Tra autoreferenzialità e vuota retorica: il bilancio del MiBACT “made in Franceschini”


Il ministro Dario Franceschini pubblica un documento col bilancio dei suoi tre anni al governo dei beni culturali. Qualche riflessione in merito.

Nell’epoca della politica Power Point, è del tutto lecito attendersi che un ministro della repubblica, giunto al terzo anno di mandato, invece che domandarsi cosa in questo lasso di tempo non abbia funzionato e cosa sia possibile migliorare, perda e faccia perdere tempo a far compilare presentazioni in PDF per stilarsi da solo il bilancio della propria attività. Normale amministrazione per un esponente di un governo che ci ha abituati alle chiacchiere da slide piuttosto che ad azioni efficaci (e del quale l’attuale rappresenta niente più che la prosecuzione, nascosta dietro una maschera più seriosa). Capita dunque che, al terzo anniversario del suo insediamento al Collegio Romano, il ministro dei beni culturali Dario Franceschini diffonda un documento sul sito del Ministero, il cui titolo è già tutto un programma: Cultura e turismo. Tre anni di governo. “Cultura e turismo”. Non un universalistico “cultura e cittadinanza”, un pragmatico “cultura e senso civico”, un sognante “cultura e libertà”: titoli che sarebbero stati comunque frutto d’enfasi declamatoria, ma avrebbero sortito tutt’altra impressione. No: la cultura, per Franceschini, è naturale ancella del turismo.

Cultura e turismo. Tre anni di governo
Cultura e turismo. Tre anni di governo

Ma non è certo questo il principale problema del documento di Franceschini. Se le magagne si limitassero esclusivamente al titolo, avremmo di che gioire. “Cultura e turismo. Tre anni di governo”, purtroppo, cela un rapporto denso di autoreferenzialità, vuota retorica di stampo renziano, bilanci parziali dai quali traspare una finta realtà fatta di finte rivoluzioni, di mezze verità, di azioni dovute spacciate per risultati straordinari, il tutto farcito con i soliti, patetici, stantii luoghi comuni dell’Italia luogo di “intreccio tra bellezza, arte, paesaggio e creatività”, della “cultura veicolo del made in Italy”, dell’arte che “attrae investimenti esteri”. C’è poco da aggiungere: basta sfogliare anche solo distrattamente il PDF per rendersi conto di trovarsi dinnanzi a un documento al sapore di propaganda di partito. E che il documento somigli più a un poster elettorale che a un vero bilancio appare evidente fin dal momento in cui Franceschini si scaglia contro la “visione anacronistica che contrapponeva tutela e valorizzazione”: una visione che in realtà non è mai esistita, ma che si è ben pensato di attribuire agli oppositori della linea governativa (quest’ultima responsabile, semmai, di aver inasprito tale contrapposizione).

Le sessantanove pagine che compongono il documento sono un continuo susseguirsi di pompose rivendicazioni di risultati che paiono roboanti solo a chi non ha una minima cognizione della storia dei beni culturali italiani di questi ultimi tre anni. Si comincia dal miliardo di euro per la cultura assegnato dal CIPE al Ministero: un miliardo che tuttavia sarà destinato a un numero limitato di siti (trentatré in tutto), mentre gli altri dovranno continuare ad arrabattarsi con le (poche) risorse che il Ministero destina alla tutela. Sì, certo: il bilancio del Ministero è tornato al di sopra della soglia dei 2,1 miliardi di euro, facendo segnare un’inversione di rotta rispetto ai governi precedenti, tutti caratterizzati dalla comune propensione a tagliare le risorse destinate ai beni culturali, ma nel suo documento Franceschini omette di dire che il bilancio del Ministero tornerà presumibilmente a calare nel 2017 e nel 2018. Il bilancio preventivo del triennio 2016-2018, che si può tranquillamente scaricare dal sito del MiBACT, registra sì 2.128.366.723 euro per il 2016, ma ne segna 1.754.738.237 per il 2017 e 1.654.456.618 per il 2018: si potrebbe tornare, in pratica, ai livelli del governo Monti. Essendo un bilancio di previsione è probabile che le cifre verranno poi riviste al rialzo (e Franceschini già annuncia che i 2,1 miliardi del 2016 sono “stati confermati” anche per il 2017), ma in attesa di un’ufficialità che non sia il bilancio dei tre anni di Franceschini è lecito porsi qualche dubbio.

Franceschini vanta poi come un successo il concorso per i 500 nuovi funzionari del Ministero, in realtà un misero palliativo che sarà a malapena sufficiente per coprire il turn over, mentre soprintendenze, musei, archivi e biblioteche continueranno a lavorare in situazioni di carenza di personale. Proprio sul numero di febbraio di Art e Dossier, un articolo di Fabio Isman ha illustrato efficacemente la situazione delle Gallerie Nazionali di Palazzo Barberini e Palazzo Corsini: quaranta custodi per i due musei, divisi su quarantaquattro sale (trentasei a Palazzo Barberini, otto a Palazzo Corsini), dei quali quattro non sarebbero tuttavia disponibili, e i restanti trentasei sono insufficienti per garantire l’apertura continua di tutte le sale delle due gallerie (i problemi di Palazzo Barberini, in particolare, sono annosi: ormai è quasi un privilegio poterlo visitare interamente). A proposito di musei: Franceschini presenta come una rivoluzione l’acquisita autonomia da parte di una trentina d’istituti e l’organizzazione dei restanti in poli museali regionali. Se rivoluzione c’è stata, è avvenuta in negativo: i musei, scisso il legame con le loro soprintendenze, sono stati scollegati dal loro territorio, e l’autonomia ha portato, per il momento, a riorganizzazioni discutibili (l’esempio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma è particolarmente significativo), a iniziative scriteriate (come l’addio al celibato nel cortile di Palazzo Pitti o il prestito di tredici opere della Galleria Borghese al TEFAF di Maastricht) e, in generale, ad azioni ben poco incisive, perché i problemi che stanno affrontando i nuovi “super direttori” sono gli stessi di sempre. E non si vedono drastici cambiamenti rispetto alle gestioni precedenti. Biblioteche e archivi, invece, sono semplicemente abbandonati a se stessi.

E se occorre riconoscere che l’Art Bonus è stata una delle trovate più interessanti dell’attuale ministro, lo stesso non si può dire delle domeniche gratuite che Franceschini rivendica come un successo che ha contribuito a “incrementare la frequentazione dei musei”, ma che in realtà li ha trasformati in alternative alle sagre di paese, assaltati come sono da folle smaniose di quella stessa “bellezza” propagandata dal ministro e che evidentemente, dovendo scegliere tra la “passeggiata culturale” agli Uffizi e il giretto alla festa della castagna, hanno accordato preferenza alla prima opzione. E cosa dire invece dell’accorpamento delle soprintendenze secondo la nefasta logica della “visione olistica”? Niente, se non che in realtà ha prodotto solo una grande confusione: competenze riunite, un minor numero di uffici, soprintendenti e funzionari depotenziati. E di questi problemi abbiamo parlato diffusamente su queste pagine.

Preferisco fermarmi qui e lasciare al lettore il compito di valutare il resto del manifesto franceschiniano. Se volete farvi un’idea, ci sono addirittura i link ai singoli tweet di Franceschini. Il tutto, ovviamente, senza il benché minimo cenno di autocritica: non dico che c’era da aspettarsi anche valutazioni negative da parte del ministro. Sarebbe stato piuttosto ingenuo. Ma almeno qualche frase di circostanza, del tipo “sappiamo che si può migliorare e ci impegneremo per risolvere i problemi che ancora sussistono”, o “cercheremo di garantire un’azione ancora più determinante di quella che ha caratterizzato il nostro lavoro fino a qui”... e invece, niente. È il trionfo dell’autocelebrazione. E a me, scusate, è sorto come un senso di nausea.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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