Tra vento, salmastro e pensieri. La Libecciata di Giovanni Fattori


Tra il 1880 e il 1885, Giovanni Fattori (Livorno, 1825 - Firenze, 1908), dipingeva uno dei suoi più grandi capolavori, la Libecciata, opera che raffigura una giornata ventosa sulla costa di Livorno ad Antignano, in anticipo sulla poetica del paesaggio-stato d'animo.

Curzio Malaparte, nel suo Maledetti toscani, diceva che il libeccio non è un vento di casa. È il vento umido e caldo che arriva da sud-ovest: spira soprattutto d’estate, s’alza all’improvviso, sferza la costa con raffiche violente che tagliano il respiro, sparge la sabbia del deserto su tutto ciò che incontra, agita il mare fino a provocare forti mareggiate. “Piomba come un ariete sulle onde sparse, le cozza, le raduna, le spinge, simili a un gregge di pecore ammattite, contro i lidi bianchi, le scogliere purpuree, i moli neri di carbone”, scrive Malaparte.

Sulla costa della Toscana, dove gli abitanti conoscono bene il libeccio e le conseguenze della sua azione, le visite, spesso poco gradite, che questo vento compie sui litorali vengono chiamate “libecciate”: e una libecciata è quella che Giovanni Fattori, macchiaiolo e toscano della costa, dipinge in una sua tavola degli anni Ottanta, che oggi si conserva alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti a Firenze. Vi s’ammira un brano di costa nei pressi di Livorno, la città natale di Fattori: è il litorale di Antignano, poco più a sud del centro della città, un quartiere oggi inglobato nell’espansione urbanistica del Novecento, ma che all’epoca di Fattori era niente più che un villaggio ricavato tra i bastioni d’una vecchia fortezza medicea, attorno alla chiesetta di Santa Lucia. Fattori ci andava spesso perché il tratto di costa che va da Antignano fino a Castiglioncello, altro luogo caro al pittore, è uno dei più belli della Toscana: gli stretti arenili che accompagnano gli ultimi scorci della città cedono il posto a scogliere ripide che si tuffano in mare, a lastroni d’arenaria dove s’aggrappano fitti cespugli d’erica, a piccole calette nascoste tra le insenature e battute dalle onde, ai promontori sui quali, qua e là, qualche pino solitario o qualche tamerice isolata s’ergono a far da guardiani al litorale.

E la tamerice che Fattori dipinge nella sua Libecciata è ancora lì al suo posto, sola sopra una striminzita distesa di sassi, sabbia e ghiaia adagiata su di uno scoglio, che guarda il mare incresparsi, brano d’una natura che resiste all’assalto della città alle sue spalle. L’artista la coglie mentre è piegata dal libeccio che, puntuale come ogni estate, s’è presentato sul litorale toscano. Tutti gli arbusti spuntati dalla sabbia vengono chinati dal vento, la sabbia si solleva, il mare comincia a incresparsi e a biancheggiare, l’aria si gonfia di salmastro e il cielo comincia a coprirsi dei primi veli lattiginosi della “caligine argentea” che “si solleva dalle rive e dalle scogliere, invade le città, i sobborghi, si spande per le campagne”: il libeccio s’è impadronito della costa e sta scatenando la sua furia. Eccolo quel vento che, continua Malaparte, “cala come un falco sulle vele, e le lacera: lembi di vela volano via nel turbine, come colombe. Il suo sibilo lungo e rabbioso, tagliente come un falcetto, recide l’erba dei pascoli marini, dove ruzzano branchi di cavalli dalla criniera di spuma, che il sibilo improvviso sparpaglia di galoppo sul mare verde striato di lunghi nitriti bianchi”.

Giovanni Fattori, La libecciata (1880-1885 circa; olio su tavola, 28,5 x 68 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)
Giovanni Fattori, La libecciata (1880-1885 circa; olio su tavola, 28,5 x 68 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)


Giovanni Fattori, La libecciata, dettaglio
Giovanni Fattori, La libecciata, dettaglio


Giovanni Fattori, La libecciata, dettaglio
Giovanni Fattori, La libecciata, dettaglio

Fattori dipinse dal vero il sibilo lungo e rabbioso del libeccio. Le analisi della Libecciata, che nel 2019 è stata sottoposta a indagini riflettografiche, hanno restituito l’immagine nascosta d’un segno sintetico e tracciato con gran velocità: l’artista s’è concentrato soprattutto, com’è naturale immaginare, sul profilo della costa e sulla tamerice, lavorando con la matita direttamente sulla tavola, senz’alcuna preparazione. Pare di vederlo, Giovanni Fattori, che con in mano un pezzo di legno rettangolare e una matita s’avvia verso la costa di Antignano in una giornata ventosa, e lì, en plein air, davanti agli scogli, appunta rapidamente sulla tavola questo scorcio di paesaggio, per poi terminare il dipinto nel suo studio. Gli elementi del paesaggio, com’è tipico della pittura macchiaiola, vengon definiti da grandi macchie di colore puro giustapposte, stese con pennellate rapide e corte, coi colori (spiccano qui i toni ocra e terrosi della scogliera coperta di sabbia, e il blu di Prussia adoperato per rievocare il colore vero del mare che sta davanti a Livorno) che vengon stesi anch’essi senza preparazione, direttamente sulla tavola, tanto che talora l’artista, nello spargere i colori, seguiva le venature naturali del legno. “Tutto quello che vedevo, volevo, desideravo riprodurre”, scrisse l’artista a Carlo Raffaelli in una lettera datata 16 agosto 1907. “Mancante di denari e non potendo prendere un animale, cavalletti e studio, pensai che potevo studiare osservando a mio piacere per le strade, e allora empivo e tutt’ora empio di segni i miei piccoli album; per cui la miseria a qualcosa è buona, forza ad osservare e disegnare: tutto questo era al principio dei miei studi”.

Arte en plein air, dunque, come necessità: una necessità che spinse Fattori a definirsi anche un “osservatore minuzioso del mare in tutte le sue fasi, ché amo il mare perché nato in città di mare”. Minuzioso al punto da trasfigurare in una sensazione emotiva la costa livornese, in anticipo sulle teorie del paesaggio-stato d’animo di Jean-Marie Guyau e Paul Soriau. Negli anni Ottanta, la pittura di Fattori inaugura un nuovo gusto per il paesaggio facendosi più struggente e toccante, s’ammanta di toni lirici e di malinconia. La forza con cui il vento s’abbatte sulla natura è quasi l’immagine d’un’inquietudine che l’artista si portava dentro in quegli anni. Un paesaggio come specchio dell’anima, dunque. Ma il suo fascino risiede anche nel contrasto d’emozioni che vi si legge. Non è rassicurante, ma è un paesaggio familiare. Nel 1925, Plinio Nomellini, allievo prediletto e ribelle, ebbe a ricordare l’intensità di questo rapporto che Fattori aveva coi paesaggi dov’era nato e cresciuto, con alcune parole che ben potrebbero adattarsi a descrivere La libecciata: “Nella squallida spiaggia, dove solo le tamerici infoltivano, il suo animo sentivasi placato, il libeccio sbandava le nubi ed il cruccio dei suoi pensieri, l’onda lambente il battito arenoso, sussurrava una nenia di speranza”.

L’intensità emotiva di questo dipinto non è soltanto la ragione della sua modernità, che lo rende un capolavoro di portata europea, ma è anche il motivo per cui oggi lo vediamo appeso a una parete in Palazzo Pitti. Nel 1908, il quadro era nelle disponibilità di Giovanni Malesci, buon pittore, allievo di Fattori e suo erede: Fattori era scomparso il 30 agosto di quell’anno e il Comune di Firenze aveva subito convocato una commissione d’esperti, formata da Ugo Ojetti, Angelo Orvieto e Domenico Trentacoste, con l’intento d’acquistare alcune opere dell’artista per arricchire le collezioni pubbliche. Il 15 settembre 1908, la commissione produsse una relazione in cui si caldeggia l’acquisto di “un paesaggio ad olio, Libecciata, dove anche con semplicissimi ma precisi mezzi, senza figure, egli ha dato a una breve linea di paese la stessa forza d’espressione che a un volto umano”. Un paesaggio, dunque, ch’è vivo come un ritratto. O forse, come un autoritratto.

 


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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