Non è la solita mostra su Artemisia Gentileschi: una lettura della rassegna di Palazzo Braschi


Recensione della mostra 'Artemisia Gentileschi e il suo tempo' a Roma, Museo di Roma (Palazzo Braschi), fino al 7 maggio 2017.

Per avvicinarsi nel modo più corretto alla mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo, in corso al Museo di Roma fino al 7 maggio, la prima condizione necessaria è liberarsi da eventuali preconcetti: prima di varcare la soglia di Palazzo Braschi si potrebbe infatti pensare che si tratti della solita, ennesima mostra su Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 - Napoli 1653). L’esposizione romana segue infatti le tante rassegne che, negli ultimi anni, sono state dedicate alla pittrice secentesca, e in favore delle quali ha giocato l’autentico mito originatosi a partire dalla tormentata vicenda biografica della donna e adeguatamente alimentato da romanzi e film. Più nel dettaglio, la mostra di Palazzo Braschi arriva (escludendo la piccola rassegna pisana del 2013) ad appena cinque anni di distanza dal grande evento di Palazzo Reale a Milano, che a sua volta giungeva dieci anni dopo la prima monografica dedicata ad Artemisia (e al padre Orazio), che si tenne in tre tappe (Roma, New York e Saint Louis) tra il 2001 e il 2002. La differenza sostanziale che separa Artemisia Gentileschi e il suo tempo da tutte le operazioni che l’hanno preceduta consiste nel fatto che, delle circa cento opere esposte a Palazzo Braschi, quelle di Artemisia costituiscono la netta minoranza (sono infatti ventinove): i curatori hanno scelto di dare più spazio al contesto storico-artistico entro cui si dipanò la carriera della pittrice.

Il risultato è una mostra lunga, che segue Artemisia nei suoi spostamenti (le sezioni sono infatti dedicate ai diversi momenti della sua carriera), e non particolarmente facile: non solo perché la Roma del primo decennio del Seicento, la Firenze degli anni Dieci-Venti e la Napoli degli anni Trenta-Quaranta presentavano realtà differenti (tanto che per organizzare al meglio la mostra s’è resa necessaria una tripla curatela: Judith Mann per la sezione romana, Francesca Baldassari per quella fiorentina e Nicola Spinosa per quella napoletana), ma anche perché uno dei problemi della mostra consiste nel fatto che talvolta il visitatore non è messo nelle condizioni di cogliere al meglio i debiti e i lasciti stilistici di Artemisia. Per tale motivo, le affinità o le divergenze che la uniscono o la separano dai tanti artisti scelti per contestualizzare le sue opere emergono soprattutto sul piano iconografico. Nella sezione sul ritorno a Roma, per esempio, ci si accorgerà di come Domenico Fiasella, nella sua Giuditta di Novara, firmata e datata 1626, introduca l’assoluta novità dell’eroina che fa passare la spada con cui ha appena decapitato Oloferne sulla fiamma d’una candela, in segno di purificazione (malgrado risulti alquanto ostico comprendere per quali ragioni il pittore ligure sia stato infilato nella summenzionata porzione della mostra, dato che negli anni Venti si trovava a Genova).

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne
Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (1616-1617 circa; olio su tela, 146,5 x 108 cm; Firenze, Uffizi)


Domenico Fiasella, Giuditta con la testa di Oloferne
Domenico Fiasella, Giuditta con la testa di Oloferne (1626; olio su tela, 117 x 135 cm; Novara, Musei Civici)

Al di là delle mancanze di cui s’è detto, che comunque ci sentiamo di ritenere comprensibili per una mostra di tali proporzioni, in grado di rileggere la carriera di Artemisia con un taglio inedito, occorre registrare anche alcune significative novità proposte dai curatori. Una delle più importanti è un disegno conservato in collezione privata a Londra e identificato come un autoritratto di Artemisia: sarebbe, assicurano i curatori, l’unico disegno che conosciamo riferibile all’artista, importante anche come prova dell’ascendente toscano della sua formazione. Altre novità riguardano la lettura della figura stessa di Artemisia, a cominciare dal tentativo di rimuovere il pregiudizio della “pittrice in costante lotta contro il mondo” che avrebbe condizionato tutta la sua carriera (invero già da tempo del tutto estraneo agli studiosi, ma ancora resistente presso il grande pubblico): passeggiando per le sale della mostra ci accorgeremo non solo del fatto che Artemisia fosse riuscita a superare con grande rapidità le vicissitudini legate alla violenza subita per mano di Agostino Tassi (anzi: scopriremo un’Artemisia forse poco nota, ovvero una donna ben inserita nelle corti del tempo, capace anche di intrattenere relazioni extraconiugali, mal tollerate dal marito), ma anche di come la violenza insita in molte opere della pittrice sia in realtà ricorrente nella produzione di molti altri artisti del tempo. Altra novità di rilievo è lo stesso intento di ricostruire la carriera di Artemisia rendendo evidenti le sue connessioni con il mondo che la circondava: un intento che spesso era venuto meno nelle esposizioni precedenti, e che forse costituisce il principale motivo di visita della mostra, anche perché i prestiti (non solo quelli di Artemisia) sono per la più parte di eccelsa qualità.

Certo è che l’esordio della mostra si rivela particolarmente faticoso, perché ricostruire le fasi iniziali della carriera di Artemisia è ancora operazione non facile, in ragione del fatto che i punti fermi sui quali possiamo basarci sono pochissimi. Ciò non toglie che le prime due sale, dedicate alla Roma d’inizio Seicento, pur con Artemisia assente, ci offrano un importantissimo saggio del contesto nel quale la giovane mosse i primi passi artistici: a Giovanni Baglione, Paolo Guidotti e Bartolomeo Manfredi è affidato il compito di fornire tre rappresentazioni della Giuditta biblica che ricorrerà nella produzione gentileschiana (la presenza dell’eroina è infatti pressoché costante lungo tutto il percorso della rassegna). Efficace la Maddalena di José de Ribera (benché risalga al 1618: siamo dunque in un’epoca in cui Artemisia aveva già lasciato la città eterna), ma più coerente è la presenza di due opere di un pittore troppo spesso trascurato come Antiveduto Gramatica, che partecipa con una Santa Cecilia e una Cleopatra poste sulla stessa parete, l’una accanto all’altra: opere che ci dimostrano come il pittore d’origini senesi fosse stato tra i primi a subire il fascino della lezione caravaggesca. Il grande rammarico è quello di non avere in mostra nessuna opera di Caravaggio: tuttavia, dal momento che ci troviamo a Roma (e per giunta a pochi metri da San Luigi dei Francesi), il visitatore potrà ovviare con facilità a tale lacuna.

Si accennava, poco sopra, ai punti fermi dell’attività giovanile di Artemisia: uno di questi è la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden, uno dei prestiti eccellenti dell’esposizione nonché prima opera della pittrice che incontriamo lungo il percorso. In particolare, troviamo il dipinto in una sala che pare quasi allestita per rendere dovuto omaggio al mito della “pittrice violata”. A riprova di ciò, il fatto che la Susanna si trovi in diretto confronto vis-à-vis con un dipinto, il Tempo che scopre la Verità e smaschera l’Inganno, che la studiosa Anna Orlando ha voluto attribuire a Domenico Fiasella (e su questa attribuzione occorrerebbe mettere tutti i condizionali del caso). In mostra viene posto a fianco della Danae di Artemisia, che Fiasella avrebbe pedissequamente ripreso (si tratterebbe di un caso unico nella sua produzione romana) per la figura della Verità: nell’opera attribuita a Fiasella si è voluto immaginare un attestato di solidarietà che il pittore di Sarzana avrebbe tributato alla giovane amica offesa. Su questo dipinto occorre pertanto rinviare il lettore a un successivo articolo, che pubblicheremo nei prossimi giorni. E, sempre a proposito di opere discusse, nello stesso ambiente il visitatore avrà modo d’interrogarsi di fronte alla Giuditta della collezione di Fabrizio Lemme: un dipinto che, per le evidenti discordanze con le altre opere note riferibili al triennio 1610-1612, è considerato d’attribuzione incerta e ancora oggetto di vivaci dibattiti (l’ultimo dei quali fomentato da Vittorio Sgarbi, che lo considera di mano di Caravaggio).

Sezione romana: le opere di Antiveduto Gramatica (a sinistra la Santa Cecilia, a destra la Cleopatra) e la Maddalena penitente di Giovan Francesco Guerrieri
Sezione romana: le opere di Antiveduto Gramatica (a sinistra la Santa Cecilia, a destra la Cleopatra) e la Maddalena penitente di Giovan Francesco Guerrieri


Artemisia: la Susanna di Pommersfelden e la Giuditta di Palazzo Pitti
Artemisia: la Susanna di Pommersfelden e la Giuditta di Palazzo Pitti


Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni
Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni (1610; olio su tela, 170 x 119 cm; Pommersfelden, Kunstsammlungen Graf von Schönborn)


Confronto tra la Verità attribuita a Domenico Fiasella e la Danae di Saint Louis di Artemisia
Confronto tra la Verità attribuita a Domenico Fiasella e la Danae di Saint Louis di Artemisia

La sezione fiorentina è probabilmente quella che funziona meglio, per almeno un paio di ragioni. Intanto, perché è articolata in due distinti segmenti che approfondiscono, nel primo caso, l’ambiente fiorentino e i debiti di Artemisia nei suoi confronti, e nel secondo, al contrario, quanto la pittrice lasciò agli artisti della Firenze del primo Seicento. E poi perché, al netto di alcune assenze (non ci sono, per esempio, opere di Matteo Rosselli), ben documenta la scena artistica della capitale del granducato di Toscana, i cui rapporti con Roma furono più stretti di quanto si possa immaginare: il granduca Cosimo II fece infatti giungere a Firenze opere dei principali artisti attivi nello Stato Pontificio, da Gerrit van Honthorst a Bartolomeo Manfredi e Bartolomeo Cavarozzi, passando per Battistello Caracciolo, che lavorò in prima persona presso la corte medicea. Ad attestare tali frequentazioni abbiamo dunque un Noli me tangere di Battistello, ma abbiamo anche opere che rendono testimonianza del percorso inverso, quello degli artisti toscani che studiarono a Roma e tornarono a Firenze: significativa pertanto la presenza di artisti come Filippo Tarchiani e Andrea Commodi. Artemisia, dal canto suo, oltre a ricevere un’ottima accoglienza in città (lo dimostrano i suoi rapporti con i Medici e il suo ingresso, datato 1616, nell’Accademia delle Arti del Disegno, unica presenza femminile), seppe sfruttare al meglio il soggiorno fiorentino per “smussare” le punte più acuminate e meno gentili della sua pittura ricavando, dalla vicinanza ai più raffinati pittori toscani del tempo (irrinunciabile, in mostra, il confronto con Cristofano Allori e la sua Giuditta, ma anche quello con Jacopo Chimenti di cui è presente un san Giuliano), un preziosismo e una morbidezza capaci di rendere indubbiamente più fine la sua arte.

Nella sala dedicata all’influenza che Artemisia esercitò sull’ambiente fiorentino, protagonista assoluta è l’Aurora del 1625 circa: secondo i curatori, l’eco dell’impostazione della figura della pittrice si riverbera nelle composizioni di alcuni artisti del tempo. Imperdibile, per esempio, il confronto con la disperazione della Venere che piange la morte di Adone di Francesco Furini, il più sensuale pittore della Firenze secentesca, a sua volta posto a paragone (sulla stessa parete) con la truculenza gentileschiana della Giaele e Sisara di Budapest (altro prestito di prim’ordine) che, in un ulteriore gioco di rimandi sanguinolenti, è collocato vicino alla Medea e richiama opere della sala precedente, come le due Giuditte, nelle versioni degli Uffizi e di Capodimonte (quest’ultima arrivata però in mostra con qualche mese di ritardo). La presenza di soggetti affrontati da altri pittori con violenza non minore rispetto a quella di Artemisia (a tale logica si sottrae forse solo la Lucrezia di Felice Ficherelli, che dipinge lo stupro sì con vivo senso di tragedia, ma anche con estrema eleganza e financo certa carica erotica) è forse la più tangibile dimostrazione dell’assunto di cui si parlava in apertura, ovvero che la crudezza di certi dipinti di Artemisia non sia da mettere tanto in relazione alle sue vicende personali, quanto al gusto del tempo.

Sezione fiorentina: a sinistra la Giuditta di Cristofano Allori, a destra quella di Andrea Commodi
Sezione fiorentina: a sinistra la Giuditta di Cristofano Allori, a destra quella di Andrea Commodi


Sezione fiorentina: a sinistra la Giuditta di Artemisia (Uffizi) a destra la Pietà di Filippo Tarchiani
Sezione fiorentina: a sinistra la Giuditta di Artemisia (Uffizi) a destra la Pietà di Filippo Tarchiani


Artemisia Gentileschi, Aurora
Artemisia Gentileschi, Aurora (1625 circa; olio su tela, 218 x 146 cm; Collezione Alessandra Masu)


Francesco Furini, Venere (particolare)
Francesco Furini, Venere piange la morte di Adone, particolare (1625-1626 circa; olio su tela, 233 x 190 cm; Budapest, Szépmuvészeti Múzeum)


Artemisia: a sinistra Giale e Sisara (Budapest), a destra Medea (collezione privata)
Artemisia: a sinistra Giale e Sisara (Budapest), a destra Medea (collezione privata)


Felice Ficherelli, Lucrezia
Felice Ficherelli, Tarquinio e Lucrezia (1640 circa; olio su tela, 117 x 163,5 cm; Roma, Accademia di San Luca)

Superati la sala e gli stretti corridoi dedicati al ritorno a Roma di Artemisia (da collocare tra il 1620 e il 1627), ambienti nei quali i curatori hanno proposto un rapido ma avvincente confronto con Simon Vouet e dove tornano soggetti violenti (come la Giale e Sisara di Giuseppe Vermiglio), l’esposizione si getta a capofitto nel periodo napoletano, che si apre con un capolavoro assoluto come la Ester e Assuero del Metropolitan di New York, dipinto nel quale la pittrice raccoglie ancora i frutti del suo soggiorno fiorentino per un’opera votata all’eleganza più sofisticata (sarebbe stato realizzato agli albori del soggiorno partenopeo, e sicuramente iniziato ancor prima del trasferimento: si tratta comunque di un’opera di non facile datazione). Chi ama emozionarsi di fronte ai dipinti o chi è uso lasciarsi trasportare dall’immediatezza delle sensazioni, troverà di sicuro effetto l’accostamento dell’opera del Metropolitan ad altre due opere di grande impatto come l’Annunciazione del Museo Nazionale di Capodimonte e il tragico Compianto sul Cristo morto di José de Ribera, prestito in arrivo dal Thyssen-Bornemisza di Madrid. Dopo aver salvato sul vostro cellulare il selfie d’ordinanza nella saletta approntata all’uopo (gli organizzatori vi invitano a condividere sui social i vostri autoscatti con tanto di hashtag, #ArtemisiaRoma: in fondo è divertente ed è anche l’unica occasione per utilizzare il proprio apparecchio fotografico, dato che non è consentito portare con sé memoria della mostra, essendo state vietate le foto), giungerete all’ambiente che, in maniera più approfondita, ci dà contezza di quanto avvenisse nella Napoli degli anni Trenta del Seicento. Ampio spazio è dedicato alla figura di Massimo Stanzione, non solo in quanto artista tra i più importanti sulla scena napoletana, ma anche perché fu a stretto contatto con Artemisia e con lei collaborò, per esempio tra il 1635 e il 1637 nel Duomo di Pozzuoli. Interessante è un Lot e le figlie in prestito dalla Galleria Nazionale di Cosenza, particolarmente esemplificativo dello stile di Stanzione, a metà tra il naturalismo d’ascendenza romana (vengono evidenziati i suoi rapporti con Vouet) e il classicismo bolognese (non dimentichiamo che in quegli anni era presente a Napoli il Domenichino).

Se occorre concordare con Nicola Spinosa, che nel saggio a catalogo sul soggiorno napoletano di Artemisia afferma che “i risultati riscontrabili nelle poche opere superstiti dei suoi primi anni napoletani non appaiono brillanti”, è altresì necessario evidenziare la qualità di un’opera come la Maddalena penitente di collezione privata, collocabile all’inizio degli anni Quaranta (quindi a seguito della breve parentesi londinese), che dialoga col verismo di Ribera o di Bernardo Cavallino. Un verismo di cui la mostra dà puntualmente conto, soffermandosi anche su figure meno note ma non per questo meno degne d’interesse: un nome su tutti è quello di Francesco Guarino, presente con una buona selezione di opere, tra cui una particolarissima Santa Lucia in grado di attirare l’attenzione sia per la bellezza popolaresca della protagonista, sia per il particolare truce degli occhi ancora sanguinanti poggiati sul libro. È invece appannaggio di un confronto tra il Trionfo di Galatea, realizzato da Artemisia in collaborazione con un suo allievo, Onofrio Palumbo, e il Trionfo di Anfitrite di Bernardo Cavallino (in mostra quest’ultima opera subisce un cambio di soggetto, dato che si riteneva fosse anch’essa un trionfo di Galatea), il compito di affrontare il definitivo trasferimento a Napoli, dove Artemisia sarebbe rimasta sino alla scomparsa occorsa nel 1653. Siamo nelle fasi estreme della carriera della pittrice, ma non viene meno l’intento di “dialogare” con i colleghi: in tal caso l’interlocutore è Bernardo Cavallino, che peraltro è stato indicato anche come possibile collaboratore del Trionfo di Galatea, stanti gli evidenti rapporti tra la tela di Artemisia e quella del più giovane artista napoletano.

Sezione napoletana: a sinistra il Compianto di Ribera, al centro Ester e Assuero di Artemisia, a destra Annunciazione di Artemisia
Sezione napoletana: a sinistra il Compianto di Ribera, al centro Ester e Assuero di Artemisia, a destra Annunciazione di Artemisia


Artemisia Gentileschi, Maddalena penitente
Artemisia Gentileschi, Maddalena penitente (1640-1642 circa; olio su tela, 125,2 x 179,8 cm; Collezione privata)


Francesco Guarino, Santa Lucia
Francesco Guarino, Santa Lucia (1645 circa; olio su tela entro sagoma ottagonale dipinta, 85 x 71 cm; Cosenza, collezione Banca Carime)


Artemisia Gentileschi, Trionfo di Galatea
Artemisia Gentileschi e Onofrio Palumbo, Trionfo di Galatea (1645-1650 circa; Olio su tela, 190 x 270 cm; Collezione privata)


Bernardo Cavallino, Trionfo di Anfitrite
Bernardo Cavallino, Trionfo di Anfitrite (1648 circa; olio su tela, 148,3 x 203 cm; Washington, The National Gallery of Art)

La rassegna di Palazzo Braschi termina soffermandosi brevemente sul succitato soggiorno a Londra, che Artemisia compì al fine di raggiungere il vecchio padre che là lavorava, e che sarebbe da collocare con ogni probabilità tra il 1638 e il 1640. Tale parentesi in mostra è trattata in modo piuttosto sbrigativo, ma comunque sufficiente per instaurare un confronto tra quella che è forse la principale opera di Artemisia di questo periodo, la cosiddetta Cleopatra che i curatori ritengono possa essere la “Santa che poggia una mano sulla frutta” registrata nell’inventario dei beni di Carlo I d’Inghilterra dopo la sua decapitazione, e il Loth e le figlie di Orazio Gentileschi, dipinto realizzato durante il soggiorno londinese e oggi conservato a Bilbao: i preziosismi e i cangiantismi della tela di Artemisia (opera che, peraltro, chiude la mostra) sono messi in diretto rapporto con quelli del padre.

Artemisia Gentileschi, Cleopatra
Artemisia Gentileschi, Cleopatra (1639-1640 circa; olio su tela, 223 x 156 cm; Parigi, Galerie G. Sarti)


Orazio Gentileschi, Lot e le figlie
Orazio Gentileschi, Lot e le figlie (1628; olio su tela, 226x282 cm; Bilbao; Museo de Bellas Artes de Bilbao)


Proprio la figura di Orazio Gentileschi, nonostante l’indiscutibile peso avuto nella formazione di Artemisia (ma anche successivamente), rimane decisamente in disparte: le sole quattro opere di cui la mostra si avvale non sono sufficienti per una ricostruzione dei rapporti tra padre e figlia. Certo: si potrebbe obiettare affermando che tale compito è già stato assolto da alcune delle precedenti monografiche. Ma è anche vero che, se un’esposizione intende calare la figura di Artemisia all’interno del suo contesto storico-artistico, risulta difficile accettare la mancanza di un’adeguata e possibilmente approfondita disamina dei nessi artistici tra i due. Ciò nondimeno, la mostra conta numerosi pregi: si avvertiva, in particolare, l’esigenza di un’esposizione capace di evitare di rincorrere il mito di Artemisia e in grado di proporre una lettura attenta tanto della sua arte, quanto degli ambienti che frequentò nel corso della sua lunga carriera. I curatori avrebbero sì potuto affrontare meglio alcuni passaggi, ma questo non può farci desistere dall’apprezzare il duro lavoro affrontato per allestire un’esposizione che ha richiesto anni d’impegno e che si distingue per ricchezza, varietà e qualità delle opere esposte.

L’onesto catalogo ripercorre l’intera carriera della pittrice: ai contributi dei tre curatori (due di Judith Mann, nella fattispecie uno sulla formazione e uno sugli anni romani tra il 1620 e il 1627, uno di Nicola Spinosa sul periodo napoletano e uno di Francesca Baldassari sugli anni a Firenze) si aggiungono alcune pagine che Cristina Terzaghi dedica al soggiorno londinese di Artemisia, un breve saggio di Jesse Locker sugli “anni dimenticati” di Artemisia a Venezia (quasi del tutto dimenticati, peraltro, anche dalla mostra stessa: il catalogo quindi colma questa sorta di “vuoto” che invece connota il percorso espositivo), e un saggio della già citata Anna Orlando sui rapporti tra i Gentileschi e Domenico Fiasella (unico artista, al di fuori della protagonista, ad aver ricevuto l’onore di un saggio dedicato). Si tratta di un contributo che in Liguria ha già fatto discutere e, al pari dell’attribuzione a Fiasella della Verità posta a fianco della Danae di Artemisia, necessiterà di un ulteriore approfondimento. In chiusura, alcuni “appunti” di Maria Beatrice Ruggeri circa la tecnica pittorica dell’artista. Il catalogo completa bene una mostra su Artemisia Gentileschi che finalmente possiamo dire scevra di retorica, capace di fugare eventuali dubbi sull’opportunità dell’operazione, ed efficace nell’intento di proporre una seria divulgazione sull’artista. Probabilmente non farà segnare svolte decisive nel campo degli studi su Artemisia, ma di certo non mancano tutti gli ingredienti per ritenerla un’esposizione di spessore.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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