La chiesa di San Francesco ad Atri: un esempio di arte abruzzese del Settecento


La chiesa di San Francesco ad Atri (provincia di Teramo, in Abruzzo) è uno splendido esempio di arte abruzzese nel Settecento.

Tra gli studiosi di Storia dell’Arte, il nome della città di Atri, situata su una dei primi colli salendo dalla costa della provincia di Teramo, è abbastanza ricorrente in virtù della Cattedrale duecentesca e degli affreschi medievali e rinascimentali al suo interno. La centralità dell’edificio nell’identità locale si ripercuote anche nella promozione turistica; infatti il centro storico, ben conservato, presenta numerosi musei e monumenti, tra cui undici chiese: tra queste vi è san Francesco, occupata fino a mezzo secolo fa dai Frati Minori, considerata uno degli esempi più interessanti di arte barocca in Abruzzo.

La chiesa di San Francesco ad Atri
La chiesa di San Francesco ad Atri. Photo credit

La chiesa si trova quasi a metà del Corso ed è la più grande dopo la Cattedrale, tanto da ospitarne le funzioni in caso di chiusura di quest’ultima. L’edificio aveva da sempre sofferto di problemi strutturali, complice l’umidità, che ne hanno comportato la chiusura per inagibilità a seguito del terremoto del 6 Aprile 2009; la mancanza di fondi presso la Curia diocesana ha impedito l’avvio di restauri e ora le recenti scosse, ben avvertite anche in Abruzzo, hanno aggravato la situazione. La storia artistica delle località abruzzesi è segnata dai terremoti: al di là dell’intervento pratico di ricostruzione, gli eventi tellurici stimolavano l’arrivo di maestranze forestiere e l’aggiornamento degli artisti della regione. Così avvenne dopo i due grandi sismi del 1703 e 1706, che sconvolsero L’Aquila e Sulmona e che furono la spinta per l’arrivo di scultori, architetti e pittori romani, napoletani e lombardi che ampliarono gli orizzonti dell’arte barocca abruzzese.

Le conseguenze artistiche di quei due terremoti sono visibili ancora nei monumenti della regione, e non solo nei centri appenninici, segnati da crolli e distruzioni: anche le località situate verso la costa adriatica (gravitanti su Chieti e Teramo), a basso rischio sismico, dove i danni furono certamente minori o nulli, approfittarono della vivacità artistica e intrapresero rifacimenti, specialmente di chiese. Si trattava di interventi volti ad ammodernare tali costruzioni e a cercare il più possibile di adattarli alle norme d’architettura ecclesiastica post-tridentina fissate da San Carlo Borromeo nelle Instructiones (1577), laddove il ‘600 aveva agito solo in maniera superficiale sulla struttura dell’edificio a causa della crisi che in quel periodo investì il Regno di Napoli e che, seppur non avesse bloccato la produzione artistica, di certo ridusse le grandi imprese architettoniche nelle regioni periferiche (ma bisogna tenere conto della perdita di testimonianze seicentesche a causa dei terremoti succitati). Spia di come la grande campagna costruttiva settecentesca sia stata, per queste aree collinari o costiere, un’esigenza di rinnovamento e adeguamento ai canoni della Controriforma (che nei piccoli centri si concentrava sugli interni), è in vari casi il fatto che l’esterno non sia stato interessato da lavori.

Ad Atri ben sei chiese furono rinnovate nel primo Settecento, ma solo due di esse furono oggetto di un progetto integrale che riguardò anche la facciata, tra cui san Francesco. L’origine di questo complesso dei Francescani è duecentesca, ma non si conosce il momento preciso: a metà del secolo era esistente e fiorente poiché vi muore già un frate in odore di santità, il beato Andrea (1241), e il capitolo di Narbona lo eleva a capoluogo della Custodia Adriensis (1260), una delle sei circoscrizioni in cui era divisa la provincia francescana d’Abruzzo (Provincia Pinnensis). Poiché san Francesco visitò la vicina Penne nel 1215, la tradizione locale ha attribuito a questo evento la nascita del convento atriano. Come è tipico dei conventi francescani, fu situato in una zona molto frequentata, quasi di fronte la piazza adibita a mercato. Dalle strutture medievali rimaste, si deduce che fosse una delle chiese francescane più grandi d’Abruzzo. La chiesa doveva essere a tre navate di pari altezza, con la centrale molto più ampia delle laterali, sul modello di Santa Croce a Firenze; era sopraelevata, in virtù della pendenza del terreno, ma molto meno di adesso. La facciata, come oggi arretrata rispetto al Corso, si apriva su uno slargo sopraelevato raggiungibile dalla salita sulla sinistra della chiesa (vico San Francesco). Attorno all’alto podio della chiesa si aprivano varie botteghe, quasi a prolungamento della vicina Piazza del Mercato.

Il lato destro conserva varie testimonianze dell’edificio antico: ci sono lunghe monofore murate; qualche doccione per lo scolo dell’acqua che ancora possiede, molto sbiadita, la conformazione zoomorfa (i famosi gargoyle); i ruderi del presbiterio, con l’arco trionfale a sesto acuto, murato, decorato con capitelli a crochet; l’ingresso a una delle botteghe del podio, con l’immagine scolpita di san Francesco (inizio ‘400) per segnalare una proprietà dei frati. Due-trecenteschi sono anche il campanile a vela, con una campana del 1265, e l’arco a sesto acuto sul fianco sinistro, di maestranze meridionali, che collega la chiesa al convento, sotto al quale si trova la lastra tombale di Giacomo di Lisio, medico atriano di fine ‘300, rimossa dalla chiesa durante i lavori settecenteschi e in seguito qui rimontata: la perdita dei connotati fisiognomici ha dato al defunto sembianze evanescenti e lo ha fatto entrare nell’immaginario popolare come “lu mammocce” (in dialetto: il pupazzo), spauracchio dei bambini.

Lu mammocce
“Lu mammocce” (foto di Gino Di Paolo)

Il cambiamento radicale avvenne agli inizi del Settecento. Non fu solo “barocchizzato” l’interno, non fu solo rifatta la facciata: cambiò la stessa planimetria dell’edificio. L’iscrizione latina in distici contenuta nel cartiglio in stucco sulla controfacciata indica che nel 1715 la chiesa fu riconsacrata e riaperta dopo che quinque retro lustris [...] ruit (cinque lustri addietro […] rovinò). La chiesa infatti crollò a seguito di un terremoto che però non avvenne in territorio abruzzese: il 23 dicembre 1690 un forte sisma aveva sconvolto la zona di Ancona e si era certamente avvertito per buona parte della costa adriatica, anche se non aveva prodotto danni come nella zona epicentrale.

Un altro indizio sugli effetti del terremoto di Ancona ad Atri è la commissione nel 1702 a Giovan Battista Gianni della ricostruzione, all’interno e all’esterno, della chiesa di santa Reparata. Il rifacimento della chiesa di san Francesco è stato ricondotto proprio a Giovan Battista Gianni, uno scultore-architetto originario di Cerano d’Intelvi (Como) e documentato in Abruzzo dal 1685 al 1728. La presenza di un artista di così lontane origini non deve sorprendere: dalla metà del Quattrocento alla metà del Settecento, in parallelo con il periodo di più alta attività sismica, in Abruzzo sono presenti famiglie di lapicidi “lombardi” (termine con cui si indica un’area più ampia della Lombardia, comprendente anche il Piemonte orientale e il Canton Ticino) che mantengono contatti con la terra d’origine e favoriscono l’afflusso continuo di conterranei, diventando una componente importante delle città abruzzesi (varie sono le “Confraternite dei Lombardi”).

I terremoti del 1703 e 1706 verranno poi a creare una sorta di tripartizione artistica dell’Abruzzo del ‘700: mentre la parte montana guarderà, in virtù di una serie di rapporti economici, politici e culturali, a Roma nel caso di L’Aquila e a Napoli nel caso di Sulmona, le valli adriatiche, periferiche sia rispetto all’Urbe sia rispetto alla capitale del Regno, si manterranno fedeli ai maestri di Lombardia, con i quali la comunicazione era facilitata proprio dal percorso costiero che portava fino a Bologna e di qui risaliva nelle valli padane. Ovviamente, non bisogna intendere in maniera rigida questa divisione: per fare un esempio, nel 1727-1728 il Gianni è chiamato a Sulmona a decorare la chiesa della Santissima Annunziata. La nuova chiesa francescana di Atri viene ridotta nella lunghezza: il presbiterio non occupa l’area di quello antico, forse impossibile da riutilizzare per i danni subiti e costoso da abbattere (in effetti oggi si presenta come un rudere, con i muri perimetrali ma senza la volta).

La facciata occupa lo stesso sito di quella precedente e assume uno schema ad ali inflesse, semplificazione di modelli borrominiani, che è per la regione una assoluta novità architettonica e che sarà ampiamente ripresa nelle successive facciatre abruzzesi. Al Gianni spetta anche la lastra stuccata sopra il portale centrale, con l’Istituzione del Perdono di Assisi. A segnare l’importanza dell’edificio nella vita urbana, sul timpano è collocata una meridiana, forse presente anche nella chiesa medievale: di fatto, fino all’età fascista esso sarà l’unico orologio pubblico della città (la torre del Duomo segna le ore ma non ha quadranti).

La centralità urbanistica che la chiesa aveva fin dalle origini è esaltata da espedienti scenografici barocchi, soprattutto romani: la facciata è molto più rialzata rispetto a quella originaria ed è collegata al Corso tramite una scalinata a doppia rampa che culmina in una sorta di piazzetta davanti il portale. La scalinata, dalle linee piuttosto mosse, unicum nell’architettura abruzzese, si può vedere come una estrema elaborazione dell’indicazione tridentina di costruire le chiese più in alto (ma di pochi gradini) rispetto al piano stradale. L’ardito progetto fu in realtà realizzato molto più tardi, nel 1776, da un altro architetto ‘lombardo’ (ticinese), Carlo Fontana; fino ad allora si saliva in chiesa o da una scalinata più semplice o ancora da vico San Francesco. Il principale modello di riferimento è la scalinata di Trinità dei Monti a Roma (Francesco de Sanctis, 1726), mentre l’esempio più vicino per forma, anche se con un andamento più lineare rispetto alla scalinata atriana, è quello della chiesa del Santissimo Crocifisso a San Miniato (Pisa), di Antonio Maria Ferri (1718). La scalinata sacrificò lo spazio destinato alle botteghe, segno del declino economico che Atri viveva dalla metà del ‘500; tuttavia si confermò un punto urbano frequentato dalla società (caffè, passeggiate..) nonché palcoscenico per rappresentazioni sacre, come il saluto dell’Addolorata al Cristo morto nella processione del Venerdì Santo. Depositi di negozi vicini si trovano ancora sul lato destro della scalinata, defilati; non era una bottega, al contrario di quanto supposto, la loggia centrale della scalinata, adibita come oggi ad ospitare un’immagine sacra (così anche a San Miniato).

Rilievi del soffitto
Rilievi della navata
I rilievi del soffitto, del lato sinistro e del lato destro della navata della chiesa di San Francesco ad Atri (immagini MD Technology)

All’interno, la struttura si rifà alla tipica chiesa controriformata, con una sola navata centrale, corrispondente all’antica, che inquadra l’altar maggiore; da quanto rimasto delle navate laterali furono ricavate tre cappelle per lato e un transetto appena sporgente dove furono sistemati i cappelloni di san Francesco e sant’Antonio da Padova. Le due cappelle più prossime al transetto (il Sacro Cuore di Gesù e l’Addolorata) furono realizzate alquanto più basse e strette rispetto alle altre per inserire i pulpiti in cornu Evangeli e in cornu Epistulae e i piloni del transetto. Il soffitto a capriate lignee, tipico delle chiese francescane, fu sostituito con una volta unghiata e, nel transetto,con una calotta emisferica.

L’interno si concentra sulla decorazione stuccata che riveste in particolare il presbiterio e le cappelle laterali. Poco spazio è dato alla pittura, probabilmente in virtù delle maggiori spese sostenute dai Francescani per la parte scultorea e architettonica, la più scenografica, anche se bisogna sottolineare le spoliazioni subite dalla chiesa per le soppressioni del 1809 e 1866 e maldestri restauri tra Ottocento e Novecento che hanno intonacato degli spazi affrescati sulle volte e sulle pareti delle cappelle.

Le tele ancora oggi presenti sono di autori locali: il modesto Giuseppe Prepositi probabilmente dipinse, tra il 1770 e il 1780, il San Raffaele e Tobia e l’Apparizione della Vergine a san Gaetano per le cappelle dei due santi; un secolo dopo, la pala della cappella di Sant’Anna, l’Educazione della Vergine, fu realizzata da Luciano Astolfi che affrescò anche la cappellina dell’Addolorata con due Angeli che reggono i Sacri Cuori di Gesù e Maria (rovinatissimi). Pertinente al periodo settecentesco è la statua vestita dell’Addolorata. I cappelloni di san Francesco e sant’Antonio furono progettati fin dall’inizio per ospitare anche al centro decorazioni stuccate inerenti ai due santi, senza statue lignee o pale. Le cappelle dell’Immacolata e del Sacro Cuore, invece, presentano oggi statue moderne. Gli stucchi sono molto simili, per stile e disposizione, a quelli della Santissima Annunziata a Sulmona (1728), elemento che ha fatto propendere per l’assegnazione a Gianni di entrambe le decorazioni.

Altari di San Francesco ad Atri e di Sulmona
Da sinistra: il cappellone di San Francesco (1715) e quello di Sant’Antonio (1715) nella chiesa di San Francesco ad Atri (foto di Gino Di Paolo) e l’altare del transetto dell’Annunziata a Sulmona del 1728 (foto di Giovanni Lattanzi)


Cappella di Sant Antonio
La Cappella di Sant’Antonio. Photo credit

Pur rispondendo a schemi di riferimento simili, di provenienza austro-tedesca e reinterpretati nelle valli lombardo-ticinesi, si nota l’evoluzione stilistica del Gianni: a Sulmona la struttura e il partito decorativo sono più ariosi, leggeri, liberamente rivisitati; ad Atri, al contrario, prevale una concezione più architettonica e articolata, in cui le figure dei santi sono molto più salde e le stesse decorazioni floreali sono disposte in maniera razionale. Basta fare un confronto tra gli altari dei transetti in san Francesco ad Atri (i cappelloni di san Francesco e sant’Antonio di Padova) e nell’Annunziata a Sulmona. O ancora, tra un altare laterale sulmonese e la cappella di san Gaetano nella chiesa atriana.

La chiesa di san Francesco ad Atri racchiude dunque una complessa vicenda storica e artistica, che la lega a fenomeni che riguardano tutta la cultura abruzzese. Sono sette anni, come già detto, che un tale edificio è chiuso agli atriani e ai visitatori, in uno dei punti più frequentati della città. Dopo l’ultimo terremoto, quanti anni dovranno passare perché non diventi un relitto dimenticato?

Bibliografia di riferimento

  • Enrico Santangelo, Atri. Guida storico-artistica alla città e dintorni, Pescara, CARSA Edizioni, 2011
  • Rossana Torlontano (a cura di), Abruzzo. Il Barocco Negato, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2010
  • Luigi Sorricchio, Hatria-Atri, Tomo II, Pescara, Tipografia De Arcangelis, 1929, riedizione a cura della Tipografia Hatria, Atri, 2009
  • Luisa Franchi Dell’Orto (a cura di), Documenti dell’Abruzzo Teramano, vol. 5, Dalla valle del Piomba alla valle del basso Pescara, Sambuceto, Poligrafica Mancini, 2001


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L'autore di questo articolo: Gioele Scordella

Gioele Scordella è uno studente abruzzese di Storia dell'Arte all'Università di Firenze.



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