“Sao ko kelle terre... ”. Alle origini dell'italiano: il Placito di Capua


La Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino conserva il pirmo documento ufficiale in volgare italiano a noi noto: è il Placito di Capua, un documento che risolve una disputa sulla proprietà di due terre pertinenti all’abbazia di Montecassino.

“Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”: molti conoscono o hanno letto almeno una volta questa frase in volgare, una semplice formula per dirimere una questione di proprietà. L’importanza di queste parole deriva dal fatto che sono contenute nel primo documento ufficiale in volgare italiano a noi noto, il Placito di Capua del marzo 960. Meno nota è invece la storia di questo documento fondamentale per conoscere le origini della nostra lingua, oggi conservato presso la Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino.

L’inizio della storia può esser fatto risalire a qualche anno prima, al 949, anno in cui Aligerno diventava abate di Montecassino e Capua, località quest’ultima dove la comunità monastica benedettina si trovava in esilio dopo che l’abbazia di Montecassino venne distrutta durante un’incursione saracena nell’anno 883. Aligerno riuscì a ricondurre la propria comunità a Montecassino, ma nel frattempo il territorio di pertinenza del monastero di San Benedetto era stato occupato in maniera illecita da un certo Rodelgrimo di Lupo, nativo di Aquino, contro il quale, nel 960, Aligerno cercò di far valere i propri diritti. Rodelgrimo, dal suo canto, contestava la proprietà cassinese delle due terre che Aligerno rivendicava: si trattava di una superficie molto ampia (20.000 ettari), che rappresentava una porzione importante della Terra Sancti Benedicti, la cui estensione totale raggiungeva gli 80.000 ettari circa. L’aquinate, per far valere i propri asseriti diritti (per sostenere i quali tuttavia mancava di qualsiasi prova), affermava che i due terreni erano stati ereditati dal padre e da altri suoi parenti.

La controversia si concluse con la vittoria di Aligerno: lo iudex cibitatis Capuane (“Giudice della città di Capua”), Arechisi, deliberò in favore dell’abbazia, dopo aver sentito le testimonianze di Teodemondo (diacono e monaco), Mari (chierico e monaco) e Gariperto (chierico e notaio), che Aligerno aveva prodotto come testimoni. La celebre frase in volgare, riportata all’interno del testo in latino del Placito, viene ugualmente ripetuta dai tre testimoni, che depongono dunque a favore della legittima proprietà cassinese, affermando di sapere che “kelle terre” (“quelle terre”) erano state possedute per trent’anni dall’abbazia di San Benedetto, da cui la formula: “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” (“Io so che quelle terre, entro quei confini qui descritti, trent’anni le ha possedute il complesso patrimoniale di San Benedetto”).

Il Placito di Capua
Il Placito di Capua
Evidenziata in rosso la frase Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti
Evidenziata in rosso la frase “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”
La frase Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti
La frase “Sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”

Il Placito capuano del 960 rappresenta, come detto, il primo documento ufficiale del volgare italiano, e sarebbe stato a breve seguito da altri documenti giuridici riguardanti controversie su beni che l’abbazia di Montecassino possedeva a Sessa Aurunca e a Teano, indicati nel complesso come “placiti cassinesi”: uno in particolare è relativo a Sessa ed è del marzo 963 (“Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette”), mentre gli altri sono relativi a Teano e sono datati luglio 963 (“Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte sancte Marie”) e ottobre 963 (“Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie”). Tuttavia il primato nell’ambito del volgare neo-latino spetta ai Giuramenti di Strasburgo, datati 14 febbraio 842, sebbene il diverso contesto degli uni rispetto al Placito di Capua permetta di cogliere ancor più il valore linguistico del documento conservato presso la Biblioteca Statale di Montecassino. I Giuramenti di Strasburgo, che riguardano un patto di reciproca assistenza scambiato tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico (rispettivamente re dei franchi occidentali e re dei franchi orientali) contro il fratello Lotario, furono pronunciati in lingua romanza (cioè in francese antico) da Ludovico, affinché il suo giuramento fosse compreso dai soldati di Carlo che parlavano la lingua dei franchi occidentali, e quest’ultimo a sua volta per le stesse ragioni giurò in lingua teudisca (alto tedesco antico). La formula è stata tramandata dalla Storia dei figli di Ludovico il Pio, narrata da Nitardo nell’844, e nota grazie a un manoscritto del X secolo, il Lat. 9768, conservato oggi alla Bibliothèque nationale de France di Parigi, e proveniente dall’abbazia di San Medardo di Soissons. “Mentre il volgare dei Giuramenti di Strasburgo si definisce nei confronti di un latino grammaticalmente irreprensibile e stilisticamente classicheggiante, quello della Storia di Nitardo”, spiega don Mariano Dell’Omo, direttore della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino, “il volgare delle formule testimoniali del Placito capuano si definisce nei confronti di un latino – quello in cui è redatto il Placito – sregolato e volgareggiante, anzi già caratterizzato da dialettismi locali. Quindi il volgare del nostro giudicato ha una caratterizzazione locale e nell’ambito di un uso del latino vivo e perciò soggetto a trasformazioni di cui occorre tener conto, a differenza del documento francese che emerge dal contesto di un latino ormai cristallizzato”.

Nel documento di Montecassino si riscontrano caratteristiche tipiche di aree geo-linguistiche diverse: se è tipica delle zone dalla Toscana in giù la saldezza delle vocali finali (“sao”, “contene”, “trenta”, “anni”), è invece tipicamente campano il “contene” al posto del “contiene” toscano, oppure la perdita dell’elemento labiale: “ko” da quod, “kelle” da eccu + illae (quelle), “ki” da eccu + hic (“qui”). Il fatto che nella formula volgare del Placito di Capua ci siano più caratteri linguistici non permette di parlare di un volgare come lingua parlata dal popolo nella sua genuina spontaneità, ma piuttosto, spiega il direttore della Biblioteca, “come lingua comprensibile da parte del popolo, sebbene frutto di un’elaborazione con materiali popolari filtrati, disciplinati e integrati in sede colta. Basti pensare allo spiccato tecnicismo di una parola come ‘parte’ (Sancti Benedicti): nella latinità tarda e medievale il termine pars seguito da un genitivo designava un soggetto in quanto titolare di beni e diritti, un’entità patrimoniale facente corpo con il soggetto stesso, talché ne divenne tipico l’uso in riferimento a chiese, vescovati, monasteri. Altra manifestazione di tecnicismo giuridico è data dall’uso del verbo sao, scelto al posto della formula ancor oggi più schiettamente popolare di ‘saccio’ oppure ‘sazzo’, in perfetta continuità con il latino sapio. La preferenza invece accordata a ‘sao’ mostra che, nel X secolo, a questa parola dal sapore arcaico si attribuiva un senso di particolare prestigio, utilizzandola a scopo tecnico-giuridico. In quel sao (‘ko kelle terre... ’) non si afferma tanto un sapere qualsiasi, quanto piuttosto la precisa consapevolezza del testimone, e come tale la formula linguistica doveva da tempo essere entrata nell’uso giudiziario”.

In conclusione, perché queste prime manifestazioni scritte e sicure dell’affermazione di una coscienza linguistica che sarebbe poi divenuta coscienza nazionale sorgono proprio in Campania? Come ha scritto lo studioso Aniello Gentile, in questa regione “non trova applicazione quella riforma carolina che, riportando il latino alle forme classiche ad uso esclusivo dei dotti, interrompe l’evoluzione naturale del latino tardo medievale. In altri termini, la riforma restituisce alle sue norme grammaticali il latino e determina un confine più netto tra questa lingua e l’espressione orale, ma rallenta nel contempo la naturale evoluzione linguistica di quest’ultima. Essa non fa sentire i suoi effetti nell’Italia meridionale, perché investendo specialmente il mondo della cultura anglosassone e irlandese, non si diffonde da noi a sud di Roma. Perciò i documenti medievali meridionali pullulano sempre più di volgarismi e il latino è sempre meno lontano dal volgare parlato”. E questo è anche il motivo per cui un testo che precede cronologicamente il Placito di Capua, ovvero il cosiddetto Indovinello veronese dell’VIII secolo, non ha, afferma don Mariano Dell’Omo, ‘lo stesso lo stesso valore e significato linguistico pregnante ed esplicitamente ufficiale di ‘volgare’, che riveste invece il Placito capuano del 960. Il testo dell’indovinello, scritto a mano nella carta 3r del codice LXXXIX della Biblioteca Capitolare di Verona (“se pareba boues alba pratalia araba & albo uersorio teneba & negro semen / seminaba”, ovvero “teneva davanti i buoi, i bianchi prati arava, un bianco aratro teneva, e un nero seme seminava”: è un’analogia tra l’attività dell’aratore e quella di chi scrive), può infatti essere considerato, come hanno notato alcuni linguisti (Angelo Monteverdi, Carlo Tagliavini, Giacomo Devoto, Bruno Migliorini), non un volgare bensì una sorta di latino semivolgare, nato in un ambiente dotto o in ogni caso studentesco, di chierici che in tal modo comunicavano tra condiscepoli non troppo sicuri della grammatica e del lessico latino.

La Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino

La biblioteca si è costituita come ente pubblico nel 1866, ma le sue collezioni affondano le origini nella prima metà del VI secolo, all’epoca in cui san Benedetto da Norcia radunò a Montecassino la prima comunità di monaci: la maggior parte dei manoscritti della biblioteca furono infatti prodotti nello scriptorium dell’abbazia e rappresentano un raro esempio di sviluppo organico di una raccolta libraria in Italia (poi successivamente ampliata, tra Sei e Settecento, con gli stampati che oggi costituiscono il fondo degli stampati antichi). Si è poi aggiunto un vasto fondo moderno che continua ad arricchirsi.

Il fondo librario antico della Biblioteca del Monumento Nazionale di Montecassino è costituito in prevalenza di opere teologiche, di scienze religiose, di storia ecclesiastica e monastica. La dotazione complessiva per la parte a stampa relativa al fondo antico conta su oltre 25.000 volumi ed opuscoli sciolti, oltre 200 incunaboli, 2.063 cinquecentine, 1.100 manoscritti. Il codice più antico, cod. 150, Ambrosiaster (un commento alle lettere di san Paolo), in scrittura semionciale, è databile al VI secolo (569/570) e proviene dal astrum Lucullanum (Napoli). Da citare poi il cod. 753 dell’VIII secolo, che contiene le Sententiae di Isidoro di Siviglia ed è il più antico che si conosca in scrittura beneventana, o il codice 175, databile con sicurezza agli anni di governo dell’abate Giovanni (914-934), che oltre al testo della Regola di san Benedetto e al Commento ad essa dello Pseudo-Paolo Diacono, contiene altre importanti memorie storiche, spirituali e consuetudinarie della comunità monastica cassinese, e ci trasmette la più antica immagine certa di san Benedetto. Il secolo aureo dello scriptorium e della biblioteca cassinese è tuttavia l’XI, dominato dalla figura dell’abate Desiderio (1058-1087), autore della rinascita spirituale di Montecassino e promotore delle arti e della cultura, oltre che cardinale a tal punto autorevole da succedere a papa Gregorio VII con il nome di Vittore III. A questi anni risalgono manoscritti spesso unici per contenuto e valore del testo e delle immagini, come il cod. 181, unico manoscritto in beneventana che trasmette il testo della Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile, o il cod. 275, unico manoscritto completo della famiglia A dell’Historia Francorum di Gregorio di Tours copiato a Montecassino sotto Desiderio attorno al 1086.

Tra le altre rarità figurano il Ritmo cassinese, la più antica trascrizione in versi dell’Italia peninsulare, componimento allegorico sulla superiorità della vita spirituale rispetto a quella terrena, scritto in una beneventana del secolo XIII su un foglio (p. 206) del cod. 552 che risale invece al sec. XI; l’ultimo scritto a noi noto di san Tommaso d’Aquino dottore della Chiesa, una lettera da lui indirizzata all’abate cassinese Bernardo Aiglerio che gli aveva domandato charimenti teologici su un passo dei Moralia di Gregorio Magno. Per quanto riguarda il patrimonio archivistico e documentario, a Montecassino si conservano circa 14.000 pergamene, la più antica delle quali in originale risale all’anno 809, mentre la più famosa di esse resta il Placito di Capua del marzo 960. Inoltre si può ricordare che l’archivio musicale conta 8.857 pezzi manoscritti, di cui 177 autografi, tra cui il celeberrimo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi.

La Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino
La Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Montecassino

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