I musei dovrebbero usare gli occhiali di Harry Potter. A proposito di cultura convergente


Il recente flop dei tour virtuali dei musei dimostra che il digitale non è l’unica soluzione: i musei sbagliano se pensano che occorra limitarsi a fare una traduzione digitale delle esperienze fisiche. Al contrario, la realtà oggi impone ai musei di modellare le proprie esperienze attraverso le lenti della cultura convergente.

Con questo articolo andrò dritto al sodo. Quello che oggi conta davvero, ancor più di prima, non è il digitale. Penso che quello che conterà più di tutto sarà l’attenta scelta degli strumenti di coinvolgimento che ogni museo utilizzerà al meglio per comunicare il suo ethos, i suoi ideali, le sue esperienze. Ho scelto di dire ciò a dispetto del crescente equivoco che porta i musei a pensare che la loro rilevanza sia garantita semplicemente digitalizzando i contenuti.

Il digitale in effetti è diventato il martello che, senza dubbio, ogni cassetta degli attrezzi dovrebbe avere: si tratta di uno strumento che di sicuro è necessario e fondamentale. Ma dal momento che il martello non è lo strumento che serve per risolvere tutti i problemi, lo stesso vale per il digitale. Un recente articolo di Becky Frankiewicz e Tomas Chamarro-Premuzic fissa bene questo concetto: la trasformazione digitale riguarda il talento e non la tecnologia. Il digitale può essere percepito come la bacchetta magica che serve ai musei in questo momento, ma alla bacchetta, per poter funzionare, serve un Harry Potter.

Occhiali di Harry Potter

Per inciso, Harry Potter è un buon esempio per descrivere l’idea della cassetta degli attrezzi. L’ossatura dell’universo di Harry Potter è un amalgama di sette libri a cui hanno fatto seguito otto film prodotti in rapida successione. Attorno a questo cardine ruota un universo che rappresenta ancora un luogo da scoprire e che continua ben oltre i libri e i film. Oltre al sito wizardworld.com, che ha rimpiazzato Pottermore da ottobre 2019, l’universo di Harry Potter include anche action figures, giochi Lego, il parco divertimenti Wizarding World of Harry Potter agli Universal Studios, videogiochi, il giornale online The Daily Prophet, gruppi social, merchandising e molto altro.

L’universo di Harry Potter è un complesso ecosistema che non dipende da un solo medium, anche se il perno è sempre l’insieme di libri e film. Il successo dell’universo di Harry Potter, al contrario, deriva dalla comprensione del fatto che non sia finito e contenuto, ma aperto allo sviluppo, capace di evolvere e di trasformarsi non appena incontra nuovi mezzi.

Facendo un paragone, la pandemia di Covid-19, ha portato i musei a concentrarsi solo e prevalentemente (anche se per cause di forza maggiore e per via delle circostanze) su un solo mezzo. Il digitale è un asset fondamentale, ma la cassetta degli attrezzi del museo post-Covid richiede molto, molto più del digitale. Conosco solo poche eccezioni che hanno lavorato su altri media: il LAM Museum di Amsterdam e il Polin Museum di Varsavia sono le due best practice che segnalo.

Proviamo a pensare, per un secondo, che l’idea del museo non corrisponda allo spazio fisico che accoglie i visitatori durante orari stabiliti secondo uno schema predeterminato. Al contrario, pensiamo a un museo che abbia una molteplicità d’identità, delle quali quella fisica può anche non essere la più forte. Uno dei musei che più si avvicinano a questo modo di pensare è il Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk. In questo caso, stiamo discutendo di un progetto che è stato deliberatamente concepito e incubato nella finzione, ed è diventato solo successivamente uno spazio di contenuti o quello che potremmo descrivere come un museo fisico. Dal momento che lo scrivente studia il pensiero transmediale e il modo in cui si può applicare alla pratica museologica, posso comprendere molto bene l’insistenza di Orhan Pamuk sul fatto che lo spazio fisico e il libro siano separati. Entrambi però appartengono al mondo del Museo dell’Innocenza, che così ha un maggior potenziale per espandersi e creare coinvolgimento attraverso nuovi mezzi.

Questo modo di pensare è influenzato da quella che Henry Jenkins chiama “cultura convergente”. È possibile saperne di più leggendo il suo libro Convergence Culture: where old and new media collide. Ne ho trovato una buona definizione a questo link.

Laurie Lipton, Interface (2014; carboncino e matita s carta), dalla serie Post Truth
Laurie Lipton, Interface (2014; carboncino e matita s carta), dalla serie Post Truth

Che cos’è la cultura convergente?

Il successo dell’universo di Harry Potter coincide con l’avvento di quella che è generalmente descritta come “cultura convergente”. Per chi non ha familiarità con questa teoria, la cultura convergente si riferisce a come i consumatori dei mediacomprendono e fanno uso di forme nuove e tradizionali di mediae contenuti. In altre parole, la cultura convergente riguarda i modi e i mezzi attraverso i quali i contenuti scorrono e vengono distribuiti attraverso i mediae, come l’esempio dell’universo di Harry Potter fa ben capire, l’utilizzo dei nuovi mediaper entrare in contatto coi contenuti dei vecchi media.

Più discuto con i colleghi di tutta Europa e non solo, e più vedo il potenziale di questa teoria, che potrebbe formare, dare un contributo e modellare nuovi istituti museali e nuove esperienze. Per gli scopi di questo articolo, sceglierei di concentrarmi su due aspetti della cultura convergente: la convergenza dei media e la convergenza sociale o organica.

La convergenza dei media è solitamente intesa come la combinazione di media vecchi e nuovi all’interno di un singolo lavoro. Prima o poi tutti i mezzi di comunicazione di massa convergono verso un punto dove diventano un unico mezzo, e questo a causa dell’avvento di nuove tecnologie. Consideriamo ora il museo come un unico lavoro, come una specie di libro che ci racconta solo un aspetto o una storia dell’esperienza che intende veicolare. Il grosso errore che credo si stia facendo di questi tempi, e che sta alla base del flop dei tour virtuali cominciati verso metà marzo, è la completa trasposizione della dimensione fisica in quella virtuale, piuttosto che la reinvenzione di un nuovo museo nel virtuale, capace di offrire il suo contributo al mondo del museo. Quel mondo, peraltro, potrebbe anche essere accessibile con un biglietto.

Laurie Lipton, Alone in a Room, Socialising (2018; carboncino e matita s carta), dalla serie Techno Rococo
Laurie Lipton, Alone in a Room, Socialising (2018; carboncino e matita s carta), dalla serie Techno Rococo

La convergenza sociale o organica è invece generalmente intesa come l’utilizzo simultaneo e multiplo di diversi mezzi tecnologici, per esempio ascoltare musica mentre si guarda la tv o si gioca con i videogiochi. Consideriamo qui la prospettiva dell’esperienza museale vista dall’utente finale attraverso la lente di questo uso multiplo dei mezzi tecnologici. Nei riguardi dell’esperienza museale, possiamo pensare, in maniera piuttosto superficiale, all’utilizzo di una app o della tradizionale audioguida durante una visita. Questa convinzione è influenzata dalla nostra idea di museo come spazio prevalentemente e principalmente fisico, ma accessibile anche in digitale. Dovremmo pensare al museo come a un luogo che ha più di un mezzo o di un formato, dopodiché la molteplicità dei punti d’accesso avrebbe il potenziale per fornire diverse esperienze, ognuna in grado di integrarsi con l’altra e di dare avvio a sovrapposizioni salutari. Il museo può anche essere un libro di storie o un manifesto di storie, o ancora una storia digitale o un racconto Youtube, ma ogni storia dovrebbe essere concepita avendo ben presenti i punti di forza di ciascun mezzo. Potrebbe voler dire vedere un’opera mentre si ascolta una storia personalizzata... e molto altro!

I musei hanno bisogno di queste lenti ora più che mai. Sarebbe bello che i musei utilizzassero qualcosa di simile agli occhiali di Harry Potter, anche se non necessariamente identici: ai musei servono lenti attraverso le quali vedere le cose in maniera differente, sezionare le sfide andando a fondo e ricostruire, trasformare e rigenerare. Le soluzioni potrebbero non essere così radicali o orientate verso il futuro come quelle discusse in questa sede: sappiamo che il cambiamento richiede adattamenti e un cambio di cultura potrebbe non essere così facile da introdurre.

Laurie Lipton, Mouthpiece (2017), dalla serie Post Truth
Laurie Lipton, Mouthpiece (2017; carboncino e matita s carta), dalla serie Post Truth

Queste meravigliose opere a carboncino e matita su carta sono dell’artista newyorkese Laurie Lipton. Ringraziamo Laurie per aver accettato di inserire le sue opere in questo articolo.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su The Humanist Museum.


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Sandro Debono

L'autore di questo articolo: Sandro Debono

Pensatore del museo e stratega culturale. Insegna museologia all'Università di Malta, è membro del comitato scientifico dell’Anchorage Museum (Alaska) oltre che membro della European Museum Academy. Curatore di svariate mostre internazionali, autore di svariati libri. Scrive spesso sui futuri del museo ed ha il suo blog: The Humanist Museum. Recentemente è stato riconosciuto dalla Presidenza della Repubblica Italiana cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia e dal Ministero della Cultura Francese Chevalier des Arts et des Lettres per il suo contributo nel campo della cultura.



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