Cesare Brandi: in viaggio verso Palmira


Cesare Brandi fu oltre che storico dell'arte anche viaggiatore instancabile: in questo brano, pubblicato per la prima volta nel 1958, parla del suo viaggio a Palmira.

Cesare Brandi (1906 - 1988) non fu solo un grande storico dell’arte, ma fu anche un curioso viaggiatore, che decise di radunare in diversi scritti le sue memorie di viaggio. Quello che proponiamo di seguito è un brano tratto da uno scritto in cui Cesare Brandi racconta di un suo viaggio compiuto a Palmira nella metà degli anni Cinquanta: nella fattispecie, abbiamo selezionato la parte della narrazione durante la quale Brandi racconta il viaggio verso la città siriana e le prime impressioni appena arrivato. Un prezioso documento che ci guida tra le sabbie del deserto della Siria e, successivamente, tra le rovine di Palmira, viste attraverso l’occhio attento di Cesare Brandi. Il suo stile asciutto, semplice ma elegante, e fortemente descrittivo, sembra quasi farci immaginare il difficile viaggio, che però si conclude con una magnifica visione, quella di Palmira. Il brano è apparso per la prima volta nel volume “Città del deserto” del 1958: il libro è stato pubblicato in una nuova edizione l’anno scorso da Elliot Edizioni. Buona lettura!

Cesare Brandi
Cesare Brandi
Alle quattro e mezza di mattina si partì. Appena usciti da Damasco, la campagna, ancora oscura sotto il cielo altissimo, ricordava la campagna fitta di alberi verso Nocera dei Pagani, a Napoli, quando si lascia la strada di Pompei e la valle, stringendosi incontro a Cava dei Tirreni, rigurgita di verde, sovrapponendosi a tre piani, più alto di tutti quello dei noci. Vedevo le groppe dei meli e, sotto, un verde arruffato. Ma durò poco e poco durò la strada asfaltata. L’autista non capiva quasi una parola delle lingue in cui bene o male potevo esprimermi, e per fortuna non tentò neppure di accendere la radio. Parlava col figlio giovinetto che s’era portato e che, quando l’avevo visto, mi ero sentito sollevato da un certo peso: perché fare quasi seicento chilometri nel deserto con uno sconosciuto, siriano per giunta, nel periodo del Canale di Suez, quando non si sa mai da che parte si mette il vento, e se per caso da un momento all’altro non ti trovi in mezzo a un pogrom sul tipo di quello fatto dai turchi ai greci di Costantinopoli, pochi mesi fa, tutto ciò non prepara proprio a una gita di piacere. L’innocente presenza del figlio mi metteva allora l’animo in pace [...].

Ormai s’era proprio nel deserto, ed era piano, liscio quasi, cosparso di una ghiaia così fina e sbriciolata da parere in giardino. Le piste erano vaghe. A un paesetto di quelli impastati col fango, era montato un beduino: senza neanche interpellarmi. Ci s’era fermati, l’autista aveva rimesso l’acqua nel radiatore, il bambino aveva mangiato una fetta di cocomero. Io ero rimasto a guardare una donna che impastava paglia triturata e fango. Era giovane e senza espressione: aveva quel costume, che sarebbe stato assai grazioso, con dei calzoni stretti di pannina a fiori, e la gala in fondo, poi una sottana più corta, la testa fasciata di veli neri. Impastava con gesti sempre uguali e secchi come chi fa la calza, impastava, al modo di venticinquemila anni fa, gli stessi mattoni di fango da seccare al sole per costruirci le stesse capanne basse e lunghe, che sulla costa dei monti sembrano, da lontano, dei gradini sconnessi. Impastava: una donna più vecchia era vigile, in piedi.

Quando si riprese il cammino, erano cominciate discussioni da non finire fra l’autista e il beduino. Evidentemente l’autista non sapeva la strada, il beduino la sapeva, l’autista non si fidava, e via fuori di pista, e poi indietro e poi avanti. Sembrava che appena ritrovata una pista avessero paura di farcisi cogliere. Eppure io non ero in allarme. Il deserto aveva ripreso la sua azione tonificante e io non mi sentivo mai fuori strada. Si andava e in quell’andare stava una ragione così forte per me, come di vedere Palmira. Lontani colli dai colori tenui, fra l’azzurro e il viola, come nel deserto hanno le alture: un uccellaccio del genere di un avvoltoio, che passò battendo le ali così piano che le vidi distintamente quando le chiudeva in giù, come qualcosa che pendesse: nessun’altra vita che quei radi e bassi cespugli che sembrano scopo e non sono. Poi si cominciò a vedere due forme bianche in distanza e che non si capiva cosa fossero, se rocce od altro. Finalmente si erano messi d’accordo, o così mi pareva, che bisognava far capo lì: avvicinandosi, si scoperse che erano enormi serbatoi, come gassometri. Si trattava dell’oleodotto che porta il petrolio dall’Irak al Mediterraneo. Quel tale oleodotto che gli arabi intendevano far saltare (e l’hanno fatto) se non si dava vinta in tutto e per tutto a Nasser. Inopinatamente comparve anche la linea elettrica e si ritrovarono capre e cammelli, che mai ho visto con così poca roba da mangiare come là. Dall’oleodotto si apriva per poco una pista larga, assai più sconquassata del deserto nudo, e la valle livellata, immensa, senza ondulazioni si stendeva fino a certi lontanissimi monti. A un tratto vidi delle forme lontane come tende molto a punta, vidi delle striature d’un verde intensissimo. Erano masserie nel deserto dove, trivellando, era stata trovata l’acqua e ci avevano seminato subito il cotone, che era verde e già coi batuffoli aperti. Ma le case erano come quelle di Gerico, come quelle cioè che assomigliano ai trulli pugliesi, e solo che quei coni non erano uno o due, ma sei o sette, tutti in fila, e parevano piuttosto i rocchetti di certe vecchie filande. Nuove erano quelle fattorie, ancora in costruzione, e ancora in fattura si videro i mattoni crudi di fango e paglia. Il verde del cotone era rigoglioso come una fanfara. Poi riprendeva il deserto più magro e, dopo un poco, un’altra masseria, finché scomparirono del tutto. Le montagne invece si avvicinavano, si rinforzavano, perdendo l’azzurro ritrovavano colori forti, dall’arancione al viola, degradando da una parte e dall’altra, formando un valico. Nell’ampia incavatura, approssimandoci, apparve una torre diruta e poi altre, come calassero delle balze. Erano torri solitarie, non rilegate con mura, dall’una all’altra si vedeva nitido il declivo che scendeva. Erano torri rossastre, come rossastra era la roccia di quei monti, erano le torri mortuarie di Palmira.

Sembrò di passare per uno stretto, e s’accentuava il senso come di fondo prosciugato del mare, che suscita il deserto. Di qua e di là mozziconi di torri continuavano, ma anche qualcuna alta quasi, quasi intatta, di forme pure. In fondo si alzarono le file di colonne. Ma prima, avanti a tutti, su un colle a punta, un castello arabo, scapitozzato, dagli spigoli vivi come un cristallo. La china ripida, quasi a picco, tagliava il cielo. Improvvisa, foltissima, appena contenuta in un muro incerto, una distesa di palme e di ulivi, ma d’un verde così intenso che era più azzurro che verde.

Louis-François Cassas, Le rovine di Palmira
Louis-François Cassas, Le rovine di Palmira (1821; Tours, Musée des Beaux-Arts)

Su quella vegetazione contenuta ma violenta, il cielo si tendeva come gonfiato dal vento. La città assurda e straordinaria, che godé di una potenza quasi inconcepibile - arrivò sino all’Egitto - era riapparsa, porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, s’abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico, e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne.

Per prima cosa volli vedere le tombe: bisognava camminare ed era bene scegliere le ore meno bollenti. Questa storia delle tombe di Palmira credo che sia quasi unica nell’antichità. Furono, i palmireni, i primi impresari di pompe funebri, i primi a concepire la costruzione e la vendita di tanti tombarelli sovrapposti; e, non contenti di scavarli, li costruirono in altezza. Questa è l’origine, d’altronde oscura, delle tombe mortuarie a quattro o cinque piani. Inutile dire che in una città che si reggeva tutta sul commercio, c’era anche lo speculatore che comprava in blocco dal costruttore, e poi vendeva a strozzo i loculi a chi ne aveva bisogno. C’è i documenti di tutto questo, come pure dei banchetti funebri ai quali era inteso che partecipassero anche i morti: in fondo poteva essere una comoda credenza per non rattristarsi troppo.

Intanto, mentre ci avvicinavamo alla tomba detta dei Tre Fratelli, notavo, e mi era sfuggito in principio, che da quella parte la natura della montagna cambiava, perdeva il rosso, le rosicchiature; apparivano colline tondeggianti che facevano l’effetto di una negativa, in quanto che invertivano i colori come si è solito vederli: un grigio come di piombo era su tutte le parti più sporgenti, mentre un giallo soffice e paglierino appariva negli incavi dei burroni fino alle parti più basse. Era sabbia, era la famosa sabbia che non avevo incontrato finora e che il vento accumulava nelle parti cave, mentre spazzava via da quelle in risalto dove rimaneva a nudo la pietra color d’argento. L’effetto, anche dopo spiegato, mi rimaneva sempre esotico: e poi capii il perché. Quelle montagnole assomigliavano ai gatti siamesi, era lo stesso punto del giallo, e quasi lo stesso quello oscuro fra il piombo e il carbone. Ma soprattutto era la stessa inversione che fa così esotici i gatti siamesi, abituati come siamo ai nostri gatti che hanno in genere la mascherina chiara su fondo scuro, la punta della coda chiara, i pedalini bianchi, come i cavalli, ma non tutto il contrario come i siamesi. Allora le montagne che sapevano di gatto furono un nuovo fascino di Palmira.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo



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