Il trittico dell'Adorazione dei Magi di Joos van Cleve: un capolavoro fiammingo a Genova, restaurato


Lo splendido trittico dell'Adorazione dei Magi di Joos van Cleve, nella chiesa di San Donato a Genova, è stato recentemente restaurato. Parliamo dell'opera in questo articolo.

Era stato piuttosto perentorio il pittore Carlo Giuseppe Ratti quando, nella sua Instruzione, una sorta di settecentesca “guida turistica” della Liguria, diceva, a proposito della chiesa di San Donato a Genova, che l’unica tavola ragguardevole, che in essa conservisi, è quella dell’adorazione de’ Magi d’Autor Fiammingo, in cui vedesi con spropositato anacronismo s. Giuseppe con un rosario alla mano. Ratti però aveva pienamente ragione sul fatto che la tavola della chiesa di San Donato sia un’opera davvero notevole: è una delle più pregiate che si conservino in città, un trittico la cui importanza è straordinaria anche perché contribuì in modo determinante a far conoscere a Genova l’arte fiamminga. All’epoca (l’Instruzione apparve nel 1766 e una seconda edizione uscì nel 1780) il nome dell’autore del Trittico dell’Adorazione dei Magi non era noto, ma oggi lo conosciamo bene: si tratta di Joos van Cleve (Cleve, 1485 circa - Anversa, 1540/1541).

Joos van Cleve, Trittico dell'Adorazione dei Magi
Joos van Cleve, Trittico dell’Adorazione dei Magi (1515 circa; olio su tavola; tavola centrale, 156 x 138 cm; ante laterali, 162 x 67 cm; cimasa centrale, 51 x 96 cm; cimasa sinistra, 52 x 46 cm; cimasa destra, 54 x 45 cm; Genova, San Donato). Foto di Maxfoto, Genova.

Per presentare il dipinto partiamo dalle vicende che lo hanno interessato di recente. In particolare, da un fatto piuttosto triste: il furto che l’opera subì nel 1974. Per fortuna, il trittico di Joos van Cleve fu più fortunato rispetto a tante altre opere trafugate e mai più ritrovate, dacché venne rinvenuto tre mesi dopo la sparizione. Tuttavia, i ladri avevano rozzamente smembrato le tre tavole che lo compongono, e per farlo avevano dovuto distruggere la cornice, andata perduta: di conseguenza, l’opera fu ritrovata con il supporto ligneo danneggiato. Subito sottoposto a restauro, il supporto ha però continuato a soffrire (le tavole si erano deformate al punto da lasciare tra le une e le altre spazi della lunghezza di circa tre millimetri), così da rendere necessario un nuovo intervento, che è stato condotto dalle mani esperte di Antonio Silvestri, terminato nelle ultime settimane e presentato al pubblico ieri, sabato 17 dicembre 2016, proprio nella chiesa di San Donato. Non è uno di quegli interventi che tirano a lucido le opere o che richiamano le folle: è semplicemente un intervento che serviva, in quanto necessario a ripristinare le condizioni ottimali del supporto del trittico. Un’operazione tecnica, insomma, che ha comportato lo smontaggio del polittico, l’uso di colle animali per l’incollaggio delle tavole (che dopo il furto non erano più state incollate) e l’inserimento di un sistema di vincoli per lasciare comunque una minima libertà di movimento al supporto. Ma si è trattato di un restauro importante per la conservazione dell’opera, dato che si temeva per la sua sopravvivenza, mentre adesso le rinnovate condizioni possono garantirle una vita ben più lunga e tranquilla. E un restauro importante anche perché è stata possibile grazie a una dimostrazione d’amore nei confronti dell’arte di un gruppo di cittadini genovesi, che si sono riuniti nell’Associazione Culturale Giano: i trecento soci hanno acconsentito a devolvere le offerte e le quote d’iscrizione per finanziare interamente il restauro. Una mirabile testimonianza di cura nei confronti del patrimonio, che si spera possa essere d’esempio per tante altre realtà.

Presentazione del restauro

Presentazione del restauro
Due momenti della presentazione del restauro. Foto di Maxfoto, Genova (in alto) e di Giacomo Montanari (in basso).

Dobbiamo poi considerare che il trittico di Joos van Cleve sta vivendo un periodo particolarmente fortunato: nel 2015 l’opera ha festeggiato il suo cinquecentenario, con dedica di una giornata di celebrazioni e uscita, nel 2016, di una pubblicazione, curata da Gianluca Zanelli (Joos van Cleve. Il trittico di San Donato, SAGEP), che ha ricostruito la storia del prezioso dipinto. Una storia che ha inizio all’incirca nel 1515, o comunque nel secondo decennio del Cinquecento. Il committente è un nobile, Stefano Raggio, che intende dotare la cappella di famiglia (poi demolita) nella chiesa di San Donato di un’opera aggiornata, di gusto moderno. La scelta non può che ricadere su uno degli artisti più aggiornati tra quelli attivi nella Genova di inizio Cinquecento: il nostro Joos van Cleve, che si mette all’opera per realizzare il suo sontuoso trittico con l’Adorazione dei Magi nella tavola centrale, il committente e i santi Stefano e Maria Maddalena nelle tavole laterali, e una Crocifissione nella cimasa centrale, mentre la cimasa destra e in la sinistra sono destinate a ospitare la continuazione del cielo che appare nei pannelli sottostanti.

Così almeno secondo le ipotesi, sulla base delle ricostruzioni: perché non sono rimasti documenti che possano testimoniarci un’eventuale incarico conferito da Raggio al pittore, non esistono fonti che attestino un viaggio di Joos van Cleve a Genova, né sopravvivono evidenze di un possibile (e plausibile) soggiorno di Raggio ad Anversa, città a cui l’artista era legato e dove operò a lungo. Di sicuro i Raggio, attivi nel commercio, intrattenevano rapporti di lavoro con le Fiandre. E l’artista, dal canto suo, aveva clienti a Genova. Anche se non è stato facile trovare il nome dell’autore di quel gruppo di opere, tutte fiamminghe e tutte evidentemente prodotte dalla stessa mano, realizzate per i committenti liguri. Si trattava della stessa mano che aveva dipinto un’opera conservata al Wallraf-Richartz Museum di Colonia, un trittico con la Morte di Maria, da cui il nome con cui l’autore era convenzionalmente noto, ovvero il Maestro della Morte di Maria. Poi, nel 1894, la svolta: lo storico dell’arte Eduard Firmenich-Richartz riesce a scovare, nella tavola tedesca, il monogramma JB, che gli permette di ricondurre l’opera, fino ad allora anonima, al nostro Joos van Cleve (il cui vero nome era Joos van der Beke). La scoperta, accolta inizialmente non senza qualche dubbio, permette successivamente di attribuire a Joos anche le tavole genovesi, tra cui il nostro Trittico dell’Adorazione dei Magi. Rimane però il dubbio dell’eventuale soggiorno a Genova: in questa sede, possiamo limitarci a dire che, pur non essendo sopravvissute evidenze documentarie, una permanenza in Liguria di Joos van Cleve non sarebbe comunque da escludere.

Tuttavia, anche se Joos non si fosse recato personalmente a Genova, la cosa non gli avrebbe impedito di raffigurare Stefano Raggio nell’anta sinistra del trittico. Il nobile genovese, ritratto con vivissimo naturalismo, tipico dell’arte fiamminga, è colto mentre s’accinge a pregare su di un inginocchiatoio marcato con lo stemma della famiglia. È introdotto alla scena principale dal suo santo eponimo, santo Stefano appunto, che porta nel ripiego della veste liturgica alcuni sassi, rozzo strumento del suo martirio (il primo della storia cristiana), mentre nel quattrocentesco paesaggio alle sue spalle, in lontananza, si svolge la scena della lapidazione. Tipicamente fiammingo è anche l’abbigliamento di Raggio, con il lungo mantello dal bavero di pelliccia che lascia intravedere le maniche rosse dell’abito. Il paesaggio alle spalle dei protagonisti prosegue con la stessa limpidezza, sebbene con una logica che esclude l’ipotesi secondo la quale sarebbe stato concepito unito, fino all’anta destra, dove trova spazio una solitaria santa Maria Maddalena, che fino a non molto tempo fa si pensava fosse un omaggio alla defunta moglie di Stefano Raggio, Maria Maddalena Giustiniani, la cui presenza nel dipinto si è voluta vedere nella mandorla di luce che compare nel cielo sopra la santa. L’ipotesi che vorrebbe tale mandorla simbolo dell’anima della sposa del committente è stata scartata già qualche anno fa dal succitato Zanelli, che preferisce scorgere nella mandorla l’apoteosi della santa, portata in cielo da “minute creature angeliche appena abbozzate dal pittore mediante sottilissimi tocchi di una tenue tonalità rosea attenuata dal bianco”. Si riteneva, comunque, che l’intero trittico fosse stato commissionato al pittore fiammingo per onorare la memoria di Maria Maddalena Giustiniani e per decorare il luogo destinato alla sua sepoltura. E proprio all’anno 1517, data a cui risale il matrimonio, si potrebbe fissare l’incarico conferito da Raggio al pittore.

Il ritratto di Stefano Raggio
Il ritratto di Stefano Raggio. Foto Maxfoto, Genova.


La santa Maria Maddalena
La santa Maria Maddalena. Foto Maxfoto, Genova.

Tuttavia l’ipotesi di un omaggio alla moglie non era compatibile con una datazione anticipata del polittico, attorno al 1515, tanto da essere stata definitivamente scartata da Maria Clelia Galassi nel recente contributo di quest’anno (oltre che ieri nel corso della presentazione del restauro): in particolare, la sposa di Raggio non si sarebbe chiamata Maddalena di secondo nome, e la presenza della santa sarebbe dunque da rileggere in chiave religiosa e politica. Secondo la teologia riformata (proprio nel 1517 Lutero affiggeva le proprie novantacinque tesi a Wittenberg, ma il pensiero che avrebbe originato la riforma ovviamente già circolava) Maria Maddalena era, al contempo, la donna che aveva lavato i piedi di Cristo, la prostituta redenta, e la donna che aveva scoperto il sepolcro di Gesù vuoto: dopodiché, fuggita in Francia, si sarebbe rifugiata nella grotta detta “de la sainte Baume”, dove sarebbe stata elevata al cielo (ecco quindi il perché della grotta e della mandorla nel dipinto). Ma la Maddalena era anche santa legata agli Asburgo di Borgogna, fazione che Raggio appoggiava e che proteggeva il nobile genovese stesso: si tratterebbe pertanto anche di un’allusione politica.

L’affollata scena centrale, quella con l’Adorazione dei Magi, si svolge sotto un edificio classicheggiante in rovina, preda di piante rampicanti: un’ambientazione frequente per scene di questo tipo. È un tripudio di stoffe, velluti pregiati, sontuosi monili, ricche decorazioni. Inutile anche tentare di fare un elenco di dettagli su cui soffermarsi, tanta è la cura che Joos ha profuso nella resa di questi particolari. Ma proviamo comunque a elecarne alcuni. A cominciare dalla spessa catena d’oro (con la luce che si riflette su ogni anello) di Baldassarre, identificato dalla scritta “Balteser” che compare sulla pisside contenente incenso, che il re mago nero porta in dono a Gesù Bambino. Oppure, il bordo in leopardo del suo mantello. Il lussuoso broccato verde del soldato che compare dietro di lui, quello con il copricapo rosso. E ancora, le decorazioni della pisside con cui Gaspare, individuato dalla scritta “Jasper” sul bordo del suo preziosissimo abito scuro, regala al Bambino la mirra. Il ricamo dorato della veste di Melchiorre, che si inginocchia per baciare Gesù, dopo aver già depositato ai suoi piedi il proprio dono, l’oro che Joos sintetizza nella pisside e nello scettro che si vedono appoggiati al bordo dell’improvvisato trono marmoreo su cui siede la Vergine. Il trasparente velo che gentilmente copre la sua chioma bionda senza però nasconderla agli occhi dell’osservatore. Il sorriso gioioso di Gesù Bambino. La naturale nonchalance con cui san Giuseppe s’appoggia a una colonna, rigorosamente dietro alla sua sposa, quasi in disparte, per osservare la scena. Con in mano l’anacronistico rosario citato da Ratti. E poi, la borsa appesa al pilastro dietro di lui, evidente testimonianza di quella quotidianità che costituiva un ulteriore tratto specifico della cultura figurativa fiamminga.

La scena centrale col Gesù Bambino
La scena centrale col Gesù Bambino. Foto Maxfoto, Genova.


La preziosità dei decori
La preziosità dei decori

E come non citare il paesaggio descritto così minuziosamente, con il corteo dei magi che si snoda lungo le strade che dal mare conducono al tempio, e che è costellato di scene popolaresche, con villaggi che pullulano di personaggi in ogni attività affaccendati? E poi, alle spalle della santa Maria Maddalena, compare anche un’attivissima città portuale, con imbarcazioni che solcano le acque antistanti: chiaro rimando alla città da cui proveniva il committente e alla sua industriosità. Ma non solo: questa umanità che compare sullo sfondo è stata vista, da un lato, come ulteriore omaggio all’operosità di Stefano Raggio, come detto sopra attivo nel commercio, e dall’altro come rimando al divino che si manifesta a ogni persona che abiti la terra.

Per chiunque voglia vedere dal vivo tutto ciò che è stato descritto in questo articolo, il modo è uno solo: andare a Genova e recarsi a visitare la chiesa di San Donato, tappa fondamentale del “percorso artistico” cittadino. Un percorso che, occorre ribadirlo, da ieri è ancor più prezioso grazie al lavoro svolto dall’Associazione Culturale Giano: è grazie anche alle dimostrazioni di attaccamento dei cittadini nei confronti del proprio patrimonio che si raggiunge la consapevolezza di quella funzione identitaria che, come ci ha detto uno dei soci fondatori dell’Associazione, lo storico dell’arte Giacomo Montanari, “permette di lavorare a tanti livelli, da quello culturale a quello dell’inclusione sociale, per giungere alla vivibilità di una città che se conosciuta, quindi amata, diventa ricchezza condivisa da mantenere e conservare, ma anche strumento per reinvestire in prospettiva di un riuso creativo del patrimonio storico artistico e monumentale”.

Bibliografia di riferimento

  • Gianluca Zanelli (a cura di), Joos van Cleve. Il trittico di San Donato, SAGEP, 2016
  • Gianluca Zanelli, Farida Simonetti (a cura di), Joos van Cleve e Genova. Intorno al Ritratto di Stefano Raggio, catalogo della mostra (Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, 30 gennaio - 13 aprile 2003), Maschietto Editore, 2003
  • Carla Cavelli Traverso (a cura di), Primitivi fiamminghi in Liguria, Microart’s S.p.A., 2003
  • Cecile Scailliérez, Joos van Cleve e Genova, in Piero Boccaro, Clario Di Fabio (a cura di), Pittura fiamminga in Liguria: secoli XIV-XVII, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1997
  • John Oliver Hand, Martha Wolff, Early Netherlandish Painting, National Gallery of Art - Washington, 1986


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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