Il più antico ricettario in volgare: un codice del Trecento alla Riccardiana di Firenze


Il manoscritto 1071 della Biblioteca Riccardiana di Firenze contiene il più antico ricettario in volgare fiorentino: si tratta di un’opera degli anni Venti del Trecento, con ricette per ricchi. E alcune pietanze molto simili a quelle che mangiamo ancora oggi.

Cinquantasette ricette scritte a mano in un codice degli anni Venti del XIV secolo: è il Modo di cucinare et fare buone vivande e stando alle nostre conoscenze è il più antico ricettario di cucina in volgare fiorentino. Il ricettario si trova in un codice composito conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze, il numero 1071, costituito da tre sezioni (la prima è una Commedia delle ninfe fiorentine di Boccaccio copiata nel Quattrocento, la seconda contiene un insieme di regole di computo, e infine la terza, dal foglio 40 al foglio 67, è dedicata alle ricette). Il libro è di grande importanza perché, dopo il De Re Coquinaria di Apicio, che peraltro non fu più copiato a partire dal IX secolo, non si registrano più, almeno sulla base delle nostre conoscenze, altri ricettari: il genere del libro di cucina comparirà di nuovo tra XIII e XIV secolo. Nell’Alto Medioevo la cucina infatti veniva trasmessa soprattutto per tradizione orale, e la professione del cuoco propriamente detta (una persona che di mestiere cucina per altri) venne riconosciuta soltanto verso la fine del Trecento: fu probabilmente la codificazione del mestiere del cuoco uno dei motivi principali che portarono alla diffusione dei ricettari, che divenivano così utili strumenti professionali.

Ad ogni modo, non sappiamo chi sia l’autore di questo ricettario, ma gli studiosi lo considerano il capostipite di un insieme di ricettari trecenteschi detti “dei XII ghiotti”, per il fatto che le ricette erano pensate per cene alle quali avrebbero partecipato dodici commensali. Commensali che, peraltro, gli eruditi ottocenteschi che hanno studiato il codice hanno pensato di accostare alla “brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda e l’Abbagliato suo senno proferse” di cui parla Dante Alighieri nel canto XXIX dell’Inferno, ovvero la leggendaria “brigata spendereccia”, un gruppo di dodici giovani amici senesi noti per essere stati gran scialacquatori e aver dilapidato patrimoni ingenti in gozzoviglie, la cui storia ha tuttavia i contorni del mito. Quel che appare piuttosto sicuro è che l’ambiente a cui era destinato questo ricettario era quello dell’alta borghesia urbana, e in particolare ai nuovi ricchi del tempo che amavano spendere tanto per mangiare i cibi più ricercati ed elaborati.

Anonimo, Ricetta della torta parmigiana (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 40r)
Anonimo, Ricetta della torta parmigiana (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 40r)
Anonimo, Ricetta della torta parmigiana (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 40v)
Anonimo, Ricetta della torta parmigiana (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 40v)
Anonimo, Ricetta della lumonia (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 48r)
Anonimo, Ricetta della lumonia (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 48r)
Anonimo, Ricetta della lumonia (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 48v)
Anonimo, Ricetta della lumonia (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 48v)

Le preparazioni proposte dal ricettario sono “ricche”, spiega lo studioso Simone Pregnolato (curatore della prima edizione critica del ricettario del manoscritto 1071 della Riccardiana), "opulente persino, ed esibiscono dosi abbondanti e ingredienti costosi, d’appannaggio tipicamente borghese (come il lardo, i vari tagli di maiale quali l’arista e la carne di castrone ’agnello castrato’, o come le spezie, adoperate in maniera quasi esasperata): il che fa sorgere il sospetto ch proprio a questo ceto di neo-ricchi il ricettario potesse rivolgersi ed essere destinato". Il libro è scritto interamente in volgare fiorentino, ma l’aspetto più interessante sotto il profilo linguistico, secondo Pregnolato, sta nell’organizzazione del periodo e nel lessico utilizzato dall’autore. Le frasi sono infatti tutte alla seconda persona singolare, i periodi sono semplici e paratattici, le frasi sono costruite sempre allo stesso modo (si comincia con un “Se vuoi fare” seguito dal nome della ricetta, e dall’elenco delle istruzioni): ne consegue che questo ricettario era stato pensato per un uso pratico. Anche la grafia ci indica che non si tratta di un manoscritto particolarmente elegante: il copista, ha spiegato la studiosa Irene Ceccherini, “impiega una scrittura di tradizione corsiva di base notarile. Pur mostrando una buona competenza grafica, a giudicare dall’allineamento, dal rispetto di modulo e proporzioni e dalla regolarità con cui son tracciati i segni grafici, la scrittura non è formalizzata sul piano dello stile e si caratterizza per una corsività ’spontanea’: in altre parole, nel trasferire la propria scrittura nel libro a contenuto letterario, il copista non ha modificato né la struttura delle lettere né le proprietà espressive della sua abituale base grafica documentaria”. Una scrittura da notaio, in sostanza, quindi una scrittura dallo spiccato carattere pratico.

Sul piano del lessico, ci sono due aspetti che probabilmente sorprenderanno chi si avvicina per la prima volta ai ricettari medievali. Il primo aspetto è l’alto numero di termini che ancora oggi, a settecento anni di distanza dalla stesura del manoscritto, si usano per indicare gli stessi preparati (per esempio, il “fegatello”, le “frittelle”, la “mandorlata”, il “migliaccio”, la “porrata”, i “ravioli”, i “tortelletti”, i “tortelli”, i “vermicelli”). Altri nomi invece indicavano piatti diversi: se oggi per “crostata” intendiamo un dolce farcito solitamente con marmellata, confettura o crema di nocciole, all’epoca era una torta salata, così come la “tartara” non era la preparazione di carne cruda tagliata finemente, ma una torta a base di formaggio, uova e zucchero. Il secondo aspetto è invece la gran quantità di termini presi a prestito dalla lingua francese, come “burro”, “brodetto”, “pevere” (pepe), “blasmangiare” (biancomangiare, un dolce a base di riso, pesce, latte, mandorle e spezie varie). La lingua della cucina nel Trecento era dunque già caratterizzata da una grande varietà di termini, da nomi regionali (per esempio i “calcinelli”, ovvero le arselle), da un alto numero di forestierismi.

Quali sono alcune delle specialità che il libro suggerisce ai suoi lettori? Il volume, per come ci è arrivato (manca infatti la prima parte), si apre con la ricetta della “torta parmigiana” (con dosi per addirittura venticinque persone): si prendono pancetta, formaggio, uova, polli o capponcelli, dopodiché con i formaggi si farciranno alcuni ravioli mentre i polli andranno puliti e cotti nel lardo e conditi con datteri alla cannella e con spezie, e una volta cotti i ravioli andranno inseriti assieme al pollo dentro una sfoglia messa sopra un testo, per poi procedere con la cottura. Un’altra ricetta simile è quella della “torta frescha” per dodici persone: si prendono sei pollastri e mezza libra d’uva, si mettono a soffriggere i polli nel lardo e li si condisce con spezie, dopodiché una volta cotti verranno inseriti nella sfoglia assieme all’uva e verrà cotto il tutto. Il “blasmangiare di pesce” si fa invece con mandorle, zucchero, chiodi di garofano, pinoli, riso, luccio e tinca. Si fanno stemperare le mandorle nel latte e si lessa il riso, dopodiché si lessa il pesce, lo si fa freddare e lo si fa “sfilare il più sottile che tu puoi, a guisa di polpa di pollo”, quindi si unisce il tutto facendolo cuocere nel latte fino a ottenere una vivanda che “vuole esere bianca quanto puoi il più, e dolce”. E a proposito di pesce, diverse sono le ricette per cucinare la lampreda: in crosta, arrosto, “a cialdello amorsellata” (cioè in una zuppa dove la lampreda è tagliata a pezzi piccoli: una specie di gulash di pesce).

Anonimo, Ricetta dei capponi ripieni (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 51r)
Anonimo, Ricetta dei capponi ripieni (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 51r)
Anonimo, Ricetta dei capponi ripieni (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 51r)
Anonimo, Ricetta dei capponi ripieni (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 51v)
Anonimo, Ricetta della torta d'erbe (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 53r)
Anonimo, Ricetta della torta d’erbe (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 53r)
Anonimo, Ricetta della torta d'erbe (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 53v)
Anonimo, Ricetta della torta d’erbe (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 53v)

Una caratteristica che ricorre spesso in queste ricette sono i sapori agrodolci, come quelli della lumonia, una ricetta a base di pollo, lessato con zucchero, datteri e arance e poi successivamente fatto soffriggere nel lardo, e alla fine spolverato con spezie e zucchero, e ulteriormente ripassato dentro latte e mandorle (l’autore stesso scrive che “questa vivanda vuol essere gialla e agra d’aranci [e] spessa [e] poderosa di spetie e dolce di çucchero”). Ci sono poi ricette simili a specialità che mangiamo ancora oggi, come la “torta d’erbe”, simile all’erbazzone reggiano: per dodici persone, si prendono “sei casci grandi” (sei formaggi), bietole, prezzemolo, spinaci, menta, “atrebici” (bietolone rosso), si fa un battuto con le erbe e lo si mescola con otto uova per poi unirlo successivamente al formaggio tritato, e il composto verrà inserito in una “crosta”, cioè in una sfoglia, che verrà poi cotta. Non mancano i “tortelletti d’ella” (cioè ripieni di enula campana) cotti nel brodo di cappone (c’è anche una versione dolce dei tortellini in brodo, peraltro), o ancora i capponi ripieni. Molto più lontani dalle nostre abitudini sono invece la “tria di vermicelli” (minestra di vermicelli), dolce a base di mandorle, latte, zucchero e, appunto, vermicelli, oppure la crostata di anguille o di cavedani, o il “pesce a cesame”, condito cioè con una salsa a base di cipolla, mollica di pane, vino e zafferano.

Si può dunque facilmente riscontrare la sontuosità di queste ricette anche solamente scorrendo gli ingredienti: le spezie, particolarmente costose, erano perlopiù inaccessibili ai ceti più bassi della popolazione, e anche il lardo era il condimento che nelle ricette ricche veniva utilizzato al posto dell’olio, che invece era considerato molto meno pregiato. Non era dunque una cucina per poveri, quella del Modo di cucinare et fare buone vivande.

Infine, un ulteriore aspetto interessante del ricettario della Biblioteca Riccardiana è il suo ruolo nel dibattito circa lo status di linguaggio settoriale per il gergo della cucina, un problema che lo riguarda ancor oggi. In breve, è possibile collocare il linguaggio culinario tra quelli tecnico-scientifici? La studiosa Giovanna Frosini ha elencato alcuni elementi contro questa ipotesi, come la mancanza di univocità della corrispondenza tra gli oggetti e i loro nomi, la mancanza di una terminologia unitaria e coerente, l’impiego di un linguaggio non sempre controllato e viceversa l’uso di termini spesso impropri e forzati (basti pensare ai programmi di cucina in televisione). In altre parole, “la lingua della cucina ha sì un fondo terminologico specialistico, ma interagisce - e potentemente - con la lingua comune”. Fra i punti a favore vanno invece inseriti gli usi esclusivamente culinari di alcuni termini nati in altri contesti (alcuni esempi: arista, mostarda, vermicelli), e alcuni elementi ricorrenti come i suffissi in “-ata” (crostata, mandorlata, porrata), espressioni del tipo “pietanza alla x”, i neologismi. All’interno di questa discussione, il Modo di cucinare et fare buone vivande è utile per evidenziare come fin dal Medioevo ci siano nella lingua della cucina elementi per confortare l’idea di un suo status tecnico: per esempio, elenca Pregnolato, “la straordinaria varietà delle denominazioni, la grande abbondanza di geosinonimi, la diffusione all’estero, l’arricchimento progressivo del vocabolario grazie ai dialettalismi, il largo numero di forestierismi, la presenza di casi di notevole continuità fra il passato e il presente”.

Anonimo, Ricetta del blasmangiare di pesce (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 55v)
Anonimo, Ricetta del blasmangiare di pesce (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 55v)
Anonimo, Ricetta del blasmangiare di pesce (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 56r)
Anonimo, Ricetta del blasmangiare di pesce (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 56r)
Anonimo, Ricetta del pesce d'Arno arrosto e dei calcinelli a brodetto (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 65r)
Anonimo, Ricetta del pesce d’Arno arrosto e dei calcinelli a brodetto (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 65v)
Anonimo, Ricetta dei tortelletti a brodetto (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 67v)
Anonimo, Ricetta dei tortelletti a brodetto (anni Venti del XIV secolo; carta, 280 x 215 mm; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1071, c. 67r)

La Biblioteca Riccardiana di Firenze

La Biblioteca Riccardiana di Firenze, che ha sede in Palazzo Medici Riccardi, si originò verso la fine del Cinquecento con l’azione del nobile fiorentino Riccardo Romolo Riccardi, che cominciò ad acquistare i libri che avrebbero poi costituito il nucleo principale della raccolta. Nel 1659 i Riccardi acquistarono il palazzo dei Medici in via Larga, ovvero l’attuale sede della biblioteca, e iniziarono a ristrutturarlo e a sistemare qui i libri della collezione. Il salone delle feste, con i celeberrimi affreschi di Luca Giordano, diveniva il vestibolo della Sala della Biblioteca, che nel frattempo era cresciuta con le acquisizioni di Francesco Riccardi, che si occupò personalmente dell’assetto da conferire alla biblioteca. La Biblioteca rischiò di andare dispersa all’inizio dell’Ottocento, quando la famiglia, causa dissesti finanziari, la mise all’asta: fu però acquistata dal Comune di Firenze nel 1813 e ceduta allo Stato due anni dopo. Da quel momento dunque la Riccardiana diventava una biblioteca pubblica, anche se già all’epoca dei Riccardi era accessibile al pubblico (dal 1737 veniva infatti data possibilità agli uomini di cultura di consultare i libri).

Oggi la Riccardiana ha un patrimonio costituito da 4.450 manoscritti, tra cui autografi di Petrarca, Boccaccio, Savonarola e dei più grandi umanisti (Alberti, Ficino, Poliziano, Pico della Mirandola), pregiati codici miniati, 5.529 carte sciolte, 63.833 stampati (tra cui 725 incunaboli e 3.865 cinquecentine), 276 disegni appartenuti alla collezione Riccardi.

La Biblioteca Riccardiana di Firenze
La Biblioteca Riccardiana di Firenze

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