Il MuME di Messina, il museo più grande del Meridione d'Italia. Seconda parte


Seconda e ultima parte del servizio dedicato al MuMe, Museo Regionale Interdisciplinare di Messina: si parla dei problemi della struttura e del percorso espositivo.

Qui la la prima parte del servizio.

Al museo piove

Se resta molto da fare sul fronte della valorizzazione e fruizione del museo di Messina, la prima emergenza è senza dubbio quella strutturale. Per decenni la “nuova” sede del museo è stata ai primi posti tra le incompiute in terra di Sicilia. L’inaugurazione appena due anni fa, era il 17 giugno 2017. Nuova si fa per dire. La struttura ha ben presto rivelato tutti i segni del suo essere stata inaugurata a trent’anni dalla posa della prima pietra. Tant’è che quando a fine novembre scorso ha fatto scalpore la notizia delle infiltrazioni di pioggia nelle sale con i capolavori al primo piano non ci siamo stupiti affatto. In quel giugno di due anni fa, mentre si celebrava il rito del taglio del nastro (il “varo”, lo si definì trionfalmente) del nuovo museo, unica voce denunciai su Il Giornale dell’Arte le gravi carenze strutturali dell’edificio. C’è, quindi, poco da gridare allo scandalo oggi. Lo sapevano tutti che colabrodo fosse questo museo: direttori, architetti, assessori e dirigenti generali. Avevo soltanto scritto quello che faceva comodo non dire nell’ora dell’inaugurazione. Nell’ora dell’emergenza, invece, va dato atto al presidente della Regione, Nello Musumeci, che mantiene da ormai quasi un anno l’interim ai Beni Culturali, di aver stanziato nel giro di 48 ore i 190 mila euro necessari per gli interventi di somma urgenza: “uno per le infiltrazioni di acque meteoriche dalle coperture, l’altro per impedire il cedimento verso il piazzale di quattro finestroni verticali che il fortissimo vento di scirocco di metà novembre aveva scardinato”, spiega Micali. “Sul primo fronte si è provveduto con una serie di coperture provvisorie, per la seconda questione critica, sono stati assicurati altri sei infissi pronti a fare la stessa fine dei primi quattro”.

Del resto è sotto questo governo che viene interrotta la tradizione dei direttori storici dell’arte (Francesca Campagna Cicala, Gioacchino Barbera, Caterina Di Giacomo) per vedere al timone del museo un architetto, Micali. Per una volta, non la solita indifferenza ai profili professionali nell’assegnazione degli incarichi, come spesso è dato registrare in Sicilia, ma stavolta un profilo specialistico adeguato, non solo per l’interdisciplinarietà delle collezioni di cui si è detto (cfr. la prima parte del servizio), e a cui va aggiunto un ingente patrimonio architettonico recuperato dalle macerie del sisma del 1908 e ricostruito per anastilosi nei 5.300 mq dell’area esterna, ma proprio perché il museo ha assoluta necessità di un intervento architettonico radicale sull’involucro, compensativo di micro interventi che si protraggono, con scarsi risultati, da decenni.

Uno dei portali ricostruiti in anastilosi
Uno dei portali ricostruiti in anastilosi


Settore medievale, confronto tra pittura, scultura e architettura all'esterno
Settore medievale, confronto tra pittura, scultura e architettura all’esterno


Rampa Padiglione B, Capitelli (ex Duomo di Messina) e Crocifisso ligneo di ignoto (XIV-XV secolo). Ph. Credit Foto Parrinello
Rampa Padiglione B, Capitelli (ex Duomo di Messina) e Crocifisso ligneo di ignoto (XIV-XV secolo). Ph. Credit Foto Parrinello

Dopo che era rimbalzata sulla stampa la notizia della pioggia nelle sale il direttore Micali ha commentato, tra il desolato e l’ironico: “questo edificio non avrebbe mai potuto vincere un ‘premio qualità’”. Ecco, il “premio qualità” per i musei esiste e si chiama LUQ, Livelli uniformi di qualità. È stato adottato col Decreto ministeriale del 21 febbraio 2018 col quale è nato il Sistema museale nazionale, una rete di musei e luoghi della cultura collegati fra loro al fine di migliorare i sistemi di fruizione, accessibilità e gestione sostenibile del patrimonio culturale. I livelli uniformi di qualità, elencati nell’allegato al decreto, sono un importante documento per la verifica del rispetto degli standard minimi da parte dei musei. Tra i tre ambiti in cui sono distribuiti c’è anche quello che ci interessa. Riguarda la cura delle collezioni e prevede anche il “monitoraggio periodico dello stato conservativo del patrimonio”. Più nel dettaglio, per raggiungere gli standard minimi si prescrive il “rilevamento e monitoraggio periodico delle condizioni microclimatiche (temperatura, umidità relativa, illuminazione); il monitoraggio e prevenzione di attacchi (…) di microrganismi (batteri e funghi); la manutenzione ordinaria del patrimonio, delle strutture di allestimento”. Oltre a queste azioni “minime” i LUQ indicano anche gli obiettivi di miglioramento. In pratica ciò che sta già facendo Micali con i progetti di somma urgenza. Prevedendo, anche uno più impegnativo, e soprattutto risolutivo, da 5 milione di euro, di cui diremo subito dopo.

Ma per comprendere ancora meglio di quali carenze e responsabilità sia vittima il museo di Messina, sempre valide restano le raccomandazioni del Ministero dei Beni culturali del 1998 laddove dicono che “la gestione delle collezioni museali deve fondarsi su idonee politiche volte a garantire la prevenzione dei rischi di degrado che possono interessare le collezioni stesse, affinché esse possano essere trasmesse alle future generazioni. Il museo deve essere dotato di un idoneo piano di prevenzione nei confronti dei fattori umani, ambientali e strutturali che possono generare rischi per la conservazione dei manufatti”. E ancora: “data l’importanza dei fattori ambientali ai fini della conservazione dei manufatti, il museo deve procedere al periodico rilevamento delle condizioni termoigrometriche, luminose e di qualità dell’aria degli ambienti in cui si trovano i manufatti stessi”. Alla luce di tutte queste prescrizioni è chiaro che il fatto che dentro le sale di un museo possa persino piovere sia una condizione estrema: un simile degrado delle strutture è inconciliabile con qualsiasi attività di manutenzione programmata. “Nessuna opera è stata danneggiata”, ci viene rassicurato comunque. Intendiamoci, che l’acqua piovana fosse finita direttamente sulle tele del Settecento sarebbe stato un grande disastro, ma quelle pozzanghere a ridosso delle stesse tele restano pur sempre un disastro. Le condizioni termoigrometriche interne, dalla cui stabilità raccomandata dal ministero discende la buona “salute” delle opere d’arte, è evidente che abbiano subito delle variazioni e che ne subiranno alla prossima pioggia: un ristagno d’acqua (in relazione con la temperatura dell’ambiente) crea evaporazione, alzando notevolmente il livello di umidità relativa. Il responsabile della conservazione, il direttore ha fatto il suo, prevedendo anche un progetto integrale, oltre a quello “tappabuchi” appena finanziato, ora spetta a chi è a Palermo passare dalla logica dell’intervento a emergenza in corso a quella della programmazione pluriennale di manutenzione. Perché un progetto una tantum, benché impegnativo, non è mai risolutivo.

Le falle progettuali. Un museo concepito per negare le sue collezioni

“Com’è possibile che servano altri cinque milioni di euro per un museo inaugurato da poco più di due anni?”, ci invita a chiederci Micali. Come si è arrivati a questo punto? Impresa ardua quella affrontata dagli ultimi progettisti, prima Antonio Virgilio, poi Gianfranco Anastasio, per mettere delle pezze a un progetto che faceva acqua da tutte le parti, quello famigerato con cui il consorzio Italter (che poi avrebbe dichiarato fallimento) si era aggiudicato l’appalto concorso bandito nel 1983. La costruzione fu avviata nel 1985, con l’aggiudicazione alle imprese D’Andrea ed Edilfer per il progetto Basile, De Fiore e Manganaro. I fondi regionali (7.900.000 euro) furono affidati al Comune di Messina quale stazione appaltante, attraverso tre lotti conclusi nel 1994. Da lì in poi si sono susseguiti fino al 2009 interventi di allestimento e adeguamento tecnologico degli spazi interni, condizionati dalla frammentarietà ed esiguità delle risorse (appena 1.200.000 euro in 14 anni) in rapporto alla vastità e complessità della struttura.

Decisivo in direzione dell’apertura è stato nel 2013 il finanziamento del progetto d’integrazione, adeguamento e modifica delle dotazioni e degli impianti (1.988.800, Po Fesr 2007-2014), con i lavori avviati nel marzo 2014 e conclusi nel settembre del 2015. Risorse reperite sui capitoli ordinari dell’esercizio finanziario 2016 (350 mila euro) hanno, infine, concesso di definire l’impiantistica di sicurezza e procedere all’ultima fase dell’allestimento. In totale dal 1985 ad oggi per il nuovo museo si sono spesi 11.088.800, euro. Neanche tanti.

“Il risultato”, commenta il direttore, “è un complesso edilizio incompatibile con il concetto stesso di museo, che non avrebbe dovuto essere costruito con quella forma e quelle caratteristiche”. Quello consegnato a metà degli anni Novanta era, incredibilmente, un museo pensato senza pareti per l’esposizione delle opere d’arte. Senza i requisiti minimi per la loro conservazione, spazzati via da un tetto colabrodo e da infissi da edilizia popolare. Al cui interno i valori termoigrometrici erano quelli di una serra, e di norme di sicurezza neanche a parlare. Un museo concepito per negare le sue collezioni, off limits per le grandi tele del Sei-Settecento, che di qui non entravano e di là non passavano. Era necessario trasformarlo nella sua configurazione spaziale interna, rimodulando parte del percorso espositivo e dell’ordine strutturale delle sale.

Il pavimento, per esempio, era stato coperto da una moquette color arancio, le sale più ampie erano state listate a strisce alterne con rivestimento in intonaco bianco e finti mattoni; pilastri e travi in cemento a vista caratterizzavano questi ambienti intervenendo negativamente su quell’atmosfera di sobrietà che le opere di un museo richiedono. E quindi in prima ipotesi la moquette venne sostituita da pietra lavica, le pareti ebbero un fondo bianco, i pilastri dalla forma stellare diventarono cilindrici e acquisirono colore in relazione e in accordo con le opere esposte, le travi vennero nascoste da un controsoffitto praticabile che ha permesso di governare le luci dall’alto, e furono costruite in vari punti pareti su pilastri perimetrali. Proprio così, mancavano le pareti a cui appendere i quadri.

E dire che la Regione aveva pronto un progetto di massima, su incarico dalla Cassa per il Mezzogiorno, firmato nel 1974 da uno dei massimi esponenti della museografia italiana del dopoguerra, Carlo Scarpa, unico museo che aveva concepito ex novo, rimasto sulla carta e tra i più pubblicati al mondo. Lo aveva progettato insieme all’architetto messinese Roberto Calandra, suo amico sin dall’allestimento della mostra di Antonello da Messina nel 1953 nella stessa città dello Stretto. Il progetto era impostato come organismo unico, a percorso continuo, dai contorni irregolari e molto aperto verso il giardino intorno e collegato all’ex Filanda. In un secondo momento Scarpa fu tentato dall’abbandonarlo e ritornare all’idea della pluralità dei piccoli padiglioni che aveva accennato in taluni schizzi preliminari. Solo che l’anno dopo (1975), col trasferimento delle competenze esclusive in materia di beni culturali dallo Stato alla Regione, si pensò bene di dare subito una delle peggiori prove dell’autonomia, scartando il progetto Scarpa/Calandra in favore dell’appalto-concorso con cui sarebbe stata l’impresa vincitrice a decidere a chi assegnare la progettazione. Dalla giuria era stata tenuta fuori l’allora direttrice Campagna Cicala, che ricorda come “un’incredibile occasione persa” il confronto che ebbe con l’architetto veneto. Ma il criterio espositivo da lei individuato, la sua “idea di museo” è quella che ancora oggi si può leggere visitando le sale. E se Calandra testimoniava di questo fondamentale dialogo (“il raggruppamento per periodi storici e non per tipologie, ci persuadeva molto anche per le speciali caratteristiche dei materiali da esporre nel museo, ricco di reperti architettonici provenienti da monumenti abbattuti dal terremoto del 1908”), con i nuovi progettisti si sarebbe interrotto del tutto.

Tornando ai giorni nostri, per Micali “ciò che noi abbiamo oggi è una costruzione intrisa di difetti progettuali ed esecutivi”. Ne indica alcuni: “le barriere architettoniche all’interno e all’esterno del nuovo museo; il progetto è antecedente alla norma per il superamento delle barriere architettoniche (1989), ma la realizzazione è posteriore; i due piani del museo sono collegati da rampe fuori norma e di fatto mancano gli ascensori (esistenti ma mai autorizzati all’esercizio); il nuovo ingresso dal viale della Libertà si infrange contro una scalinata e la rampa per i portatori di handicap finisce contro un muro”.

E prosegue. “L’impianto di condizionamento, oltre che malfunzionante, non garantisce la corretta conservazione delle opere d’arte; le sale sono parzialmente illuminate da lampade a fluorescenza; l’impiantistica è caratterizzata da disfunzioni; non poche opere esposte nelle sale sono a diretto contatto con i raggi del sole che penetrano dalle finestre (!); la stragrande maggioranza dei visitatori manifesta delusione per la collocazione e l’illuminazione dei Caravaggio; i bagni per i visitatori sono al piano interrato e irraggiungibili (di fatto bisognerebbe uscire dal Museo attraverso la scala antincendio, senza ascensore e senza la possibilità di rientrare poiché le porte antincendio non si possono aprire dall’esterno); i magazzini esterni e i laboratori hanno bisogno di importanti manutenzioni; gli uffici non hanno riscaldamento d’inverno e raffreddamento d’estate, sono privi di ascensore, arredi e illuminazioni sono da rinnovare integralmente”.

Un primo progetto da un milione di euro è pronto. È stato redatto con il supporto della società aggiudicataria dei servizi aggiuntivi per risolvere definitivamente infiltrazioni e illuminazioni solari delle facciate, eliminando i ponti termici, incrementando le superfici espositive esterne e interne. Ma non basta, conclude il direttore, serve un intervento che rimuova tutti i difetti, risolva ogni problema e aggiunga dotazioni e qualità; un intervento realmente risolutivo, con valore di poco superiore a cinque milioni di euro.

Il percorso espositivo: punti di forza e criticità

La cospicua sezione archeologica racconta la storia e la cultura dell’antica Zancle-Messana, fondata nella seconda metà del VIII secolo a.C. dai Greci calcidesi. Tra i reperti più interessanti il cosiddetto “Ritratto di stratega”, ritenuto replica di epoca romana di un originale di “stile severo” in bronzo databile entro il V secolo a.C. o rielaborazione classicista, o ancora un ritratto “retrospettivo” “colto” del I secolo d.C. All’archeologia subacquea è riservato un ambiente, dove spicca l’importante rostro bronzeo di Acqualadroni (III-I secolo a.C.).

Il piano terra ospita dipinti, sculture ed elementi architettonici dal Medioevo al primo Seicento. Il secondo livello opere dal secondo Seicento all’Ottocento, per concludersi significativamente con un dipinto datato 1907, un anno prima del disastroso sisma che rase al suolo Messina.

Dall’ingresso principale, si succedono, scandite da punti di snodo tematico per le opere più importanti e significative, le diverse aree storiche che contraddistinguono il percorso espositivo: l’area normanno bizantina, introdotta dalle iscrizioni arabe provenienti dalla Cattedrale e dalla Chiesa di Santa Maria Annunziata dei Catalani ed esemplificata da una selezione di manufatti lapidei eccezionali prodotti dall’XI al XIII secolo, fra cui l’importante conca battesimale firmata da Gandolfo e datata 1134. Seguono la lastra marmorea del XII secolo della Madonna orante e la nicchia con il mosaico della “Ciambretta” (XIII secolo). Una parete espositiva marmorea accoglie un capolavoro del senese Goro di Gregorio, la Madonna con Bambino detta Madonna degli storpi. Segue l’esposizione del drammatico Crocifisso (XV secolo) di scultore ignoto il legno dipinto.

È un’idea scarpiana recuperata il “dialogo” tra le opere nelle sale e gli elementi architettonici e monumentali e i frammenti lapidei all’esterno, visibili dalle ampie aperture della struttura museale, così da percepire unitariamente le tre forme d’arte coeve e ricomporre la dimensione omogenea del contesto originario. Sarebbe utile, però, che le didascalie all’interno accennassero pure a quegli elementi architettonici esterni che il visitatore è invitato a osservare da questa soluzione museografica.

Sorprende che punto debole dell’allestimento sia proprio quello dedicato all’artista simbolo del museo, Antonello da Messina. Per creare una corretta spazialità museale “a parte” per il Polittico di San Gregorio lo si è finito per inscatolare in un mini chalet (una cappelletta lignea nell’intenzione del progettista), con la tavoletta bifacciale raffigurante la Madonna con il Bambino benedicente e frate francescano in adorazione, piazzata all’esterno come un cartello segnaletico, su supporto abbinato, il tutto vagamente in stile anni Settanta. Accanto, il coup de théâtre del fondale blu elettrico su cui si staglia La Madonna con bambino del Laurana (le cui tracce di blu sul manto giustificherebbero la parete shocking) completano la dubbia qualità espositiva raggiunta in questo snodo eppure strategico del museo, che si coglie in pieno dalla finestra “epifanica” aperta nella rampa da cui dal terzo livello si discende per concludere il percorso. Anche altrove si viene sorpresi da queste pannellature in stucco veneziano dalle cromie accese, estese pure sulla colonna gigante da night club nella Sala dei caravaggeschi. L’effetto parquet in verticale della scatola antonellesca è ripreso altrove, per ritagliare i due nuovi spazi ricavati per la selezione dei fondi antichi e per le icone del Seicento in stile ancora bizantineggiante. Lo si ritrova anche nella parete all’ingresso, dove è inesistente il concetto di hall come zona di decompressione dalla realtà e di accesso alla “spazialità a parte” museale.

Il Nettuno e la Scilla di Montorsoli
Il Nettuno e la Scilla di Montorsoli


Sala Caravaggio, a sinistra la Resurrezione di Lazzaro, a destra l'Adorazione dei Pastori. Ph. Credit Foto Parrinello
Sala Caravaggio, a sinistra la Resurrezione di Lazzaro, a destra l’Adorazione dei Pastori. Ph. Credit Foto Parrinello


A sinistra i Caravaggeschi e Sala Montorsoli. Ph. Credit Foto Parrinello
A sinistra i Caravaggeschi e Sala Montorsoli. Ph. Credit Foto Parrinello


Antonello da Messina, Polittico di San Gregorio. Ph. Credit Foto Parrinello
Antonello da Messina, Polittico di San Gregorio. Ph. Credit Foto Parrinello


Sala Settecento con seggi vescovili e la Berlina del Senato di Letterio Paladino. Ph. Credit Foto Parrinello
Sala Settecento con seggi vescovili e la Berlina del Senato di Letterio Paladino. Ph. Credit Foto Parrinelloo


Sala Ottocento, Ritratto di signora in nero. Ph. Credit Foto Parrinello
Sala Ottocento, Ritratto di signora in nero. Ph. Credit Foto Parrinello

Riprendendo il percorso espositivo, all’interno di una grande sala sono raccolte le vicende del primo Cinquecento con le opere del pittore messinese Girolamo Alibrandi, fra cui si evidenzia la grande tavola della Presentazione al Tempio (1519), dipinti dei veneti Catena e Buonconsiglio, sculture di Antonello Gagini e il Monumento Balsamo, attribuito a Giovanni Battista Mazzolo. Dopo le sale del manierismo con opere pittoriche di Polidoro, Allori, Guinaccia e Stefano Giordano, si giunge al vero fulcro dell’organizzazione spaziale del museo, intorno al momento di massima fioritura della arti a Messina, col gruppo marmoreo del Nettuno e della Scilla (su base antisismica), opere del michelangiolesco Giovanni Angelo Montorsoli. Qui l’architetto Virgilio ha avuto un’intuizione che supera, addirittura, quella originaria: se Scarpa aveva immaginato le due sculture al centro di un grande lucernario, vicino a tre absidi, per richiamare il volume cavo di una cattedrale, il messinese concepisce il vuoto vertiginoso di una spazialità che suggerisce lo snodo urbano di una piazza. Questa “Piazza manierista” è, infatti, ben più coerente con la provenienza del gruppo scultoreo, non da una chiesa ma dalla monumentale fontana eretta dal michelangiolesco Montorsoli nel 1557 alla Marina. Purtroppo, la soluzione museografica d’effetto viene, però, indebolita e contraddetta dal forzato incastonamento di un brano lapideo (seppur sempre montorsoliano) proveniente da un perduto monumento funebre, ossia da un interno chiesastico. Ci si trova, allora, in una chiesa o in una piazza? Non c’era altra soluzione in un museo al quale proprio gli spazi sono l’unica cosa che non mancano?

Passiamo, quindi, all’area dei caravaggeschi Rodriguez e Minniti, che si snoda attorno alla sala riservata ai due capolavori di Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro e Adorazione dei pastori, e si articola fra il primo e il secondo livello espositivo, determinandone peraltro il rapporto di continuità. La prima fase testimonia l’esperienza innovativa di Caravaggio con prospettive diacroniche e agganci tematici che ne testimoniano le premesse e le conseguenze, la seconda si relaziona invece con il parallelo affermarsi delle correnti classiciste romane che vengono importate in città.

Il clima culturale del Settecento, l’atmosfera colta e fastosa del Barocco e del rococò, è riccamente illustrato in un percorso culminante con l’esposizione della Berlina senatoriale, simbolo di un’epoca d’illusoria magnificenza interrotta dalla peste del 1743. Perché rinunciare, però, agli espedienti allestitivi e poggiarla direttamente sul pavimento, senza una base? È in questo terzo livello che si mostrano in tutta la loro evidenza i segni di un allestimento forzato. La quota degli spazi è incompatibile con le grandi tele del Settecento, per cui, per esempio, una “scivola” in basso nel vuoto della rampa e l’altra centinata tocca il solaio superiore.

Un disastro che non offre ampi margini di correzione. “Nessuna rivoluzione o trasformazione sostanziale dell’impianto espositivo la cui organizzazione è obbligata proprio dalle caratteristiche della struttura edilizia”, spiega Micali. Condivide le nostre perplessità: sta pensando di intervenire proprio “per rivedere le modalità di esposizione sia di Antonello e gli antonelliani che di Caravaggio e i caravaggeschi. Anche una piccola parte della sala cinquecentesca o montorsoliana necessita di adeguamenti. In generale l’esecuzione del progetto di revisione delle facciate comporterà l’incremento della superficie espositiva interna, su entrambi i piani, dunque una progettazione ulteriore degli allestimenti e l’incremento delle opere collocate”. Anche lo spazio anonimo della biglietteria “dovrà essere modificato per essere adeguata ai nuovi servizi, ampliandolo”.

Uscire dal cono d’ombra

Le conclusioni del direttore sono nel segno di un’azione corale. “L’Istituto”, commenta, “ha svolto con competenza e impegno il compito di custode del patrimonio, con grande attenzione alla conservazione e alla tutela. Azioni fondamentali per la continuità di un Museo che ha subito una metamorfosi di non poco conto. Una volta giunto al punto d’oggi, dopo aver messo quanto possibile a posto la struttura e l’organizzazione, l’Istituto ha bisogno di ingranare la marcia della crescita. Serve uscire dalla periferia, dal cono d’ombra nel quale ci troviamo. Bisogna guardare a quelli che sono più avanti di noi, studiarne le mosse, cercare contatti e condivisioni, meglio ancora se si riesce a parlare di accordi e di scambi produttivi. Mettere in circolazione le peculiarità individuali e unire le possibili risorse per produrre azioni collaborate e collaborative. Ma c’è bisogno di attivare i canali della comunicazione, di promuovere se stessi presso gli operatori e i professionisti del settore. Si tratta di determinazioni e operazioni che un Museo non può condurre di propria esclusiva iniziativa, che devono essere condivise e sostenute dalla politica dei beni culturali e nello stesso tempo da altrettante azioni del territorio il quale ha l’onere e la responsabilità di facilitare e supportare programmi e progetti dell’Istituto sul piano infrastrutturale e dei servizi”.

I numeri del Museo di Messina

Area occupata dal compendio 17.185mq

Nuova sede Museo
Superficie occupata 3.165mq
Superficie calpestabile 8.710mq articolata su tre piani
Superficie espositiva 4.160mq articolata su due piani
Superficie deposito 1.800mq
Superficie terrazzi praticabili 1100mq

Vecchia sede Museo (ex filanda Mellinghofff)
Superficie per esposizioni 1330mq
Superficie corte interna 330mq

Altre superfici
Superficie uffici e affini 760mq
Area a verde con depositi monumentali 1630mq
Area a verde e giardino 1850mq
Superficie magazzini e depositi 860mq
Opere e patrimonio

Il patrimonio complessivo è costituito da 7855 opere, di cui

559 dipinti (tele+tavole)
173 opere varie
2094 marmi
162 bronzi
990 tra stampe, disegni, pergamene
453 maioliche
594 terrecotte
1966 monete
E ancora gessi, ori, argenti, avori, mosaici, legni, ardesie, stoffe ai quali si aggiungono gli oltre 14.00 volumi che compongono la ricca biblioteca.


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).



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