I Buddha di Bamiyan: storia dei due monumenti distrutti dai talebani


I Buddha di Bamiyan, le due grandi statue di Buddha del VI secolo, furono distrutte dai talebani nel 2001, per diversi motivi: è stata una delle perdite culturali più gravi dopo la seconda guerra mondiale. Ecco cos'erano le statue e perché erano importanti.

“La vallata era dominata da una sensazione di vuoto, di vertigine, scomparsa la magia che emanava dall’alto. Ti sembrava che avessero rapito i due guardiani, benefici, che dalla loro posizione garantivano un equilibrio. I due Buddha che avevano protetto per secoli il panorama erano stati cancellati, guardavi le due vuote caverne con angoscia”. Le parole per descrivere il senso d’inquietudine lasciato dalla distruzione dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan sono quelle del grande fotografo Steve McCurry, raccolte nel libro Il mondo di Steve McCurry di Gianni Riotta. Il fotografo statunitense, con i suoi reportage, ha più volte documentato quanto avveniva nel paese asiatico, lacerato da decenni di guerre che hanno devastato anche il suo patrimonio artistico: la perdita dei due colossi di roccia è quella più nota a livello internazionale.

Per il mondo, la distruzione dei due Buddha ha rappresentato una delle perdite culturali più significative dopo la seconda guerra mondiale, anche in considerazione del fatto che si è trattato di un atto deliberato. E per dare un’idea dell’importanza di questi due monumenti, McCurry usa un’immagine efficace: “Immagina di tornare in Francia e vedere rasa al suolo la cattedrale gotica di Notre-Dame di Chartres, che iniziarono a costruire nel 1194, quando i Buddha erano già vecchi di secoli. Si arriva dall’autostrada, la cattedrale troneggia a distanza, solenne, magnifica. È gigantesca, domina sull’area circostante e ti chiedi come dovesse essere mezzo millennio fa, circondata solo da capanne e villaggi. I viandanti, i contadini, i mercanti la scorgevano da lontano, ne usavano le guglie per orientarsi, dovevano esserne ammaliati, la cattedrale era una fonte d’ispirazione per tutti. La stessa funzione carismatica svolgevano i Buddha, la loro distruzione sconvolge, come se un ciclo negativo scuotesse il nostro tempo”.

Il Buddha di Bamiyan maggiore. Foto di Françoise Foliot
Il Buddha di Bamiyan maggiore. Foto di Françoise Foliot


Il Buddha di Bamiyan minore. Foto di John Alfred Gray del 1895
Il Buddha di Bamiyan minore. Foto di John Alfred Gray del 1895

La distruzione dei Buddha di Bamiyan per mano dei talebani

2 marzo 2001: attorno ai Buddha di Bamiyan, due statue monumentali di Buddha, del VI-VII secolo dopo Cristo, scolpite nella roccia della valle di Bamiyan in Afghanistan, i talebani, saliti al potere nel paese nel corso della guerra civile, sistemano ingenti quantità di dinamite. Fino al 1998, l’area nella quale sorgevano i Buddha era sotto il controllo delle milizie di Hezbe Wahdat, il partito islamico dell’Afghanistan, una delle fazioni che facevano parte dell’Alleanza del Nord, ovvero la coalizione che, durante la guerra civile, combatteva contro l’emirato islamico dei talebani. Nell’agosto di quell’anno, i talebani avevano sconfitto gli avversari nella battaglia di Mazar-i Sharif, assicurandosi il controllo di quest’ultima città, la quarta del paese, capoluogo della provincia di Balkh, e di tutta l’area circostante. Già durante la battaglia alcuni leader dei talebani, seguaci fondamentalisti di un islam iconoclasta, avevano manifestato l’intenzione di far saltare in aria i Buddha di Bamiyan, ed erano già cominciate le operazioni per disporre il tritolo attorno ai monumenti.

Era stato necessario l’intervento del mullah Omar per fermare, almeno per il momento, la distruzione: la guida suprema dei talebani aveva emanato, nel luglio del 1999, un decreto per preservare i Buddha, nel quale si poteva leggere che, malgrado non ci fossero più buddhisti in Afghanistan, “il governo considera le statue di Bamiyan un esempio di fonte di introiti per i visitatori internazionali in Afghanistan. I talebani dichiarano che le statue di Bamiyan dovrebbero essere non distrutte bensì protette”. Il proposito però durerà molto poco: neanche un paio d’anni più tardi, il 27 febbraio del 2001, i talebani dichiarano ufficialmente che le statue saranno distrutte, e a nulla vale la mobilitazione internazionale: si muove anche l’Organizzazione della cooperazione islamica (OIC), l’ente che attualmente rappresenta 56 Stati (allora erano 54) con l’obiettivo di tutelare gli interessi delle popolazioni musulmane nel mondo. Tutti i paesi membri dell’OIC si uniscono alle proteste di chi chiede di salvare i Buddha. Il presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, invia una delegazione per trattare con il mullah Omar al fine di scongiurare la distruzione dei monumenti. Il giornalista Steve Coll, nel suo libro Ghost Wars, ha riferito cosa il ministro dell’interno pakistano Minuddin Haider avesse detto durante gli abboccamenti: che il Corano stabilisce che i musulmani non dovrebbero distruggere gli dèi delle altre religioni, che quelle statue sono più antiche dell’Islam stesso, che migliaia di musulmani di tutte le epoche erano stati in Afghanistan senza aver mai pensato di distruggerle. “Siete dunque musulmani diversi da loro?”, avrebbe chiesto Haider ai talebani. La risposta del mullah Omar, secondo Coll, è però spiazzante: “forse non avevano la tecnologia per distruggerle”. L’Agenzia France Press riporta di un colloquio tra l’allora segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, e il ministro degli esteri del governo talebano, Wakil Ahmed Muttawakil, durante il quale Annan avrebbe fatto presente a Muttawakil la posizione degli altri paesi islamici, tutti contrari alla distruzione delle statue, aggiungendo che un’operazione simile avrebbe allontanato dall’Afghanistan il supporto della comunità internazionale durante la crisi umanitaria che il paese sta ancora attraversando dopo tanti anni di guerra civile. Secondo il deposto re dell’Afghanistan, Mohammed Zahir Shah, la distruzione va “contro gli interessi nazionali e storici del popolo afghano”. L’India, addirittura, si offre per trasferire i Buddha sul proprio territorio nazionale.

Non c’è però niente da fare: il destino delle statue è segnato. E il 2 marzo la dinamite comincia a esplodere. All’esplosivo si aggiungono i colpi di artiglieria: abbattere due enormi statue, di 38 e 53 metri d’altezza, scavate nella roccia e quindi attaccate alla montagna, non è semplice neppure per i più furiosi iconoclasti. Vengono piazzate anche mine anticarro, vengono lanciati razzi contro le statue. Nel giro di un paio di settimane, le statue sono distrutte, e di loro non rimangono che i profili nella roccia, ridotti ormai a due ombre, ma comunque ancora riconoscibili: la follia talebana non è riuscita a fare completamente piazza pulita di ciò che da mille e cinquecento anni si trovava nelle montagne della valle di Bamiyan. E ha però scatenato indignazione in tutto il mondo e presso tutte le comunità religiose, comprese quelle islamiche.

La valle di Bamiyan con la statua grande prima del 2001. Foto di Françoise Foliot
La valle di Bamiyan con la statua grande prima del 2001. Foto di Françoise Foliot


I due Buddha in un'incisione di Alexander Burnes pubblicata nel 1833
I due Buddha in un’incisione di Alexander Burnes pubblicata nel 1833


I due Buddha in un'illustrazione di P.J. Maitland pubblicata sulla rivista The London Illustrated (1886)
I due Buddha in un’illustrazione di P.J. Maitland pubblicata sulla rivista The Illustrated London News (1886)

Che cos’erano i Buddha di Bamiyan

Prima della loro distruzione, i Buddha di Bamiyan erano tra i monumenti più impressionanti del mondo, nonché i più grandi esempi esistenti di statue di Buddha stanti ricavate dalla roccia (ne esiste una di dimensioni maggiori, il Buddha Gigante di Leshan che si trova in Cina ed è alto 71 metri, ma è in posizione seduta). Si trattava, come ricordato sopra, di due colossali statue di Buddha, alte una 38 e l’altra 53 metri: non sappiamo però chi le abbia commissionate, né a chi si debba il progetto. Erano però un’importante testimonianza della presenza dei buddhisti in Afghanistan in tempi antichi. La valle di Bamiyan si trova infatti sulla strada che dall’India porta verso l’Asia centrale, configurandosi dunque come una località situata nei pressi della Via della Seta, il complesso di rotte commerciali che che connetteva l’Estremo Oriente all’Europa, con diramazioni che passavano anche attraverso il subcontinente indiano. La città di Bamiyan, che oggi conta circa sessantamila abitanti, situata a circa 250 chilometri dall’odierna capitale Kabul, era in antico uno snodo lungo le vie del commercio in quanto sorgeva al centro di una fertile pianura adagiata attorno alle rive del fiume omonimo: era dunque frequente meta di mercanti ma anche di missionari buddhisti, che furono a lungo attivi in questa zona. Attorno a Bamiyan sorgevano in antico diversi monasteri buddhisti e la città stessa, fino all’epoca delle prime incursioni dei conquistatori di fede islamica, era un importante centro filosofico e artistico buddhista (la religione buddhista, prima della conquista islamica dell’Afghanistan che fu completata nel X secolo, era la religione prevalente sul territorio).

Le statue, scrive lo studioso Llewelyn Morgan, “furono scolpite ad alto rilievo, attaccate alla parete della loro nicchia dall’altezza dell’orlo delle loro vesti fino alla parte posteriore della testa, in un assetto che facilitava l’importante rito buddhista della circumambulazione: i fedeli potevano camminare attorno alle statue sia al livello del terreno, dietro i loro grandi piedi, sia sulla sommità delle loro teste” (in origine si pensa che accanto al Buddha più grande ci fosse una rampa o un sentiero per raggiungere la sommità, poi scomparso nel tempo a causa dell’erosione che ha sempre afflitto la roccia conglomerata, molto friabile, di cui è costituita la montagna dalla quale sono stati ricavati i due monumenti). Le statue avevano dunque scopi rituali: venivano adorate dai buddhisti in una pratica tipica delle religioni orientali, che prevede di passeggiare attorno a un’immagine o a una reliquia della divinità. Secondo la storica dell’arte Susan Huntington, le due statue rappresentano due manifestazioni del Buddha: quello più grande è il Buddha Vairochana, ovvero la rappresentazione del Buddha celeste, mentre quello più piccolo è il Buddha Shakyamuni, altro nome con cui è noto Gautama Siddhartha, vale a dire il Buddha storico, il monaco vissuto tra il 566 a.C. e il 486 a.C., fondatore della religione.

Le statue furono scolpite in una roccia che, come detto, è molto delicata e pertanto non si prestava a decorazioni molto elaborate: i due Buddha erano stati pertanto sbozzati in maniera piuttosto grossolana, anche se le pieghe dei panneggi del samghati, la veste, furono tracciate direttamente sulla roccia. Per le decorazioni più minute vennero adoperati rivestimenti in argilla: nella pietra si trovano fori che ospitavano paletti di legno ai quali venivano applicati i rivestimenti in argilla, anche se già nel XX secolo la stragrande maggioranza di queste decorazioni fosse andata perduta (alla data della distruzione operata dai talebani era comunque possibile vederne ancora alcune tracce). I due Buddha sono vestiti alla maniera tradizionale dei monaci buddhisti, con il tipico abbigliamento noto come tricivara e composto da tre indumenti: una uttarasanga, ovvero una veste per la parte superiore del corpo, una antarvasaka, per la parte inferiore, e il samghati, la tunica che copriva le spalle e arriva fino quasi ai piedi. Le pieghe dei samghati sono state realizzate con gran precisione, descritte per suggerire l’idea che la veste aderisse al corpo (e dunque si poteva percepire l’anatomia delle figure). Gli avambracci di entrambe le statue (fatta eccezione per il sinistro del Buddha maggiore) erano aggettanti, in quanto progettati per muoversi in avanti (le mani tuttavia andarono perdute prima del XX secolo: già nelle incisioni ottocentesche le statue apparivano monche). La peculiarità fisica più evidente dei due Buddha era però l’assenza dei volti: anche in questo caso, già nell’Ottocento al posto delle facce si vedevano due pareti verticali di roccia. Non è chiaro se furono asportate da iconoclasti musulmani in tempi antichi o se i due Buddha fossero stati concepiti senza i connotati facciali per ragioni pratiche: Morgan riferisce tuttavia che gli studiosi sono orientati sulla seconda ipotesi (“un solco tra il piano orizzontale e quello verticale sul volto di ciascuno dei due Buddha”, scrive Morgan, “è stato interpretato come un punto di ancoraggio per strutture lignee - ovvero delle maschere a tutti gli effetti - che rappresentavano i loro connotati”). Osservando il Buddha maggiore si poteva vedere l’usnisa, la protuberanza sulla sommità del cranio simbolo della sua intelligenza trascendente, ed entrambe le statue presentavano parti delle loro orecchie pendule, oltre a tracce dei capelli.

Non è nota con sicurezza l’epoca in cui i due Buddha di Bamiyan furono eseguiti. Per una serie di indicazioni (lo stile, le datazioni al radiocarbonio, il periodo di maggior prosperità della città di Bamiyan) si pensa che la loro esecuzione si collochi tra la metà del VI e gli inizi del VII secolo. Lo stile è quello dell’arte Gandhara, nota anche come arte greco-buddhista, una forma d’arte sincretica tra le espressioni artistiche della Grecia antica e quelle del buddhismo: fiorì nell’India nord-occidentale nei primi secoli dopo Cristo e prende il nome della regione di Gandhara, dove comparve. Si trattava di un’area che costituiva un vero ponte tra l’Oriente e l’Occidente: nel I secolo d.C., infatti, questo territorio, all’epoca occupato dall’impero Kusana (che si estendeva in un’area dove oggi si trovano, a grandi linee, l’India del nord e parte del Pakistan e dell’Afghanistan), era soggetto a diffuse e radicate attività di missionari buddhisti, ma manteneva anche i contatti con l’Impero Romano. La fusione tra queste due culture diede origine all’arte greco-buddhista entro la quale vanno annoverati anche i Buddha di Bamiyan.

Distruzione dei Buddha di Bamiyan
Distruzione dei Buddha di Bamiyan


La nicchia del Buddha maggiore dopo la distruzione. Foto di Tracy Hunter
La nicchia del Buddha maggiore dopo la distruzione. Foto di Tracy Hunter


La nicchia del Buddha maggiore dopo la distruzione. Foto di Tracy Hunter
La nicchia del Buddha maggiore dopo la distruzione. Foto di Tracy Hunter


La nicchia del Buddha minore dopo la distruzione. Foto di Alessandro Balsamo
La nicchia del Buddha minore dopo la distruzione. Foto di Alessandro Balsamo


Valle di Bamiyan con la città e, sullo sfondo, la nicchia del Buddha maggiore vuota. Foto di Roland Lin
Valle di Bamiyan con la città e, sullo sfondo, la nicchia del Buddha maggiore vuota. Foto di Roland Lin

Perché i talebani li hanno distrutti?

Ufficialmente, la decisione di distruggere i Buddha (che erano sopravvissuti ai primi conquistatori islamici, all’arrivo delle armate di Gengis Khan e alla guerra in Afghanistan del 1979-1989, quella che vide opposte le forze della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, sostenute dall’Unione Sovietica, ai Mujaheddin sunniti sostenuti invece dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali) fu presa per motivi religiosi. In base all’interpretazione fondamentalista dell’islam praticata dai talebani, la religione proibisce la rappresentazione della figura umana e non ammette idoli di altre religioni. “I musulmani”, avrebbe detto all’epoca della distruzione il mullah Omar sulla base di quanto riportato il 6 marzo 2001 dal Times, “dovrebbero essere fieri di distruggere gli idoli. Sia lode ad Allah per averli distrutti”. In un’intervista al quotidiano giapponese Manichi Shimbun, l’allora ministro degli esteri del governo talebano Muttawakil disse: “Stiamo distruggendo le statue in accordo alla legge islamica e si tratta di una materia puramente religiosa”.

Tuttavia, tali dichiarazioni stridono col decreto del mullah Omar emanato appena un anno e mezzo prima, nel quale veniva affermata la volontà di tutelare i Buddha di Bamiyan. Cosa era cambiato allora nel frattempo, stante il fatto che l’interpretazione dell’islam da parte dei talebani non aveva conosciuto modifiche significative? È decisamente più verosimile che le ragioni della distruzione fossero legate alla situazione politica internazionale. Un articolo pubblicato il 18 marzo 2001 sul New York Times, firmato da Barbara Crossette, riporta che i talebani ordinarono la distruzione dei Buddha di Bamiyan dopo la visita di una delegazione internazionale composta da inviati europei e da un delegato dell’Unesco: stando al pezzo, la delegazione avrebbe offerto risorse economiche ai talebani per proteggere i Buddha di Bamiyan. I talebani si sarebbero sentiti oltraggiati per l’offerta occidentale, dal momento che il governo fondamentalista avrebbe preferito soldi per sfamare la popolazione, e decisero di distruggere le statue per risentimento. Questa versione è stata fornita alla giornalista da Sayed Rahmatullah Hashimi, ambasciatore talebano che avrebbe partecipato agli abboccamenti: “Quando i tuoi figli muoiono davanti a te”, dichiarò Rahmatullah, “non ti interessi delle opere d’arte”. La delegazione occidentale poteva infatti offrire risorse esclusivamente destinate alla tutela delle due statue, secondo il New York Times. “Se distruggete il nostro futuro con sanzioni economiche”, aggiunse poi Rahmatullah, “significa che non v’importa granché del nostro patrimonio culturale. Avremmo potuto distruggere le statue tre anni fa”, aggiunse poi Rahmatullah. “Perché non lo abbiamo fatto? Nella nostra religione, se qualcosa non nuoce, lo lasciamo stare. Ma se il denaro va alle statue mentre i nostri bambini lì a fianco muoiono di fame, allora questo le rende nocive, quindi le distruggiamo”.

Eppure, anche di fronte a una spiegazione simile, le ragioni potrebbero essere più profonde. L’antropologo Pierre Centlivres, in un suo articolo scientifico del 2008, elenca altre possibili motivazioni, in aggiunta alla spiegazione che fa leva sull’ira dei talebani per l’offerta economica per le statue in un momento di forte crisi umanitaria. La prima è collegata alle sanzioni che l’Onu impose all’Afghanistan nel dicembre del 2000: la distruzione potrebbe essere stata dunque una reazione dei talebani di fronte ai provvedimenti della comunità internazionale. La seconda è la mancata reazione della comunità internazionale in seguito ai provvedimenti coi quali il mullah Omar bandì la coltivazione dell’oppio in Afghanistan (era l’attività economica più fiorente del paese). La terza ragione è un’altra ripicca nei confronti delle Nazioni Unite per aver lasciato che il seggio di delegato dell’Afghanistan fosse stato lasciato all’ex presidente Burhanuddin Rabbani, piuttosto che a un membro dei talebani, malgrado all’epoca questi ultimi controllassero il 90% del paese. Secondo Centlivres, è dunque più probabile che sia stata una combinazione di tutti questi fattori a far maturare ai talebani l’idea di distruggere i Buddha di Bamiyan, più che le motivazioni religiose, malgrado le versioni ufficiali facessero passare la demolizione dei due monumenti come una questione religiosa interna. “I fattori e le ragioni non esplicitati”, ha scritto Centlivres, “per gli osservatori hanno più peso rispetto ai motivi ufficiali. I fattori contestuali sembrano essere più plausibili rispetto agli argomenti teologici”.

Operaio della Trevi S.p.A. nel cantiere dei Buddha di Bamiyan (2003-2006)
Operaio della Trevi S.p.A. nel cantiere dei Buddha di Bamiyan (2003-2006)


L'ologramma di Jason Hu e Liyan Yu
L’ologramma di Jason Hu e Liyan Yu


Pitture murali sulla parete del Buddha maggiore
Pitture murali sulla parete del Buddha maggiore

Progetti di tutela e ricostruzione

Fin dalla caduta del regime talebano, la comunità internazionale si è adoperata per cercare di preservare quanto è rimasto dei Buddha di Bamiyan, anche in ragione del fatto che la roccia su cui furono realizzati è estremamente vulnerabile e soggetta a rapida erosione. Dal 2001, ovvero da quando le forze occidentali sono tornate in Afghanistan, sono stati messi in atto progetti per preservare l’esistente. Uno di questi porta una firma italiana, quella dell’azienda Trevi S.p.A. di Cesena, che si è occupata del consolidamento delle nicchie dopo uno studio dell’Unesco nel 2003 che ha avuto lo scopo di individuare le parti della parete rocciosa sottoposte ai maggiori rischi di crolli. “Il team internazionale di esperti”, si legge in un documento dell’azienda, “ha lavorato per stabilizzare la struttura rimanente delle statue e della parete rocciosa consentire il successivo intervento in sicurezza degli archeologi e restauratori. È stato un lungo intervento su una roccia già deteriorata dalle cause naturali e gravemente danneggiata dalle esplosioni, attuato con numerose soluzioni che hanno previsto l’installazione di un sistema di monitoraggio delle fessure più aperte, l’installazione di ancoraggi, chiodature ed il fissaggio temporaneo di alcuni blocchi con una rete di funi d’acciaio e con travi metalliche di contrasto. Grazie all’indispensabile sostegno economico internazionale e ad un forte supporto delle autorità afghane, questo progetto è un importante esempio di applicazione di tecnologie avanzate in uno dei luoghi d’arte e di storia più antichi del mondo”.

Sono stati poi avanzati progetti di ricostruzione: il comitato tedesco dell’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites), per esempio, ha suggerito di ricostruire il Buddha minore coi frammenti recuperati e con materiale nuovo laddove non più disponibile ciò che è andato distrutto per mano dei talebani. E nel 2013 è stata messa a punto una prima ricostruzione di una parte della base del Buddha minore, che è stata fermata però dall’Unesco in quanto avvenuta senza l’approvazione dell’ente e probabilmente in violazione della Carta di Venezia, che stabilisce l’uso di materiale originario nella ricostruzione dei monumenti distrutti. Nel 2015, due film maker cinesi, Janson Hu e Liyan Yu, hanno “ricreato” i Buddha con ologrammi 3D. La caduta dei talebani ha dato poi modo agli studiosi di tutto il mondo di studiare meglio il sito: non solo i resti delle sculture, ma anche le pitture murali (in questo caso non distrutte dai talebani), ritenute coeve ai Buddha o di poco successive, e considerate una formidabile sintesi di arte indiana con influssi sasanidi e bizantini. E poiché su queste pitture murali sono state rinvenute anche tracce di olio, è probabile che queste pitture murali includano i più antichi esempi noti al mondo di pittura a olio, di circa sei secoli precedenti rispetto allo sviluppo della pittura a olio in Europa.

Al momento è però ancora in corso la discussione sull’eventuale ricostruzione dei Buddha di Bamiyan, e stante l’evoluzione politica del paese, con il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021, non è chiaro cosa sarà dei monumenti. Nel 2017 si tenne un incontro di esperti sotto l’egida dell’Unesco, e si arrivò alla conclusione che “qualsiasi progetto di recupero e ricostruzione dovrebbe essere basato su di un’approfondita ricerca multidisciplinare e un’analisi scientifica, per garantire la comprensione delle caratteristiche strutturali, materiali e di altro tipo del bene del patrimonio danneggiato”. Sempre nello stesso rapporto, si legge che “il patrimonio di Bamiyan dovrebbe essere considerato un luogo di identità e memoria collettiva, in particolare per le comunità locali; i resti archeologici non possono essere separati dal loro paesaggio naturale e culturale”. Dopo la distruzione operata dai talebani, l’Unesco, nel 2003, ha inserito i Buddha di Bamiyan, assieme alla zona archeologica circostante, nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità, con la seguente motivazione: “Il paesaggio culturale e i resti archeologici della valle di Bamiyan rappresentano gli sviluppi artistici e religiosi che dal I al XIII secolo hanno caratterizzato l’antica Bakhtria, integrando varie influenze culturali nella scuola di arte buddhista del Gandhara. L’area contiene numerosi complessi monastici e santuari buddisti, nonché edifici fortificati del periodo islamico. Il sito è anche testimonianza della tragica distruzione da parte dei talebani delle due statue di Buddha stanti, che hanno scosso il mondo nel marzo 2001”.


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