Tra i monti del Trentino, un'Ultima Cena enigmatica: Ferdinando Valdambrini a Tiarno di Sotto


L'Ultima Cena della chiesa di San Bartolomeo a Tiarno di Sotto, in Trentino, è a oggi l'unica opera che conosciamo di Ferdinando Valdambrini, enigmatico pittore del Seicento: questo suo unico lavoro noto è però un dipinto di grande qualità.

Tiarno di Sotto è un tranquillo borgo di poche case adagiate tra i prati della val di Ledro, in quella parte del Trentino dove la parlata degli abitanti ha i suoni stretti, chiusi e acuminati dei dialetti delle valli lombarde. Assieme alla sua controparte che sta più in alto, Tiarno di Sopra, è il primo paese che s’incontra salendo dai monti di Brescia, dopo aver oltrepassato le rupi scoscese delle Giudicarie: superata la cascata d’Ampola, il profilo aspro e severo della roccia si dissolve, come in un sogno dal finale lieto, nella visione d’una gran distesa verde, dolce e rasserenante, che continua fino al lago di Ledro, protetta sui due lati dai declivi che scivolano delicati tra boschi di abeti.

Dalla statale si riconosce fin da lontano il campanile della chiesa di Tiarno di Sotto, dedicata a San Bartolomeo. Gli abitanti vanno fieri della loro torre campanaria: pannelli e guide ricordano che, coi suoi settantadue metri d’altezza, è la seconda più alta del Trentino. È ottocentesca, esattamente come la facciata, che non corrisponde a quella dell’edificio originario: all’epoca fu cambiato l’orientamento della chiesa, che fu quindi interessata da imponenti lavori di ristrutturazione. L’aspetto precedente, dunque, è andato per gran parte perduto. Sono rimaste però le opere d’arte, il vero motivo per cui si visita questa chiesa tra le montagne. Sull’altare maggiore spicca un polittico veneziano del 1587, ancora in cerca del nome del suo autore. Poco dopo l’ingresso s’ammira un’interessante Madonna con i santi Vigilio ed Ermagora attribuita a Martino Teofilo Polacco, un tempo nel Duomo di Trento (la predella è al Museo Diocesano Tridentino). Ancora, una Discesa dello Spirito santo forse di Ignazio Unterberger. Il soffitto è affrescato da Agostino Aldi, mantovano ma attivo soprattutto in Trentino a inizio Novecento. E poi, il dipinto più enigmatico e interessante, benché penalizzato da una collocazione troppo elevata per consentire d’ammirarlo in maniera adeguata: è un’Ultima cena eseguita da Ferdinando Valdambrini. Un artista di cui sappiamo poco più di niente, benché la sua tela sia un lavoro di gran qualità.

Ferdinando Valdambrini, Ultima cena (1666; olio su tela, 152 x 254 cm; Tiarno di Sotto, San Bartolomeo)
Ferdinando Valdambrini, Ultima cena (1666; olio su tela, 152 x 254 cm; Tiarno di Sotto, San Bartolomeo)

È, intanto, l’unica sua opera che ci sia nota. Il nome del suo autore lascerebbe supporre un’origine lombarda: la val d’Ambria si trova tra le Orobie valtellinesi, e l’abate Pietro Zani, studioso e storiografo fidentino che operò tra Sette e Ottocento, nella sua Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti menziona il pittore anche come “Ferdinando di Valdambria” e “Ferdinando Valdambrino”, sottolineando tuttavia che “si diceva romano, per aver in Roma fatto i suoi studj”. Ci sono però anche notizie più antiche: Carlo Torre, nel suo Ritratto di Milano (la prima guida mai pubblicata sulla città), del 1674, cita “un romano detto Ferdinando Valdambrino”, che “operò nella cappella di S. Guglielmo Duca d’Aquitania la Tavola in cui vedesi la Vergine col Bambin Figlio, ed il Duca Santo”. Altri commentatori antichi si riferiscono a un’attività milanese del pittore, ma già nel 1719 Pellegrino Antonio Orlandi ammetteva di non saper niente di più rispetto alle informazioni raccolte da Torre. Ancora, Francesco Bartoli, nelle sue Notizie delle pitture, sculture ed architetture d’Italia parla d’una pala raffigurante il Transito della Vergine, firmata e datata 1653, e custodita nella chiesa del monastero di San Felice a Pavia. Sappiamo poi che c’è un “Ferdinando Romano” registrato tra il 1685 e il 1690 tra i membri del Collegio dei Pittori di Venezia (e poiché è del 1690 un documento che lo dice “d’anni 67”, è possibile da tale dato ricavare l’anno della sua nascita). È poi interessante rammentare anche l’esistenza d’un Ferdinando Valdambrini romano che, tra il 1646 e il 1647, pubblicò un Libro d’intavolatura di chitarra a cinque ordini in due volumi, una raccolta di musiche che ebbe un certo successo. “C’è una labile possibilità”, ha scritto il musicologo James Tyler, “che si tratti del Ferdinando Valdambrini pittore romano”. Non è dato però sapere su quale base formuli tale affermazione, benché la coincidenza di nome, epoca e città sia effettivamente molto curiosa. È, insomma, un personaggio ancora tutto da studiare, e non è improbabile che cercando a Venezia o a Roma emerga qualcosa di nuovo.

Ad ogni modo, al momento possiamo farci un’idea dell’identità artistica di Valdambrini solo dall’Ultima Cena di Tiarno di Sotto, firmata e datata: sul bordo inferiore vi si legge “1666 / Ferdinando Valdambrini / Romano fecit”, e poi vicino “Ferdinan[dus] / Valdambri/ nus Romanus”. Non è una tela che si distingua per soluzioni formali particolarmente raffinate: è, sic et simpliciter, il racconto d’una cena, simile a tanti dipinti dello stesso soggetto che si producevano nella Venezia d’inizio Seicento, l’ambito culturale al quale è possibile riferire il quadro di Tiarno di Sotto. La tavola, coperta con una tovaglia bianca che, secondo l’uso del tempo, veniva stesa sopra un tappeto di foggia orientale, è apparecchiata con un agnello, pagnotte, coppe di vino, posateria varia. Il modulo è quello tipico delle ultime cene veneziane dell’epoca: la tavola al centro, in veduta frontale, con tutti i personaggi dietro, attorno a Cristo, eccetto due che stanno sull’altro lato, ai capi opposti. Il Giuda di Valdambrini, che nasconde con la mano la sacchetta dei trenta denari dietro la schiena, è una citazione quasi letterale del Giuda dipinto dal Tintoretto nell’Ultima cena di San Marcuola, nel 1547: un motivo ch’ebbe una certa fortuna, ripreso anche da altri artisti (ad esempio da Cesare da Conegliano nell’Ultima cena dei Santi Apostoli in Venezia).

Un dipinto, dunque, dal sapore vintage, si potrebbe dire adoperando un anacronismo: formule, fonti e cromatismi rimandano alle atmosfere della pittura veneziana del Cinquecento. “Lo schema compositivo”, ha scritto lo storico dell’arte Elvio Mich rilevando affinità tra Valdambrini e Girolamo Forabosco, “rinvia […] a modelli ricorrenti nella pittura veneziana del Cinque-Seicento; ma accanto a un generico richiamo alle Cene tintorettesche, è soprattutto l’assunto cromatico che colloca il Valdambrini nel clima pittorico lagunare, all’interno della corrente neocinquecentesca”. Il colore di Ferdinando Valdambrini, steso con pennellate pastose a definire le forme senza il ricorso al disegno, e declinato secondo una “media scala cromatica d’intonazione madreperla e con poche note brillanti di rosso, di verde e d’azzurro”, tocca una qualità “di assoluta rilevanza”, sottolinea Mich. Il tutto è però reso moderno dal realismo vivo dei brani di natura morta, e da quello crudo, quasi grottesco dei personaggi, popolani dalle mani tozze di chi è abituato ai lavori pesanti, i cui volti tondi e larghi son solcati da rughe profonde e invecchiati dalla fatica. Anche Gesù, presago di quel che gli accadrà, fissa i suoi occhi in quelli del riguardante con un’espressione stanca che gli attraversa il viso ossuto e provato. Moderno è poi il ricordo romano della lama di luce che entra dalla finestra nell’angolo di sinistra, illumina le due colombe appollaiate sul reggitenda, investe il turbante dell’inserviente che sta subito sotto di loro, e finisce per perdersi nella luce diffusa del locale, un’aula ampia, pavimentata in cotto, con nicchie alle pareti e finestrelle. Da quella di destra, ulteriore brano di quotidianità, s’affaccia pure una donna che scuote un panno.

La figura del gentiluomo in abisso, che tiene nella mano sinistra uno stemma con un’ancora, potrebbe fornirci il racconto di come nacque l’opera di Valdambrini: non conosciamo la sua identità, ma non è difficile immaginare si tratti di uno dei tanti abitanti della val di Ledro che nel Seicento s’erano trasferiti a Venezia per lavorare nell’ambito dei commerci marittimi e che, desiderosi di tener vivi i legami con la loro terra, commissionavano dipinti ai pittori attivi in laguna, coi quali avrebbero poi decorato le chiese della valle. Si spiega così la presenza, relativamente cospicua, d’interessanti dipinti secenteschi nelle chiese ledrensi: il più noto è la splendida pala di Bernardo Strozzi nella chiesa di Tiarno di Sopra, tornata nel 2019 all’attenzione delle cronache artistiche per il suo scintillante restauro, che s’è svolto sotto gli occhi dei visitatori del Mart di Rovereto. Sono testimoni d’un patrimonio diffuso, che si manifesta con vette inattese anche laddove pochi se l’aspetterebbero.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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