Un teatro dei sentimenti: il Compianto sul Cristo morto nella scultura lombarda del Rinascimento


Alcune delle maggiori novità che riguardarono la scultura lombarda del Rinascimento si concentrarono attorno al tema iconografico del Compianto sul Cristo morto: ecco come gli artisti lombardi meditarono sulla lezione di Donatello dando luogo a veri teatri dei sentimenti.

“Il racconto del Rinascimento italiano non può più essere soltanto o prevalentemente toscanocentrico”, ci spiega Francesca Tasso, conservatrice del Museo delle Arti Decorative e del Museo degli Strumenti Musicali del Castello Sforzesco di Milano, e curatrice della mostra Il corpo e l’anima da Donatello a Michelangelo in programma proprio al Castello Sforzesco dal 21 luglio al 24 ottobre 2021. “Non sarebbe corretto”, continua la studiosa, continuare a raccontare il Rinascimento esclusivamente da un punto di vista toscano: “negli ultimi trent’anni si sono moltiplicati gli studi sulla scultura lombarda, la scultura veneta, la scultura emiliana, pertanto oggi abbiamo una visione e un quadro molto più ampi: Chastel, tanti anni fa, in un libro molto celebre, aveva parlato dei ‘centri del Rinascimento’, e quindi è d’obbligo dare l’idea di questa complessità”. Una complessità che germoglia in Toscana e si sviluppa nel nord Italia col tramite d’un preciso legame: la fondamentale presenza di Donatello ( Donato di Niccolò di Betto Bardi; Firenze, 1386 - 1466) a Padova. Il grande artista toscano tornerà a Firenze nel 1453 dopo dieci anni esatti di permanenza in Veneto che avranno un impatto determinante sul giovane Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 - Mantova, 1506), e attraverso la figura di quest’ultimo l’operato dello scultore toscano s’irradierà in gran parte dell’Italia settentrionale, interpretato secondo variabili diverse ma comunque quasi sempre riconducibili all’asprezza e al vigore del segno mantegnesco ch’è diretto debitore delle istanze più “espressionistiche”, per così dire, dell’arte donatelliana. E proprio in Lombardia questa componente si fonde con certi elementi “eccentrici” (com’ebbe a scrivere il summenzionato André Chastel), probabilmente di derivazione ferrarese, per dar luogo a un terreno su cui sarebbe germinata la potente scultura lombarda del secondo Quattrocento e del primo Cinquecento.

La mostra milanese del Castello Sforzesco, riassumendo diversi studi recenti (dai primi anni Duemila la scultura settentrionale del Rinascimento, specialmente quella lombarda, è diventata un fervidissimo terreno di ricerca), ha evidenziato come “alcuni temi iconografici, per il loro particolare significato, più direttamente riflettono le novità messe in campo” (così i curatori Beatrice Paolozzi Strozzi, Marc Bormand e Francesca Tasso): il riferimento è, soprattutto, alle scene della Passione di Cristo, che presentano “il più alto tasso di novità compositiva e di intensità emotiva”. Una ricerca del pathos che vede proprio in Donatello il primo e principale interprete: si può agevolmente pensare alla Maddalena del 1453-1455, oggi conservata al Museo del Duomo di Firenze e originariamente eseguita forse per il Battistero, ma anche a realizzazioni meno note ma non per questo meno innovative: è il caso, per esempio, di una Crocifissione storicamente attestata (fin dal 1553) nelle collezioni dei Medici ma eseguita forse nell’ultima parte del soggiorno padovano (opera d’invenzione donatelliana, col probabile intervento della bottega in alcune fasi esecutive, è da molti identificata con la historia domini nostri Jesu Christi de passione in aere commissa cum aura citata nel testamento del nobile fiorentino Francesco di Roberto Martelli nel 1529), oltre che del più celebre Cristo morto che Donatello realizzò tra il 1446 e il 1453 come decorazione dell’altare del Santo a Padova, e del meno famoso Compianto sul Cristo morto oggi conservato al Victoria & Albert Museum di Londra, del quale non si conosce la storia prima dell’Ottocento (si ipotizza addirittura che sia stato realizzato per il Battistero di Siena), e che è stato variamente datato dagli studiosi, che l’hanno considerato in alcuni casi un’opera giovanile, talora un rilievo eseguito all’epoca del soggiorno padovano, talaltra una scultura realizzata al ritorno dal Veneto.

Si tratta di un gruppo di sculture piuttosto diverse tra loro, ma che presentano elementi comuni decisivi, ovvero la forte componente patetica e la conseguente carica emotiva della quale tali opere sono pregne (l’apice in tal senso è probabilmente rappresentato dal Compianto londinese: un’immagine molto forte, probabilmente anche in virtù della sua destinazione, poiché secondo altre ipotesi il rilievo venne eseguito per la devozione privata), il segno deciso, la tensione dei corpi, la spazialità soffocante. Immagini che lo stesso Donatello aveva rielaborato guardando alla statuaria antica, e in particolare alle decorazioni dei sarcofagi: azioni, gesti, movimenti delle sculture romane vengono riletti in chiave cristiana. Il linguaggio di Donatello conoscerà in Lombardia una notevole diffusione, grazie, come detto, al tramite di Andrea Mantegna: “i modelli mantegneschi”, ha scritto lo studioso Marco Albertario, “erano già noti in territorio milanese tra la fine dell’ottavo decennio e l’inizio del successivo, come confermano i rilievi intagliati da un gruppo di scultori tra i quali Giacomo del Maino e Giovanni Pietro de Donati per l’altare di Santa Maria del Monte a Velate”.

Donatello, Crocifissione (1450-1455 circa; bronzo, agemina in argento e in rame dorato, 93 x 70 x 35 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)
Donatello, Crocifissione (1450-1455 circa; bronzo, agemina in argento e in rame dorato, 93 x 70 x 35 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)
Donatello, Cristo morto (1453; bronzo, 58 x 56 cm; Padova, Basilica di Sant'Antonio)
Donatello, Cristo morto (1453; bronzo, 58 x 56 cm; Padova, Basilica di Sant’Antonio). Opera non presente alla mostra Il corpo e l’anima da Donatello a Michelangelo
Donatello, Compianto sul Cristo morto (1455-1460 circa; bronzo, 32,1 x 41,7 x 6,3 cm; Londra, Victoria and Albert Museum)
Donatello, Compianto sul Cristo morto (1455-1460 circa; bronzo, 32,1 x 41,7 x 6,3 cm; Londra, Victoria and Albert Museum)

Quello del Compianto sul Cristo morto è in effetti uno dei soggetti dai quali meglio s’apprezza la penetrazione del linguaggio del Donatello padovano in Lombardia. “Un vero teatro dei sentimenti”, lo definiscono Paolozzi Strozzi, Bormand e Tasso, perché pur nelle variazioni dello schema formale, quello narrativo rimane sempre simile, coi personaggi che assumono quasi sempre gli stessi ruoli: il corpo di Gesù che convoglia tutto il pathos della scena, con la Madonna che lo esprime in modo intimo e materno e, di converso, san Giovanni e la Maddalena che s’abbandonano invece a gesti di plateale disperazione, le pie donne che recano conforto a Maria e, solitamente ai lati della composizione, i due autori materiali della deposizione dalla croce, ovvero Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, che assumono atteggiamenti più pacati. Il sopraccitato rilievo per l’altare di Santa Maria del Monte, opera di Giacomo del Maino (Milano, documentato dal 1459 - Pavia, 1502/1505) e Bernardino Butinone (Treviglio, 1450 circa - post 1510), nel suo attenersi all’originalità dell’invenzione mantegnesca della composizione (lo schema riprende in maniera quasi letterale la Deposizione che Mantegna incise negli anni Settanta del Quattrocento: nella composizione la Madonna, per esempio, invece d’esser vicina al figlio è lontana, ultimo personaggio a destra), segue il tipico schema narrativo che s’è appena descritto. La forza del rilievo di Giacomo del Maino e di Butinone, che nella sua abituale collocazione al Castello Sforzesco fa pendant con una Andata al Calvario attribuita al Maestro di Trognano (e in antico faceva parte della decorazione, di committenza sforzesca in quanto ordinata dal duca Gian Galeazzo Sforza, del coro ligneo di Santa Maria del Monte a Velate: gli altri due pannelli superstiti sono conservati in situ), è poi accentuata non solo dall’incombente paesaggio di derivazione tardogotica, assente nell’originale mantegnesco, ma anche dal colore: proprio la componente cromatica rendeva più realistica la scena, e dunque era in grado d’avvicinare il fedele e renderlo più partecipe.

Altra opera fondamentale è il Compianto sul Cristo morto realizzato prima del 1485 dal Maestro di Santa Maria Maggiore, identificato di recente con lo scultore Domenico Merzagora (attivo tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo), per la chiesa di San Francesco a Locarno in Svizzera, e oggi invece custodito nel Santuario della Madonna del Sasso a Orsellina, sempre nel Canton Ticino. Si tratta di un’opera dove, ha scritto Albertario, l’artista “forza per la prima volta i limiti imposti dalla forma del tronco per imporre le figure nello spazio con libertà sperimentata fino a quel momento solo dai plasticatori, mentre i volti si deformano per esprimere una pietà arcaica ed essenziale, estranea al modello classico”. Il nome con cui Merzagora è stato in passato identificato si deve a un altro Compianto coevo, quello del Museo Civico d’Arte Antica di Palazzo Madama a Torino: proviene dalla chiesa dell’Assunta a Santa Maria Maggiore, nella val Vigezzo: come il Compianto di Locarno, quello di Santa Maria Maggiore esprime un sentimento più trattenuto e una gestualità più compassata rispetto a quanto sarà proprio di scene scolpite da artisti più recettivi nei confronti del nuovo linguaggio.

È il caso, ad esempio, dei fratelli Cristoforo Mantegazza (Pavia, 1428 circa - 1479) e Antonio Mantegazza (Pavia?, 1438 circa - Milano, 1495): a uno dei due, forse ad Antonio, si deve una delle più iconiche immagini della scultura lombarda del Rinascimento, il Compianto sul Cristo morto del Victoria and Albert Museum, rilievo in marmo che costituisce forse la parte inferiore di una più grande scultura eseguita in due porzioni, e dove l’espressività della scultura lombarda del tempo tocca uno dei suoi apici. L’inquietante corpo di Cristo, allungato in modo innaturale con gambe e braccia che si estendono quasi a toccare tutte le estremità del rilievo, è il fulcro della scena: attorno a lui si dispongono la madre, che sconvolta cerca d’abbracciarlo (è una delle Madonne più disperate dell’epoca), la Maddalena che piange reggendogli le gambe, san Giovanni che, col volto rigato dalle lacrime, gli tiene il braccio sinistro, e a chiudere la composizione sulla destra Nicodemo o Giuseppe d’Arimatea che spunta dietro san Giovanni (da notare inoltre la barba sulla spalla sinistra di Gesù: è quanto rimane dell’altra figura che rappresenta Nicodemo o Giuseppe d’Arimatea) e sulla sinistra le pie donne che manifestano la loro afflizione, con una di loro che tiene il braccio destro di Gesù. In questo rilievo tutto è concepito per coinvolgere il riguardante: i dettagli scolpiti a tutto tondo, le angolose pieghe delle vesti che paiono quasi di carta e accentuano la tensione del dramma in corso, l’iconografia che richiama modelli nordici e convoglia l’attenzione sull’incontro tra Cristo e la madre, l’espressività che rimanda ancora al Donatello padovano filtrato, in questo caso, dalla lezione di Cosmè Tura e dei ferraresi, proprio per via dell’allungamento delle figure e delle spigolosità. Un linguaggio, questo che attraversa Padova e Ferrara, che fu proprio anche di altri due rilevanti artisti del tempo, ovvero Giovanni Antonio Piatti (Milano, 1447/1448 - 1480), i cui risultati più significativi possono esser colti in alcune sculture come l’Annunciazione del Louvre o il Santo del Castello Sforzesco, e Giovanni Antonio Amadeo (Pavia, 1447 - Milano, 1522), autore dei rilievi della Cappella Colleoni di Bergamo e, assieme allo stesso Piatti, di quelli del pulpito del Duomo di Cremona.

A ulteriore testimonianza della ramificazione di rimandi tra scultura e pittura è, ad esempio, un eccezionale pezzo conservato al Museo Diocesano di Mantova, una “pace”, ovvero un oggetto liturgico che veniva offerto per il bacio dei fedeli durante le celebrazioni, raffigurante un Cristo in Pietà, opera del Moderno, pseudonimo la cui identificazione ancora non è stata chiarita, benché la critica sia orientata a restringere il cerchio ai nomi del veneto Galeazzo Mondella (Verona, 1467 - Roma, ante 1528) e del lombardo Caradosso (Cristoforo Foppa; Mondonico, 1452 - Roma, 1526/1527). La scena, in argento fuso, cesellato e dorato per alcuni dettagli (i capelli, per esempio), è racchiusa all’interno di un’elaborata cornice architettonica: l’atletico corpo di Cristo è qui sostenuto dalla Vergine, da san Giovanni Evangelista e da un angioletto che piange sotto il suo braccio destro. Qui, ha scritto Francesca Tasso, “il Cristo è al centro di un intenso rapporto emotivo con la Madre e con Giovanni, in un intreccio di braccia, di mani, di sguardi, secondo una ricerca di nuove forme e nuove relazioni tra le figure che si sviluppa certamente a partire dalla seconda metà del Quattrocento nella pittura e nella scultura veneta, attraverso una riflessione sulle composizioni di Donatello e dei suoi collaboratori padovani, recepite dalla bottega dei Bellini e poi [...] dai pittori ferraresi e dagli scultori lombardi”. Ma non solo: la splendida figura di Cristo non si può spiegare se non in relazione alle ricerche sul corpo e sulle anatomie condotte in parallelo in quegli anni (l’opera è del 1513) da artisti come Donato Bramante (Fermignano, 1444 - Roma, 1514) e il Bramantino (Bartolomeo Suardi; documentato a Milano tra il 1480 e il 1530). Vengono alla mente, per esempio, due capolavori come il Cristo alla colonna della Pinacoteca di Brera del primo, uno dei manifesti dell’arte rinascimentale, e il Cristo risorto del secondo, custodito invece al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.

Giacomo del Maino e Benrardino Butinone, Deposizione di Cristo nel sepolcro (1476-1482; legno intagliato, dorato e policromato, 181 x 121 x 6 cm; Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d'Arte Applicata)
Giacomo del Maino e Bernardino Butinone, Deposizione di Cristo nel sepolcro (1476-1482; legno intagliato, dorato e policromato, 181 x 121 x 6 cm; Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata)
Andrea Mantegna, Deposizione nel sepolcro (1470-1475 circa; bulino e puntasecca, 229 x 442 mm; Washington, National Gallery)
Andrea Mantegna, Deposizione nel sepolcro (1470-1475 circa; bulino e puntasecca, 229 x 442 mm; Washington, National Gallery). Opera non presente alla mostra
Maestro di Santa Maria Maggiore (Domenico Merzagora), Compianto sul Cristo morto (1480 circa; legno di pioppo intagliato e dipinto; Torino, Museo Civico d'Arte Antica)
Maestro di Santa Maria Maggiore (Domenico Merzagora), Compianto sul Cristo morto (1480 circa; legno di pioppo intagliato e dipinto; Torino, Museo Civico d’Arte Antica). Opera non presente alla mostra
Antonio Mantegazza?, Compianto sul Cristo morto (1475-1490 circa; marmo, 60,2 x 88 x 15 cm; Londra, Victoria & Albert Museum)
Antonio Mantegazza?, Compianto sul Cristo morto (1475-1490 circa; marmo, 60,2 x 88 x 15 cm; Londra, Victoria & Albert Museum)
Antonio Mantegazza?, Compianto sul Cristo morto, dettaglio
Antonio Mantegazza?, Compianto sul Cristo morto, dettaglio
Giovanni Antonio Amadeo, Flagellazione dei martiri persiani (1482 circa; marmo; Cremona, Duomo)
Giovanni Antonio Amadeo, Flagellazione dei martiri persiani (1482 circa; marmo; Cremona, Duomo). Opera non presente alla mostra
Moderno, Pace con la Pietà (1513; argento fuso, cesellato e parzialmente dorato, smalto opaco blu su argento, madreperla, corallo bianco, avorio su supporto in legno, 23,4 x 12,8 x 4 cm; Mantova, Museo Diocesano Francesco Gonzaga)
Moderno, Pace con la Pietà (1513; argento fuso, cesellato e parzialmente dorato, smalto opaco blu su argento, madreperla, corallo bianco, avorio su supporto in legno, 23,4 x 12,8 x 4 cm; Mantova, Museo Diocesano Francesco Gonzaga)
Bramantino, Cristo risorto (1490 circa; tempera e olio su tavola di pioppo, 109 x 73 cm; Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza)
Bramantino, Cristo risorto (1490 circa; tempera e olio su tavola di pioppo, 109 x 73 cm; Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza)

Tornando invece indietro d’una trentina d’anni per tornare a guardare all’evoluzione dei Compianti policromi (il legno e la terracotta, in virtù della loro maggiore duttilità e del fatto che si potevano colorare con facilità, erano i materiali che meglio e in maniera più immediata potevano comunicare coi fedeli), un’ulteriore opera fondamentale è il gruppo fittile di Agostino Fonduli (o de’ Fondulis; documentato tra il 1483 e il 1522), eseguito tra il 1483 e il 1491 per il sacello di San Satiro a Milano, dove tuttora si trova (circostanza rara per gruppi simili). È un gruppo insolito anche perché decisamente abbondante: non ci sono soltanto le otto figure della tradizione, ma ne compaiono altre sei che sono di difficile se non impossibile identificazione, e che sono state inserite per accentuare il carattere drammatico della scena. Fonduli, artista cremasco di formazione veneta (aveva studiato a Padova), s’impegna qui in un precoce saggio di espressionismo donatelliano (com’è testimoniato dalla ruvidezza delle forme e dalla vivacità del sentimento) mediato attraverso la lezione mantegnesca come dimostra la ripresa di precise immagini, ma anche da qualche spunto bramantesco: Fonduli e Bramante, del resto, lavorarono assieme nel cantiere di Santa Maria presso San Satiro (il marchigiano ebbe l’incarico di sistemare l’antico tempietto ridisegnandogli attorno un nuovo, più grande edificio di culto), e il lombardo poté avvalersi della vicinanza del grande architetto e pittore per una prima, embrionale apertura a un classicismo che sarebbe poi divenuto manifesto in diverse sue opere posteriori.

L’interesse per la diffusione di gruppi simili in questo periodo è poi ulteriormente esemplificato dal fatto che la confraternita dei disciplini di Gallarate chiese, nel 1485, a Giacomo del Maino un Compianto con “figuras et imagines bonas, pulcras et naturales” indicando esplicitamente come modello proprio il Compianto eseguito dal Maestro di Santa Maria Maggiore per la chiesa dei francescani di Locarno. È interessante rilevare come tali richieste provenissero con una certa costanza proprio dagli ambienti francescani: “si deve alla predicazione francescana”, ha scritto Sandrina Bandera, “la diffusione di iconografie collegate al tema della Passione connesse a una necessità didascalica. L’origine più profonda risale ai Fastentücher della zona alpina [...], ma si diffusero in Lombardia e in Piemonte attraverso le sacre rappresentazioni e le iconografie dei tramezzi delle chiese francescane”. Il compianto di Gallarate è oggi andato perduto: tuttavia conserviamo, sempre di Giacomo del Maino, ma eseguito in collaborazione con il figlio Giovanni Angelo del Maino (documentato dal 1494 al 1536) e con Andrea Clerici (Pavia, documentato dal 1494 al 1512), il Compianto sul Cristo morto della chiesa di Santa Marta a Bellano: è un’opera che si nutre del confronto con la coeva pittura di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519), che s’era trasferito a Milano all’inizio degli anni Ottanta. Giacomo del Maino, peraltro, aveva collaborato con Leonardo: allo scultore spettò l’incarico di realizzare l’ancona lignea che doveva accogliere la Vergine delle rocce del grande artista toscano. E qui, i Del Maino padre e figlio, “sollecitati a produrre opere sempre più coinvolgenti dal punto di vista emozionale”, come ha scritto Marco Albertario, “abbandonano i modelli classici per approdare a esiti di maggior naturalezza espressiva grazie a un primo accostamento alle riflessioni di Leonardo”. Riflessioni sulla fisiognomica leonardiana che si colgono osservando i volti, resi con un naturalismo descrittivo e con un’attenzione alle contrazioni dei muscoli facciali causate dalle smorfie di dolore, angoscia, stupore e disorientamento che suggeriscono proprio un’osservazione scrupolosa degli studi di Leonardo.

Agostino Fonduli, Compianto sul Cristo morto (1483-1491; terracotta dipinta; Milano, Santa Maria presso San Satiro)
Agostino Fonduli, Compianto sul Cristo morto (1483-1491; terracotta dipinta; Milano, Santa Maria presso San Satiro). Opera non presente alla mostra
Bramante, Uomo d'arme (1487-1490 circa; affresco strappato e trasportato su tela, 90 x 113 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Bramante, Uomo d’arme (1487-1490 circa; affresco strappato e trasportato su tela, 90 x 113 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Giacomo del Maino, Giovanni Angelo del Maino e Andrea Clerici, Compianto sul Cristo morto (1493-1494; legno scolpito, dorato e dipinto; Bellano, Santa Marta)
Giacomo del Maino, Giovanni Angelo del Maino e Andrea Clerici, Compianto sul Cristo morto (1493-1494; legno scolpito, dorato e dipinto; Bellano, Santa Marta)
Giovanni Pietro De Donati, Giovanni Ambrogio De Donati e Francesco Spanzotti (?), Compianto sul Cristo morto (1486-1491; legno intagliato, dorato e dipinto; Varallo, Pinacoteca Civica)
Giovanni Pietro De Donati, Giovanni Ambrogio De Donati e Francesco Spanzotti (?), Compianto sul Cristo morto noto come Pietra dell’unzione (1486-1491; legno intagliato, dorato e dipinto; Varallo, Pinacoteca Civica). Opera non presente alla mostra
Ignoto scultore lombardo, Compianto sul Cristo morto (inizio del XVI secolo; terracotta; Melegnano, Santi Pietro e Biagio)
Ignoto scultore lombardo, Compianto sul Cristo morto (inizio del XVI secolo; terracotta policroma; Melegnano, Santi Pietro e Biagio). Foto di Claudio Cirillo Bertolesi. Opera non presente alla mostra
Ignoto scultore lombardo (cerchia di Andrea Mantegna?), Compianto sul Cristo morto (1480-1490 circa; terracotta policroma; Medole, Parrocchiale dell'Assunzione della Vergine). Foto Garda Tourism
Ignoto scultore lombardo (cerchia di Andrea Mantegna?), Compianto sul Cristo morto (1480-1490 circa; terracotta policroma; Medole, Parrocchiale dell’Assunzione della Vergine). Foto Garda Tourism. Opera non presente alla mostra
Agostino Fonduli, Compianto sul Cristo morto (1510-1511; terracotta già policroma; Palazzo Pignano, Pieve di San Martino). Foto Pieve Palazzo Pignano
Agostino Fonduli, Compianto sul Cristo morto (1510-1511; terracotta già policroma; Palazzo Pignano, Pieve di San Martino). Foto Pieve Palazzo Pignano. Opera non presente alla mostra

La riflessione su Leonardo da Vinci aprirà a una nuova stagione: saranno gli scultori della generazione successiva rispetto a Giacomo del Maino, ai Mantegazza e in generale a tutti gli artisti di cui s’è parlato sopra, a orientare la loro arte verso una resa più studiata delle espressioni, “tradotta”, scrivono Paolozzi Strozzi, Bormand e Tasso, “nei gesti e nella mimica facciale, unita a una grande libertà nella modellazione delle figure”. Un primo risultato di questa decisa svolta è proprio il Compianto di Santa Marta, che inaugura un percorso che porterà poi alle sculture di Gaudenzio Ferrari al Sacro Monte di Varallo, anticipate, queste ultime, da un primo nucleo di cappelle che è contemporaneo ai primi Compianti scolpiti di area lombarda. A questo primo nucleo apparteneva anche la cappella che accoglieva il Compianto noto come Pietra dell’Unzione (in virtù del fatto che, nella disposizione originaria delle cappelle voluta dal fondatore del Sacro Monte, il frate francescano Bernardino Caimi, la cappella del Compianto occupava la posizione della Pietra dell’unzione della basilica di Gerusalemme situata nei pressi del Calvario), opera attribuita a Giovanni Pietro De Donati (Milano, documentato dal 1470 al 1529) e Giovanni Ambrogio De Donati (Milano, documentato dal 1480 al 1515), con la probabile collaborazione di Francesco Spanzotti (documentato dal 1483 al 1537), al quale potrebbero riferirsi alcuni dettagli. Il gruppo, dopo essere stato rimosso nel 1822 dalla sua cappella nel Sacro Monte, è oggi esposto alla Pinacoteca Civica di Varallo, ed è caratterizzato da atteggiamenti e pose tradizionali che verranno poi aggiornati nella fase successiva del cantiere valsesiano, con l’arrivo di Gaudenzio Ferrari che rivoluzionerà non soltanto il rapporto tra opere e fedeli, ma anche quello tra le varie forme d’arte impiegate nelle cappelle.

Ma ancor prima della nascita del fenomeno dei sacri monti, tra gli anni Ottanta del Quattrocento e il secondo decennio del Cinquecento si assiste a una proliferazione di gruppi che raffigurano il compianto sul Cristo morto con l’obiettivo di coinvolgere il fedele in un’attiva partecipazione, spesso opera di autori ai quali ancora non s’è riusciti a dare un nome: dal mantegnesco Compianto della parrocchiale di Medole a quello molto teatrale della chiesa dei Santi Pietro e Biagio di Melegnano, dal gruppo della cripta del Santo Sepolcro di Milano fino anche alle più moderne opere che partono dal Compianto di Fonduli a San Satiro e cercano di aggiornarsi sul linguaggio leonardiano, come il Compianto in terracotta di Palazzo Pignano, opera dello stesso Fonduli, che ha però perso i colori. Viene infine spontaneo domandarsi in quale rapporto i compianti di area lombarda si collochino nei confronti dei compianti emiliani, a partire da quello, celeberrimo, di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna (che rappresenta comunque un apice drammatico che non sarebbe stato poi replicato neppure in Emilia), per giungere a quelli di Guido Mazzoni: si tratta di opere che, scrivono ancora Paolozzi Strozzi, Bormand e Tasso, “non raggiungono mai l’intensità espressiva di cui Niccolò dell’Arca aveva dato prova a Bologna”. Anche senza considerare il fatto che l’opera di Niccolò dell’Arca sancì una rottura radicale con la tradizione, in area emiliana i modelli di riferimento sono soprattutto ferraresi, più che padovani. Tuttavia, il necessario confronto con Leonardo da Vinci, a partire dai primi anni del Cinquecento, porterà gli artisti lombardi a indagare in maniera più raffinata la resa dei sentimenti.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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