La protesta degli immigrati a Palazzo Strozzi conferma il significato di “Reframe” di Ai Weiwei


Un gruppo di immigrati occupa per protesta la mostra 'Libero' di Ai Weiwei: forse è stata la miglior conferma del significato dell'installazione 'Reframe'.

Sembrerà sicuramente inappropriato parlare di arte quando, di mezzo, c’è la vita di una persona, la cui importanza non è neanche paragonabile a quella di un’opera d’arte. Ma quanto accaduto oggi a Firenze è forse la miglior risposta che poteva essere data a quanti, nei mesi scorsi, hanno sollevato polemiche circa il senso e il valore di Reframe, l’installazione di Ai Weiwei sulla facciata di Palazzo Strozzi inserita nel percorso della mostra Libero. All’artista cinese sono state mosse diverse accuse: dall’essere furbo all’essere semplicemente un opportunista per aver fatto del dolore dei migranti una sorta di marchio di fabbrica. Eppure, oggi, quegli stessi migranti che ci appaiono così distanti dal nostro quotidiano, così avulsi dalla nostra realtà, e le cui tragedie spesso non costituiscono che un argomento su cui discutere cinque minuti dopo la fine del telegiornale delle venti, hanno scelto proprio la mostra di Palazzo Strozzi come luogo da occupare simbolicamente per protestare contro uno Stato le cui negligenze, a detta degli occupanti, sarebbero all’origine della morte di Alì Muse, immigrato somalo che ha perso la vita nel rogo del capannone abbandonato in cui viveva assieme ad altri immigrati. Era rientrato, malgrado le fiamme, per recuperare i documenti che avrebbero consentito alla sua famiglia di ricongiungersi a lui.

Reframe di Ai Weiwei
Reframe di Ai Weiwei

Per molti, Reframe era soprattutto un modo che l’artista ha usato per far parlare di sé, per ottenere ancora più fama, per far salire le quotazioni delle proprie opere. Eppure noi di Finestre sull’Arte abbiamo sempre nutrito fiducia nei confronti di Ai Weiwei. È vero, è un artista estremamente autoreferenziale, al punto da essere a più riprese tacciato di vittimismo. Ma come può non essere sincero il messaggio di un artista che ha vissuto in prima persona le persecuzioni e le discriminazioni, fin dai primi anni della propria esistenza? Di certo è molto significativo il fatto che un gruppo di migranti abbia scelto il palazzo in cui si svolge la sua mostra come teatro della protesta. Significa che il messaggio, a qualcuno, è arrivato. Ma non solo: è stato colto da quanti, in quei gommoni, probabilmente si riconoscono, perché da lì sono passati per arrivare in Italia. Sì, non sono uguali a quelli su cui si sono imbarcati, ma non importa. Loro hanno comunque ben presente il significato di quei gommoni. Sanno cosa significhi aver riposto in quei gommoni tutte le proprie speranze, aver patito fame, sete, tormenti, torture, aver perso affetti, aver compiuto un viaggio pericoloso e rischiosissimo per riuscire a ottenere condizioni di vita migliori.

La protesta degli immigrati a Palazzo Strozzi
La protesta degli immigrati a Palazzo Strozzi. Foto distribuita con licenza Creative Commons da Firenze Post
A loro sicuramente non interessano le nostre beghe da pollaio. Mentre noi discutiamo su argomenti futili, a cominciare dalla miserabile distinzione di trattamento da riservare eventualmente a “migranti politici” e “migranti economici” (come se esistessero una serie A e una serie B per chi tenta di costruirsi un futuro più roseo), per continuare col presunto “deturpamento” della facciata di Palazzo Strozzi, c’è gente che per vivere (o per provare a vivere) deve occupare un capannone abbandonato alla periferia di Firenze. E deve veder morire un proprio amico, un proprio compagno, un proprio parente, perché ovviamente un ex mobilificio abbandonato non rappresenta proprio il massimo degli standard di sicurezza. Però, di fronte alla tragedia e alle avversità, questi immigrati hanno trovato un simbolo attorno a cui raccogliersi. Pacificamente, in maniera composta, e scusandosi con i visitatori della mostra: “non ce l’abbiamo con voi, ma con lo Stato italiano”. Una grandissima dimostrazione di civiltà a noi che spesso berciamo contro la loro presenza, rinfacciando loro di essere arrivati in un paese civile. E quel simbolo è un’opera dileggiata per la sua forma, criticata per la sua sostanza.

Ora potremo pure continuare a discutere sul fatto che quella di Ai Weiwei non sia arte. Sul fatto che venga chiamato da curatori e direttori di musei perché le sue produzioni vanno particolarmente di moda. Sul fatto che la sua autoreferenzialità sia più o meno sopportabile. Sul fatto che le sue installazioni siano più assimilabili ai comizi di un politico piuttosto che alla produzione di un artista. Ma di fronte a un assembramento spontaneo di migranti che, lo ripetiamo, sanno cosa significhino quei gommoni e che li scelgono come simbolo della loro protesta, ci sembra cadano le accuse di furbizia e di opportunismo. Perché quei gommoni sono stati scelti come mezzo per gridare con forza al paese in quali misere condizioni si trovino molte persone che dovremmo accogliere. E, di conseguenza, Ai Weiwei è diventato un artista capace di trasmettere valori. È forse banale ed è anche retorico affermarlo. Ma può darsi che non sia inutile: se nei prossimi giorni a queste persone verrà trovata una sistemazione più dignitosa, come da loro richiesta, una parte del merito, forse, sarà da riconoscere anche a quell’installazione sulla facciata di Palazzo Strozzi.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo



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