Rossella Biscotti: “con la mia arte cerco il confronto tra la memoria individuale e la storia”


Rossella Biscotti (Molfetta, 1978) è uno dei principali nomi dell'arte contemporanea europea. In questa intervista parliamo della sua arte che indaga la memoria per cercare il confronto con la storia.

Rossella Biscotti (Molfetta, 1978) è tra i più interessanti artisti contemporanei europei. Con il suo lavoro, Rossella Biscotti indaga su oggetti e materiali d’archivio per farne riemergere la storia (anche quella più scomoda, o quella dimenticata) e per sottolineare i rapporti tra pratica artistica e contesto storico, attraverso un lavoro che parte dalla memoria individuale o collettiva e si avvale di ricerche meticolose sui materiali d’epoca. Con le sue opere, Rossella Biscotti (che attualmente vive e lavora ad Amsterdam) ha partecipato a diverse importanti rassegne internazionali (Biennale di Venezia, Documenta, Manifesta e altre) e ha anticipato alcuni temi diventati poi oggetto di forte dibattito mediatico in Italia e non solo. L’abbiamo intervistata per farci raccontare i suoi ultimi progetti e per ripercorrere alcune tappe importanti della sua carriera. L’intervista è a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.

Rossella Biscotti. Ph. Credit Luis Filipe do Rosario
Rossella Biscotti. Ph. Credit Luis Filipe do Rosario. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi

FG. Vorrei cominciare questa intervista da una notizia dell’ultim’ora: la Graham Foundation Le ha assegnato, pochi giorni fa, una borsa per il Suo progetto The City, cominciato nel 2013. L’aspetto interessante di quest’opera è la sua volontà di trovare dei riflessi tra le società del passato e la società contemporanea: del resto, anche il lavoro degli archeologi mette a confronto due tipi diverse di organizzazione nello stesso tempo. Che cosa succederà ora al progetto con questo nuovo capitolo?

RB. The City è nato un po’ di tempo fa: si tratta di un progetto complesso sorto da un invito che mi venne rivolto dalla curatrice turca Övül Durmu?o?lu e dalla curatrice statunitense Mari Spirito, quest’ultima direttrice di Protocinema a Istanbul: la loro volontà era quella di portare due artisti contemporanei, ovvero la sottoscritta e il filmmaker libanese Akram Zaatari, a visitare un museo di archeologia (il Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara), per cominciare da lì una sorta di viaggio all’interno dell’archeologia. Un viaggio che abbiamo messo in discussione già dalla prima visita decidendo di andare a vedere l’archeologia nel suo fare, e non semplicemente nella sua musealizzazione. Cominciammo così un tour insieme, in quattro, visitando diversi siti attivi, e nel corso di queste visite discutemmo a lungo, anche di argomenti complessi (per esempio di come l’archeologia sia, in un certo senso, distruzione del paesaggio, delle modalità con cui gli archeologi dialogano con le comunità locali, di cosa significhino uno scavo di ricerca e uno scavo mirato a estrarre dal suolo artefatti che poi finiscono in un museo: argomenti che l’opera affronta). Nell’ultimo sito in cui ci siamo recati, Çatalhöyük, in Anatolia, mi sono resa conto che si trattava di un luogo in grado di unire interessi che avevo su varî fronti: così, cominciai una conversazione con l’archeologo britannico Ian Hodder, a capo del Çatalhöyük Research Project, nonché pioniere dell’archeologia post-processuale, movimento che portava l’archeologia su una dimensione diversa (una dimensione di comunità, una dimensione processuale, di ricerca), portando i laboratorî sul sito) in merito a ciò che mi aveva colpito di questo sito, ovvero il fatto che Çatalhöyük sia un grande insediamento neolitico stratificato (si va dal 9.000 al 6.500 avanti Cristo), e il fatto che il gruppo di archeologi al lavoro sul sito adottassero una forma di organizzazione molto poco gerarchica, che univa lavoro a modi di vita. Il team di ricerca era piuttosto numeroso, dal momento che, in estate, arrivava a contare anche 150 persone, che andavano dallo studente fino al super specialista di Oxford. Ogni giorno scavava e produceva conoscenza (parte della rivoluzione strutturale del sito era infatti aver costruito i laboratori specialistici on location in maniera tale da elaborare i dati attraverso un incrocio di conoscenze ed esperienze). Io sono stata parte del team per quattro anni, realizzando note e riprese sul sito fino al 2016, quando mi recai a Çatalhöyük con un team specifico per poter fare un film: tuttavia, a causa del tentato colpo di stato in Turchia, il sito in quel momento decise di chiudere temporaneamente e non potemmo terminare il lavoro. Ho realizzato una prima opera, un’installazione video molto complessa (sono cinque proiezioni, sessanta minuti, otto canali audio) utilizzando sia le mie riprese/note del sito in piena attività registrate nei primi anni sia le riprese professionali del sito nel momento di chiusura sovrapponendo lo scavo archeologico, alla comunità, alla politica, alla contemporaneità. E ora, attraverso la Graham Foundation, quello che voglio fare è trasformare questa installazione, di cui si fa esperienza principalmente al museo, in un documentario unico, e che possa quindi essere trasmesso su diversi canali (dalla televisione al cinema).

Mi piace pensare a Lei come a una sorta di archeologa della memoria, in grado di scavare nel passato recente dell’Italia e non solo, per far riemergere delle testimonianze di cui si rischia di perdere la memoria. E qui mi vengono in mente opere importanti nella sua carriera, come Il processo o Gli anarchici non archiviano. Anzi direi che è interessante partire dal titolo della sua opera per la Biennale di Carrara del 2010, che riprende a sua volta il titolo di un catalogo di manifesti anarchici, per constatare che in realtà spesso siamo portati ad archiviare ampi brani della nostra storia, soprattutto quella recente, col rischio di dimenticarcene. Secondo lei allora quale dev’essere in questo senso la funzione dell’arte nei riguardi della storia o della memoria?

Mi riallaccio per un momento a The City per sottolineare che è la prima opera in cui mi sono direttamente confrontata con l’archeologia, perché, in effetti, ho sempre lavorato soprattutto con l’archeologia del moderno, e in particolare col Novecento. Se parliamo della posizione dell’artista nei confronti della storia e della memoria ovviamente parliamo di due situazioni molto diverse, io sono molto più vicina alla memoria anche perché mi piace indagare su varî fronti, sia attraverso materiali d’archivio, sia attraverso le interviste (mi interessa molto la memoria soggettiva, come si sono tramandate le cose da soggetto a soggetto, come arrivano al contemporaneo). Si tratta dunque di una memoria estesa, e quella che m’interessa principalmente è una memoria fatta da individui. Molti dei miei lavori però si confrontano con la storia intervenendo su quello che possiamo chiamare “il sistema”, ovvero la società. L’arte, nel mio caso, cerca di dare la dimensione di questo confronto tra la memoria del singolo e la storia ufficializzata, già “editata”, o che ha già subito quel “montaggio delle informazioni” di cui a volte parlo con le mie opere.

Rossella Biscotti, The City (2013-; video installazione 5 canali video, 8 canali audio). Installation view, Kunsthaus Baselland (2018). Ph. Credit Serge Hasenböhler
Rossella Biscotti, The City (2013-; video installazione 5 canali video, 8 canali audio). Installation view, Kunsthaus Baselland (2018). Ph. Credit Serge Hasenböhler. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, The City (2013-; video installazione 5 canali video, 8 canali audio). Installation view, Kunsthaus Baselland (2018). Ph. Credit Serge Hasenböhler
Rossella Biscotti, The City (2013-; video installazione 5 canali video, 8 canali audio). Installation view, Kunsthaus Baselland (2018). Ph. Credit Serge Hasenböhler. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, Il processo (2010-; installazione sonora, calchi in cemento armato, dimensioni varie). Installation view, Premio Italia Arte Contemporanea, MAXXI, Roma). Ph. Credit Sebastiano Luciano
Rossella Biscotti, Il processo (2010-; installazione sonora, calchi in cemento armato, dimensioni varie). Installation view, Premio Italia Arte Contemporanea, MAXXI, Roma. Ph. Credit Sebastiano Luciano. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, Gli anarchici non archiviano (2010; metallo, caratteri mobili di piombo). Installation view, XIV Biennale Internazionale di Scultura, Carrara, 2010. Ph. Credit Gennaro Navarra
Rossella Biscotti, Gli anarchici non archiviano (2010; metallo, caratteri mobili di piombo). Installation view, XIV Biennale Internazionale di Scultura, Carrara, 2010. Ph. Credit Gennaro Navarra. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi

Se penso alla memoria individuale, mi viene in mente la Sua opera A shirt, blue pants, blue jeans, a towel, nella quale Lei ha affrontato non soltanto la storia delle persone, ma anche quella del luogo, simultaneamente. Ecco: questo potrebbe essere un buon esempio di quel confronto tra memoria individuale e storia di cui abbiamo appena parlato. Sarebbe quindi curioso capire come questo confronto avviene all’interno dell’opera.

Stiamo parlando di un’opera molto particolare perché deriva, a sua volta, da una commissione molto particolare, che mi venne affidata dalla chiesa di Sankt Peter a Colonia, una chiesa gesuita dove si trova l’ultima pala di Rubens, la Crocifissione di san Pietro. Ma questo luogo è legato al grande pittore anche per il fatto che il padre era nato lì vicino, quindi era una chiesa frequentata da Rubens (peraltro si dice anche che la tomba del padre di Rubens sia una di quelle che si trovano sotto il pavimento). È una chiesa che, come tutta Colonia, è stata bombardata e in parte distrutta durante la seconda guerra mondiale. L’opera mi era stata commissionata dalla chiesa stessa, dalla comunità della chiesa, che aveva presentato altre mostre d’arte contemporanea, ma non aveva mai partecipato attivamente ad un progetto. Il lavoro, in questo caso, è partito dalla memoria della città e dal fatto che Colonia sia stata bombardata pesantemente, e ho voluto immaginare come questa città moderna sia stata costruita sulle macerie di una guerra. Partendo dallo stesso pavimento della chiesa di Sankt Peter: è in cemento levigato, molto minimale, bellissimo, ma contiene anche le tombe e le macerie della seconda guerra mondiale. Ed è diventato lo scenario dell’opera: per realizzarla ho pensato di coinvolgere tutta la comunità della chiesa, alla quale ho chiesto di donare dei vestiti (però non come viene fatto normalmente, quando cioè le persone donano vestiti che altrimenti butterebbero: ho chiesto di donare dei vestiti che avessero un significato per i loro possessori, vestiti che le persone volevano fossero inclusi nell’opera diventandone parte e, di conseguenza, diventando memoria di chi li aveva donati). Alcune donazioni sono arrivate accompagnate da un messaggio. Ho avuto tante donazioni, alcune anche struggenti, per esempio vestiti di persone morte, altre molto simpatiche, come mutande leopardate e calzini striati e spaiati, e tante donazioni dal prete stesso, che ha donato vestiti e paramenti sacri. Ho poi inglobato le donazioni all’interno di sculture, alcune sfere e alcuni blocchi di cemento levigato, che sono state in seguito esposte all’interno della chiesa in una installazione che attraversava tutto lo spazio e sembra emergere dallo spazio stesso. La scultura più grande era composta solo di lenzuola per il letto e di federe di cuscino: l’abbiamo realizzata direttamente in chiesa, ed era in diretta relazione con la pittura di Rubens e quindi con la sua Crocifissione di San Pietro. E non c’è solo un riferimento visivo, nel senso che la forma dell’opera richiamava quella del corpo di san Pietro crocifisso: dobbiamo anche immaginare la materialità molto forte di queste sculture in tessuto e cemento, un elemento che a sua volta si pone in rapporto con la materialità e con i colori della pittura di Rubens.

A proposito di memoria della città: uno dei risultati più interessanti delle sue ricerche in archivio è stata l’opera Le teste in oggetto, cinque sculture monumentali raffiguranti le teste di Mussolini e di Vittorio Emanuele III finite in un deposito a Roma, alle quali è stata data nuova vita, nel senso che sono diventate opere d’arte cariche di nuovi significati. Un’opera che anticipa dunque di diversi anni il dibattito che si sta sviluppando sui monumenti in questi giorni, nei confronti del quale Lei peraltro sembra anche piuttosto partecipe sui social. Le chiederei dunque qual è l’idea di “monumento” veicolata da questa Sua opera che inevitabilmente affronta il problema della persistenza dei monumenti.

Le teste in oggetto è nata mentre stavo facendo una ricerca a Roma (che poi si è protratta fino alla Toscana) su edifici fascisti in ristrutturazione: mi trovavo dunque a Roma, al Palazzo degli Uffici dell’EUR, che in quel momento era in ristrutturazione, per compiere alcune ricerche su cosa venisse conservato e cosa venisse invece rimosso, anche a livello di simboli. Lì, proprio perché lavoravo all’interno dell’edificio e conoscevo le persone che lavoravano a questa ristrutturazione, mi venne chiesto se avessi visto quelle grandi teste (o quei “capoccioni”, come mi era stato detto) che si trovavano nei depositi. Quando entrai nel deposito le vidi che erano sommerse da polvere e cianfrusaglie: era il 2006, e quando nel 2009 la Fondazione Nomas mi chiese di fare una mostra io pensai di utilizzare le informazioni che avevo raccolto tre anni prima (sottolineo che mi accade molto spesso di lasciar passare qualche anno da una ricerca per poi tornare su quello stesso argomento con un’opera), e in quel momento l’idea era quella di trasportare le teste dal deposito alla mostra, metterle in mostra due giorni, e poi farle tornare in magazzino. Questa operazione così semplice (abbiamo persino deciso di esporre le sculture senza spolverarle e senza rimuoverle dai loro pallet) in realtà ha suscitato molte discussioni: addirittura, nel momento in cui ci siamo seduti al tavolo e abbiamo deciso di realizzarla, c’è stata anche una discussione per capire se quest’operazione poteva comportare degli attacchi da parte dei fascisti, oppure attacchi da parte della sinistra, e anche se avrebbe attirato (cosa che poi si è puntualmente verificata) dei nostalgici che si sarebbero fatti la foto con le teste. Questa due giorni, assieme alla discussione che ne è emersa (che poi è rientrata nella mostra con una lecture che ho fatto alla conclusione), è intervenuta su un dibattito che in quel momento era ancora in fieri: cosa fare di queste opere? Cosa mantenere? Cosa nascondere? Cosa distruggere? In quel momento Roma stava decidendo di mostrare tante cose, era il periodo in cui si stava restaurando il grande obelisco di Mussolini al Foro Italico, e la mostra ha rappresentato un’occasione di approfondimento molto interessante: perché non ce lo aspettavamo ma tanta gente si è come liberata di un peso, molti volevano approfondire la storia di queste opere (e del passato che rappresentano) e la reazione anche di relazione fisica con l’oggetto + stata varia: alcuni scattavano foto, c’era chi le toccava, chi le analizzava minuziosamente (abbiamo scoperto che una statua deturpata nascondeva una falce e martello disegnata sulla guancia e poi coperta con una strato di patina), chi semplicemente voleva girarci intorno, innalzandosi fisicamente a un livello di altezza superiore della statua, assumendo inconsapevolmente una dimensione diversa rispetto a quella del monumento. Poi, quando mi chiesero di fare una mostra nel 2015, al Museion di Bolzano, riprendendo queste sculture, ho pensato che fosse impossibile: ritenevo che il passaggio di queste opere in un museo avrebbe potuto capovolgere il significato dell’operazione che era stata fatta alla Nomas, nel senso che quell’operazione effimera aveva messo in luce tutta una serie di contraddizioni, che sono poi le stesse che emergono ora con il movimento di Black Lives Matter e con la rimozione dei monumenti a cui stiamo assistendo in queste settimane. Non potevo rimusealizzare le teste. Così ho deciso di riprodurle attraverso dei calchi in silicone colorato (abbiamo adoperato un silicone che si utilizza per fare i calchi degli oggetti venduti come souvenir), abbiamo utilizzato una tecnica che consentisse una facile riproducibilità, e abbiamo convinto la soprintendenza a darci l’autorizzazione a eseguire i calchi. Tutto questo perché desideravo che si cambiasse l’argomento di discussione e che il dibattito vertesse sul tema della possibilità di riproduzione del passato, in linea con quello che accadeva nel 2015, quando si parlava di ritorni (in forma diversa) del fascismo. Anche per questo abbiamo deciso di dare una sorta di apparenza pop alle sculture e di creare un effetto illusorio (l’immagine cava del calco, se ci si allontanava, dava l’impressione di diventare convessa, quindi nuovamente tridimensionale). Credo che quando si parla di storia, ma anche quando si parla di monumenti, non si possa essere ignoranti, il punto è conoscerne la storia e capire come si relaziona al contemporaneo. Una stessa statua, se investita di proiezioni o accompagnata da un cartello (per esempio quando l’immagine di John Lewis, un pioniere dei diritti civili, è stata proiettata sulla statua del generale Robert E. Lee in Richmond, Virginia, Stati Uniti, il 19 luglio del 2020, durante le proteste del movimento di Black Lives Matter) può cambiarne completamente significato e acquistare un altra forza, mostrare la stratificazione della storia, o vedere il suo significato iniziale completamente ribaltato.

Rossella Biscotti, A shirt, blue pants, blue jeans, a towel (2018; 24 sculture in cemento, tessuti, dimensioni variabili). Installation view, chiesa di Sankt Peter, Colonia (208). Ph. Credit Christopher Clem Franken
Rossella Biscotti, A shirt, blue pants, blue jeans, a towel (2018; 24 sculture in cemento, tessuti, dimensioni variabili). Installation view, chiesa di Sankt Peter, Colonia (208). Ph. Credit Christopher Clem Franken. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, A shirt, blue pants, blue jeans, a towel (2018; 24 sculture, tessuti, dimensioni variabili). Installation view, chiesa di Sankt Peter, Colonia (208). Ph. Credit Christopher Clem Franken
Rossella Biscotti, A shirt, blue pants, blue jeans, a towel (2018; 24 sculture, tessuti, dimensioni variabili). Installation view, chiesa di Sankt Peter, Colonia (208). Ph. Credit Christopher Clem Franken. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, Le teste in oggetto (2009). Installation view, Nomas Foundation, Roma (2009). Ph. Credit Ela Bialkowska
Rossella Biscotti, Le teste in oggetto (2009). Installation view, Nomas Foundation, Roma (2009). Ph. Credit Ela Bialkowska. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, Le teste in oggetto (2014; 5 sculture in silicone e resina, dimensioni varie). Installation view The Future can only be for Ghosts, Museion, Bolzano (2014). Ph. Credit Luca Meneghel. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi
Rossella Biscotti, Le teste in oggetto (2014; 5 sculture in silicone e resina, dimensioni varie). Installation view The Future can only be for Ghosts, Museion, Bolzano (2014). Ph. Credit Luca Meneghel. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, La cinematografia è l'arma più forte (2003-2007). Intermezzo all'interno di un cinema , Strombeek, Belgio (2015)
Rossella Biscotti, La cinematografia è l’arma più forte (2003-2007). Intermezzo all’interno di un cinema , Strombeek, Belgio (2015). Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi

È una situazione che forse è più evidente e meno fraintendibile quando vediamo una testa di Mussolini o di Vittorio Emanuele, ma le barriere che ci dividono dal passato potrebbe diventare molto più labili quando ci troviamo di fronte a una Sua opera come La cinematografia è l’arma più forte, che riprende la celebre frase di Mussolini che però, senza connotazione, può correre il rischio di diventare ambigua. È una possibilità che va disinnescata?

La maggior parte delle mie opere sono ambigue, a me interessa mantenere i diversi livelli di significato, e mi interessa che lo spettatore si ponga un interrogativo: per me la domanda che parte dal punto di vista dello spettatore è fondamentale, non mi interessa dare risposte pronte, mi interessa suscitare domande, discussioni, però in maniera complessa. La cinematografia è l’arma più forte risale al 2003, come pittura murale alla Fondazione Olivetti di Roma, poi ripresa successivamente e proiettata rifatta come “intermezzo” inserito tra varie proiezioni nel cinema. In questo caso è il lettering che ricorda il fascismo: io faccio presa sul fatto che magari lo spettatore non riconosce la citazione, però come italiani siamo abituati a quel tipo di grafica, che sappiamo essere fascista, la riconosciamo dalla sua estetica molto forte, inconfondibile. È un’opera che lavora sull’ambiguità anche perché risale a un periodo storico in cui Berlusconi utilizzava la televisione in modo propagandistico e questo suo utilizzo suscitava forti dibattiti: ecco, per me questa ambiguità è importante perché apre dimensioni diverse, che non riguardano solo il periodo storico a cui risale una frase (in questo caso al Ventennio fascista), ma che possa parlare anche di argomenti molto attuali.

Lei ha adoperato questo procedimento per parlare di un altro argomento molto attuale, quello delle migrazioni, in questo caso con l’opera Clara, che esamina il tema dal punto di vista degli animali e in particolare da quello di Clara, uno dei rinoceronti più famosi della storia, finito anche in diverse opere d’arte del Settecento. Quali sono allora le continuità col presente che la storia di questo animale Le ha suggerito?

Per me la storia di Clara è molto interessante: è la storia di un rinoceronte ma potrebbe anche essere la storia di un umano. Credo che le similarità vadano cercate nell’esperienza di sfruttamento di un essere vivente che viene catturato e spedito in Europa per il suo esotismo, quindi utilizzato come fenomeno da baraccone, divenuto oggetto di business di uno dei capitani della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, dipinto da artisti, tanto da diventare molto conosciuto e molto famoso, ma rimanendo sempre sfruttato. Il lavoro, a livello materiale, si concretizza in una serie mattoni fatti da una delle ultime fabbriche che in Olanda produce mattoni con procedimenti antichi (con il fuoco e con l’argilla dei fiumi del territorio), perché i mattoni venivano usati per bilanciare le navi che viaggiavano verso l’Oriente. E Clara, nell’opera, è rappresentata attraverso varie traduzioni del suo essere (il suo peso, il suo valore economico, anche quello che si pensava fosse il suo vizio: si diceva cioè che avesse il vizio del tabacco perché durante il viaggio i marinai le fumavano addosso), senza che si parli di lei in quanto animale o essere vivente. Successivamente ho fatto un’altra mostra partendo da Clara però cambiando argomento, e l’unica cosa che c’era di lei all’interno di questa mostra, che parlava principalmente di sfruttamento (in quel caso di piante e di donne), era l’odore, perché si diceva che, per mantenere inalterata l’umidità della sua pelle, Clara venisse cosparsa di olio di pesce, e una riproduzione della lista del cargo con cui viaggiava (ho scoperto anche che Clara ha viaggiato su di una nave piena di tessuti per arrivare in Europa). Anticipo peraltro che Clara sarà oggetto di una mostra al Rijksmuseum l’anno prossimo: l’opera sarà inserita all’interno di una mostra che porterà tutte le immagini di Clara all’interno del museo di Amsterdam.

Rossella Biscotti, Clara (2016; 3 tonnellate di mattoni olandesi artigianali, 2,7 kg di tabacco, vinile a muro). Installation view, Van Abbemuseum, Eindhoven (2016). Ph. Credit Peter Cox
Rossella Biscotti, Clara (2016; 3 tonnellate di mattoni olandesi artigianali, 2,7 kg di tabacco, vinile a muro). Installation view, Van Abbemuseum, Eindhoven (2016). Ph. Credit Peter Cox. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, I dreamt that you changed into a cat... gatto... ha ha ha (2013; sculture in compost di dimensioni variabili, installazione sonora di 60 minuti, 12 disegni in cornice, 34 x 34 cm ciascuno). Installation view, WIELS, Bruxelles (2014). Ph. Credit Sven Laurent
Rossella Biscotti, I dreamt that you changed into a cat... gatto... ha ha ha (2013; sculture in compost di dimensioni variabili, installazione sonora di 60 minuti, 12 disegni in cornice, 34 x 34 cm ciascuno). Installation view, WIELS, Bruxelles (2014). Ph. Credit Sven Laurent. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi


Rossella Biscotti, I dreamt that you changed into a cat... gatto... ha ha ha (2013; sculture in compost di dimensioni variabili, installazione sonora di 60 minuti, 12 disegni in cornice, 34 x 34 cm ciascuno). Installation view, Biennale di Venezia 2013. Ph. Credit Ilaria Zennaro
Rossella Biscotti, I dreamt that you changed into a cat... gatto... ha ha ha (2013; sculture in compost di dimensioni variabili, installazione sonora di 60 minuti, 12 disegni in cornice, 34 x 34 cm ciascuno). Installation view, Biennale di Venezia 2013. Ph. Credit Ilaria Zennaro. Courtesy Wilfried Lentz, Rotterdam e Mor Charpentier, Parigi

Per concludere vorrei tornare alla Biennale 2013, che affrontava la dimensione del sogno e che rimane una delle Sue esperienze più note. Sognare è un’attività importante per un artista: credo che in parte, implicitamente, lo ricaviamo anche da questa nostra conversazione. Secondo Lei oggi i musei e le istituzioni dell’arte sono ancora in grado di farlo?

Sarebbe bello! Nella mia esperienza, più le istituzioni sono grandi e più diventano delle macchine, quindi c’è tanta difficoltà di essere snelli, capaci di accogliere ispirazioni, sogni, progetti che sono o sembrano impossibili o difficili da realizzare. Sempre secondo la mia esperienza personale, quello che tento di fare col mio metodo di lavoro è aggregare istituzioni, quindi lavorare un po’ per volta e man mano mettere insieme delle istituzioni che altrimenti non starebbero mai insieme (magari perché vengono da contesti diversi), col fine di realizzare qualcosa di grande, e chiaramente questo significa tempo, significa che l’opera magari ha una gestazione completamente diversa, ma di sicuro si tratta anche di una metodologia che permette di avere tanta libertà, e questa idea di libertà si collega, nella mia esperienza, all’idea di sogno. Quest’anno, per esempio, sono tornata a Carrara per realizzare un’opera che parte dalla Biennale Internazionale di Scultura del 2010, dove avevo vinto il Premio Michelangelo, che consisteva in un grande blocco di marmo di cui io non ho mai pensato di fare utilizzo, ma a un certo punto ho cambiato idea e ho pensato di renderlo parte di un progetto che si chiama The Journey, di farlo viaggiare nel Mediterraneo e, alla fine, di rilasciarlo in acque internazionali. È un progetto che avevo presentato con uno script alla Quadriennale di Roma nel 2016, poi l’avevo ripresentato al Van Abbemuseum di Eindhoven producendo una serie di mappe e analizzando la stratificazione sociale, geologica e politica del di luoghi del Mediterraneo nei quali come luogo che accoglierà questo blocco, in un viaggio-performance che mette insieme il Kunstenfestival di Bruxelles, il Dream City che è un festival di danza e di performance di Tunisi, Blitz che è uno spazio no-profit di Malta, ed altre istituzioni internazionali da confermare. Quindi, attraverso tutte queste istituzioni, riuscirò a realizzare un progetto che altrimenti sarebbe irrealizzabile. Un sogno, in sostanza.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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