenzioni.

Lorenzo De Ferrari, Olimpo (1743-1744; affresco; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)
Lorenzo De Ferrari, Olimpo (1743-1744; affresco; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)

Enea, come detto, è il grande protagonista del ciclo di dipinti: le due lunette affrescate e i quattro tondi su tela narrano infatti le sue gesta. La lunetta nella parete che rimane sulla nostra destra quando entriamo nella Galleria, ci mostra Enea che sbarca nel Lazio dopo le sue peregrinazioni in fuga da Troia, mentre i due tondi sottostanti ci presentano, a sinistra, l’eroe che lascia appunto la città assieme alla moglie e al figlio Ascanio, portando sulle sue spalle il padre Anchise: Lorenzo De Ferrari si attiene scrupolosamente al racconto che Virgilio ha eternato nella sua Eneide. Il momento successivo della storia ci propone Enea con Didone, e lo vediamo nel tondo a destra. Il programma iconografico tuttavia non prevedeva che si lasciasse troppo spazio alla travagliata storia d’amore tra i due: così, nella parete opposta, la lunetta raffigura l’eroe troiano mentre trova il ramo d’ulivo dorato che, stando alle disposizioni dategli dalla Sibilla Cumana, gli avrebbe reso più semplice l’uscita dagli inferi, dove era sceso per incontrare il padre morto da poco (e dove avrebbe poi incontrato anche Didone, morta suicida dopo il suo abbandono). Anchise gli avrebbe mostrato le anime in attesa di incarnarsi e destinate a diventare grandi. Ciò sarebbe stato possibile però solo grazie all’impresa di Enea, che si reca quindi nel Lazio: il tondo a sinistra lo raffigura mentre riceve le armi da Venere, in preparazione della battaglia che lui e i suoi compagni avrebbero dovuto affrontare contro i rutuli, guidati dal loro re Turno. Nell’ultimo tondo, Lorenzo De Ferrari dipinge lo scontro finale tra Enea e Turno: l’eroe troiano ha la meglio, uccide il rivale in battaglia e può permettere ai troiani di stabilirsi nel Lazio e di dare il via alla discendenza dalla quale si fa, per tradizione, partire la storia di Roma.

Lorenzo De Ferrari, Storie di Enea (1743-1744; affreschi e dipinti a olio su tela; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)
Lorenzo De Ferrari, Storie di Enea (1743-1744; affreschi e dipinti a olio su tela; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino). In alto: Enea sbarca nel Lazio (affresco). Tondo a sinistra: fuga da Troia (olio su tela). Tondo a destra: Enea e Didone (olio su tela).


Lorenzo De Ferrari, Storie di Enea (1743-1744; affreschi e dipinti a olio su tela; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)
Lorenzo De Ferrari, Storie di Enea (1743-1744; affreschi e dipinti a olio su tela; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino). In alto: l’ulivo dorato (affresco). Tondo a sinistra: Enea riceve le armi da Venere (olio su tela). Tondo a destra: Enea sconfigge Turno in battaglia (olio su tela).

Le pose dei personaggi sono teatrali e richiamano atteggiamenti tipici delle statue, e non è raro trovare riferimenti alla statuaria classica: si notino, per esempio, le ninfe vicine a Enea nella scena dell’ulivo dorato, modellate sull’esempio delle allegorie dei fiumi dell’arte classica. A far da contraltare alle tre ninfe fluviali è la dea Venere che, assieme a Cupido, appare immediatamente sopra: la grazia e la leggerezza rococò, con le quali siede sulla nube e tiene per la mano il figlio nel tentativo di addormentarlo, sono quanto di più lontano dalla solennità quasi monumentale del gruppo che vediamo subito sotto. A metà tra queste due tendenze si colloca la figura di Enea: trionfante come un eroe antico, ma anche lui leggero e flessuoso come da tipici stilemi settecenteschi (benché il suo atteggiamento effeminato e il suo mantello che vola in tutte le direzioni contribuiscano a sbilanciare le due componenti verso quella più marcatamente rococò). Questo è l’ultimo capolavoro di Lorenzo De Ferrari: un’esuberante scenografia in costante equilibrio tra classicismo e rococò, curata nei minimi dettagli (l’artista realizzò numerosi disegni per ogni singola opera, studiando gli atteggiamenti dei personaggi, le pose, le composizioni con minuziosa attenzione) e che coinvolge ogni elemento (la mobilia stessa è parte integrante dell’ambiente), così da coinvolgere al massimo anche noi che entriamo nella Galleria Dorata.

Dalla grazia raffaellesca agli splendori rococò, dalle grottesche del Bergamasco agli stucchi di Lorenzo De Ferrari, Palazzo Tobia Pallavicino (o, se preferite, Palazzo Carrega-Cataldi) è uno degli scrigni più preziosi di Genova: uno scrigno poco noto, in cui però è possibile vedere come il gusto cambiò nei secoli (e secondo le inclinazioni dei committenti), nonché alcuni dei capolavori di due tra gli artisti che hanno reso grande una città che non finisce mai di sorprendere chi la visita.

Bibliografia di riferimento

  • AA.VV., Genova Palazzo Tobia Pallavicino, Sagep, 2013
  • Cristina Bartolini, Gianni Bozzo, Genova: Palazzo Carrega Cataldi, Sagep, 2000
  • Rudolf Wittkower, Art and architecture in Italy, 1600 to 1750, Yale University Press, 1999 (quarta edizione)
  • AA.VV., Pierre Puget (Marsiglia 1620-1694): un artista francese e la cultura barocca a Genova, catalogo della mostra (Marsiglia, Centre Vieille Charité e Musée des Beaux-Arts, 28 ottobre 1994 - 30 gennaio 1995), Mondadori Electa, 1995
  • Emanuela Brignone Cattaneo, Roberto Schezen, Genova: edifici storici e grandi dimore, Allemandi, 1992
  • Ezia Gavazza, La grande decorazione a Genova, Sagep, 1974
  • Pietro Torriti, Tesori di Strada Nuova: la Via Aurea dei genovesi, Sagep, 1971
  • Ezia Gavazza, Lorenzo De Ferrari (1680-1744), Edizioni La Rete, 1965


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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