Picasso e Rousseau, novembre 1908: una cena memorabile


Nel novembre 1908, Pablo Picasso diede una cena in onore di Henri Rousseau nel suo studio in Bateau-Lavoir a Parigi. Il banchetto passò alla storia.

Honneur à Rousseau. Onore a Rousseau. Lo striscione è appeso all’ultimo piano del Bateau-Lavoir, l’edificio di Montmartre in cui Pablo Picasso ha da qualche tempo allestito il proprio studio. Tutt’intorno festoni e bandiere, e al centro della sala una tavola ottenuta da una lunga asse di legno appoggiata su una fila di cavalletti da pittore, e apparecchiata con tovaglia, piatti, posate e bicchieri noleggiati dal vicino ristorante Azon. Tutti i mobili sono stati tolti dallo studio, e l’attiguo appartamento del pittore Jacques Vaillant (che in seguito verrà ceduto a Juan Gris) è stato trasformato, per l’occasione, nel guardaroba riservato agli ospiti della festa. È una sera di fine novembre 1908: Picasso ha deciso di organizzare un banchetto per celebrare Henri Rousseau (Laval, 1844 - Parigi, 1910), il “Doganiere” noto nella Parigi del tempo per i suoi dipinti tanto esotici quanto ingenui, ma capaci di raggiungere un primitivismo spontaneo che i grandi avanguardisti d’inizio Novecento ammirano e, forse, un po’ invidiano. La festa in onore di Rousseau passerà alla storia.

Gli invitati cominciano a poco a poco ad arrivare. Sono una trentina in tutto. C’è Georges Braque, padre del cubismo assieme a Picasso. C’è Maurice de Vlaminck, esponente di punta del gruppo dei fauves. Ci sono i due grandi mecenati di Picasso, i fratelli Gertrude e Leo Stein. C’è la musa nonché amante di Picasso, Fernande Olivier. C’è la scrittrice americana Alice Babette Toklas. C’è la pittrice Marie Laurencin. C’è un gruppetto di poeti tra cui spiccano i nomi di Max Jacob e André Salmon. La maggior parte degli invitati si ritrova prima della cena al bar Fauvet per un aperitivo. Mentre i più sono intenti a sorseggiare i loro drink, arriva Fernande Olivier, agitatissima e su tutte le furie: lo chef Felix Potin non ha consegnato la cena che gli era stata ordinata. La causa è un non meglio precisato disguido: forse, lei e Picasso hanno sbagliato a comunicare la data della festa, forse il cuoco si è dimenticato, e sta di fatto che occorre chiamare al più presto il catering di Potin per dire di organizzare qualcosa. Solo che quando finalmente si trova un telefono funzionante, Potin ha già chiuso i battenti. Fernande si ritroverà così a cucinare paella per tutti gli ospiti. Nello studio di Max Jacob, che diventa una cucina improvvisata.

Il gruppo si sposta dal café Fauvet allo studio di Picasso. Ma manca ancora l’ospite d’onore! Il pittore spagnolo ha infatti deciso di farlo arrivare per ultimo, accompagnato dal vero mattatore della serata: il poeta Guillaume Apollinaire. Si deve ancora iniziare la cena e Marie Laurencin è già ubriaca e comincia a offrire spettacolo. Fernande la riprende: per quando arriverà Rousseau, tutti dovranno essere seduti in modo composto per celebrare l’artista. E il Doganiere, infatti, arriva puntualmente, scortato da Apollinaire: tutti gli ospiti si alzano in piedi e applaudono al suo ingresso trionfale. La stranissima coppia arrivata per ultima nello studio di Bateau-Lavoir fa già presagire come andrà la serata: Rousseau è un ometto piccolo, canuto, timido, di quasi settant’anni. Apollinaire è invece un baldanzoso quarantenne, vestito alla moda, curatissimo nell’aspetto, esuberante spesso fino all’eccesso. Rousseau viene fatto accomodare a capotavola, seduto su un’elegante poltrona, davanti a un suo dipinto, che Picasso aveva acquistato qualche tempo prima in una galleria, per la misera somma di cinque franchi, un prezzo che probabilmente valeva a malapena il materiale con cui era stato prodotto: è il Ritratto di donna, e Picasso lo custodisce gelosamente, tanto che ancora oggi fa parte della collezione del Musée Picasso di Parigi. Rousseau lo aveva dipinto nel 1895.

Henri Rousseau, Ritratto di donna
Henri Rousseau, Ritratto di donna (1895 circa; olio su tela, 160,5 x 105,5 cm; Parigi, Musée Picasso)

Apparentemente è un dipinto piuttosto insignificante. Protagonista è una signora arcigna, che veste un lungo abito nero, sobrio, estremamente castigato. Lo sguardo è freddo, le proporzioni sono irrealistiche, il disegno praticamente assente, così come del tutto assente è il senso di profondità, perché Rousseau non ha studiato: è un pittore della domenica, un uomo che di mestiere fa l’impiegato all’ufficio del dazio di Parigi (ecco il perché dell’ironico soprannome “il Doganiere”) e che nel tempo libero si diletta con colori e pennelli, come può, senza grandi pretese, creando immagini semplici e ingenue. Come questa donna severa, che con la mano sinistra s’appoggia a un ramoscello evidentemente appena potato da una pianta, e con la destra tiene un fiore. Che Rousseau non abbia avuto alcuna formazione è evidente da alcuni particolari: dai piedi che spuntano da sotto il vestito, resi senza il minimo studio della prospettiva, dall’uccello che vola nel cielo (e non si capisce bene dove: l’intento di Rousseau era forse quello di dipingerlo in lontananza, ma sembra stia svolazzando vicino alla testa della protagonista), dalla ringhiera del terrazzo storta. Eppure, quel ritratto esercita su Picasso un fascino sperimentato poche altre volte. “È uno dei ritratti psicologici francesi più veri che ci siano”, aveva sentenziato il pittore spagnolo, che aveva trovato in Rousseau una forza genuina, una capacità di tirar fuori l’arte da dentro della quale nessuno degli avanguardisti aveva piena padronanza (perché avevano tutti studiato, e di conseguenza la loro arte risentiva dei loro studi e delle loro esperienze formative, e non era in grado di liberarsene), un’immediatezza espressiva e un’eccezionale spontaneità che rendevano Rousseau simile agli artisti primitivi, una visionarietà che gli permetteva di tradurre sulla tela innocenti ma ricche fantasie di giungle intricate, di animali esotici, di popolazioni lontane, di fiabe sognate. E agli occhi di un gruppo di artisti che cercava di capire i segreti per dipingere come i primitivi, un artista vero e dotato di una fervida immaginazione come Rousseau doveva apparire non solo un caso da studiare, ma anche un modello da seguire. E da prendere molto sul serio.

Tanto sul serio che la stessa pittura di Picasso aveva iniziato a risentire dell’influenza di quella di Rousseau. Nell’estate di quello stesso 1908, Picasso e Fernande avevano soggiornato per qualche tempo a La Rue-des-Bois, un piccolo villaggio nel dipartimento dell’Oise, a poche decine di chilometri da Parigi. Era un piccolo nucleo di case a poca distanza dalla cittadina di Verneuil-en-Halatte e al limitare di una rigogliosa foresta, oggi diventata parco naturale regionale. Picasso aveva deciso di dipingere i boschi attorno al villaggio: una di quelle tele oggi è conservata a Milano, al Museo del Novecento. Se le osserviamo (e se in particolare osserviamo proprio quella di Milano) notiamo subito qualcosa di familiare. Il bosco di Picasso ci appare come un parente stretto delle giungle di Rousseau. Il modo in cui Picasso opera la propria semplificazione delle forme degli alberi e delle loro chiome, le gradazioni di verde utilizzate per le foglie, l’apparente banalità della composizione sono tutte caratteristiche che sembrano proprio mutuate dall’arte di Rousseau. I paesaggi dipinti a La Rue-des-Bois, dirà negli anni Settanta William Rubin, storico dell’arte nonché direttore del dipartimento di pittura e scultura al MoMA, “sembrano mitigare la sofisticatezza dell’arte di Cézanne con la semplicità di quella di Rousseau”.

Pablo Picasso, La Rue-des-Bois
A sinistra: Pablo Picasso, La Rue-des-Bois (1908; olio su tela, 71 x 58 cm; Milano, Museo del Novecento). A destra: Pablo Picasso, La Rue-des-Bois (1908; olio su tela, 100,8 x 81,3 cm; New York, MoMA)


Henri Rousseau, Donna che cammina nella foresta
Henri Rousseau, Donna che cammina nella foresta (1905; olio su tela, 99,9 x 80,7 cm; Lower Merion, Barnes Foundation)

Insomma: Henri Rousseau si era davvero meritato il posto d’onore al banchetto del novembre 1908. Un banchetto che, dopo il suo arrivo, continua alla grande. È vero: la cena è stata pensata come una specie di grossa burla nei suoi confronti, ma gli artisti che partecipano la prendono allo stesso tempo molto seriamente, intendendola, oltre che come uno scherzo, anche come un modo per riconoscere un tributo a un artista che aveva indirizzato in un certo modo le loro ricerche. A Rousseau interessa però godersi il momento e la compagnia degli artisti più aggiornati di Parigi. Apollinaire apre la serata con una poesia in endecasillabi a rima alternata, scritta appositamente per l’evento e che, sempre in bilico tra il serio e il faceto, recita così: Nous sommes réunis pour célébrer ta gloire / Ces vins qu’en ton honneur nous verse Picasso / Buvons-les donc, puisque c’est l’heure de les boire / En criant tous en choeur: Vive Rousseau! / Peintre glorieux de l’alme Republique / Ton nom est le drapeau des fiers Indépendants / Et dans le marbre blanc, issu du Péntelique / On sculptera ta face, orgueil de notre temps (“Siamo riuniti per celebrare la tua gloria / Questi vini che Picasso versa in tuo onore / Beviamoli dunque, perché è l’ora di berli / Gridando tutti in coro: viva Rousseau! / Pittore glorioso dell’alma Repubblica / Il tuo nome è la bandiera dei fieri indipendenti / E nel marmo bianco del monte Pentelico / Verrà scolpito il tuo volto, orgoglio dei nostri tempi”). Il resto della cena ci è stato tramandato da alcuni dei presenti, per esempio da Alice Toklas, nelle sua Autobiografia scritta in realtà da Gertrude Stein.

Apollinaire recita a più riprese la sua poesia. Tutti i presenti si uniscono nel coro “Vive Rousseau!”. Salmon inizia a discorrere di viaggi e di letteratura, ma beve talmente tanto che alla fine si prende la sbronza molesta e vuole fare a botte con gli altri commensali, che cercano di tenerlo a freno (e alla fine, non riuscendo a calmarlo, lo chiudono a chiave nello studio di Vaillant). Braque offre il suo contributo salvando una statua urtata nelle fasi più concitate dell’ubriacatura di Salmon. Leo Stein invece si premura di evitare che Salmon danneggi il violino che Rousseau aveva portato con sé: a più riprese, durante la cena, il pittore lo aveva tirato fuori per eseguire alcune melodie, accompagnato dagli altri ospiti intenti a cantare e a incitarlo. Rousseau stesso alza il gomito più del dovuto e comincia a raccontare di sue improbabili avventure in Messico fantasticando di aver partecipato alla spedizione francese a supporto di Massimiliano d’Asburgo e di aver tratto ispirazione per i suoi dipinti esotici. Apollinaire coglie la palla al balzo per pronunciare versi sul tema: Tu te souviens, Rousseau, du paysage aztèque / Des forêts où poussaient la mangue et l’ananas / Des singes répandant tout le sang des pastèques / Et du blond empereur qu’on fusilla là-bas (“Ti ricordi, Rousseau, del paesaggio azteco / Delle foreste dove crescevano il mango e l’ananas / Delle scimmie che spargevano tutto il sangue dei cocomeri / E del biondo imperatore che è stato fucilato laggiù”). Rousseau ovviamente sta al gioco, forse più per l’alcool che per altro. Ed è già decisamente brillo quando confida a Picasso: “noi siamo i due più importanti artisti del nostro tempo: tu nello stile egizio, io nello stile moderno”. Il problema è che Picasso è nel gruppo di quelli che sono rimasti perfettamente lucidi... o comunque è sufficientemente sobrio da ricordare la frase pronunciata da Rousseau e renderla celebre. Il vecchio artista beve talmente tanto che alla fine si addormenta, e neanche si accorge della cera che da una lanterna gli cola sulla testa, formandogli come un buffo cappello. La lanterna poi prende fuoco scatenando un piccolo incendio che alcuni degli invitati sono costretti a domare. Marie Laurencin, che come detto era già arrivata ubriaca alla festa causa troppi aperitivi da Fauvet, canta e balla furiosamente, poi vacilla e cade su un vassoio di tartine. Apollinaire (che con lei peraltro ha una relazione piuttosto tormentata) la prende in disparte e cerca di riportarla a più miti consigli. Lei però non si regge in piedi e Gertrude Stein decide di prenderla a schiaffi per farle passare l’ubriacatura. Nel corso della serata comunque si riprende. La serata prosegue tra danze, Rousseau che ogni tanto si risveglia dal torpore per suonare il violino, poesie recitate da Apollinaire e dagli altri poeti presenti, Picasso che canta, tutti che si divertono.

Alle tre del mattino, all’ennesimo cenno di dormiveglia da parte di Rousseau, si decide per riportarlo a casa: ha comunque un’età e certe feste non le regge più. Alice Toklas e i fratelli Stein, dopo aver liberato Salmon, si offrono per accompagnare il pittore. I quattro lasciano dunque la festa, mentre altri proseguono fino all’alba del giorno successivo. Il 4 dicembre, Rousseau scrive un biglietto ad Apollinaire per ringraziarlo della serata e per dirgli di portare i suoi saluti a Picasso (che per molti anni continuerà a comperare dipinti di Rousseau), a Fernande e a tutti gli altri partecipanti che avesse avuto modo d’incontrare. Per il piccolo Doganiere, il banchetto è stato forse uno dei momenti più felici della sua vita.

Bibliografia di riferimento

  • Peter Reid, Picasso and Apollinaire: The Persistence of Memory, University of California Press, 2010
  • Christopher Green, Philippe Büttner, Henri Rousseau, Hatje Cantz, 2010
  • Christopher Green, Picasso: Architecture and Vertigo, Yale University Press, 2006
  • Dominique Dupuis-Labbé, Picasso: la scultura, Giunti, 2002
  • Ruben Charles Cordova, Primitivism and Picasso’s Early Cubism, tesi di dottorato, University of California, 1998
  • John Richardson, A Life of Picasso, volume II: 1907-1917, Random House, 1996
  • William Rubin (a cura di), Picasso in the collection of the Museum of Modern Art, catalogo della mostra (New York, MoMA, 3 febbraio - 2 aprile 1972), Museum of Modern Art, 1972
  • Gertrude Stein, The Autobiography of Alice B. Toklas, Harcourt, Brace and Company, 1933


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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