I ritratti di Lorenzo Lotto alla Pinacoteca di Brera


Alla Pinacoteca di Brera si conservano quattro ritratti di Lorenzo Lotto. Si trovano nella sala XIX, recentemente riallestita.

Il 19 aprile del 1543 Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 circa - Loreto, 1556/57) annotava, nel suo Libro di spese diverse, di aver ricevuto dal “magnifico misser Febbo da Bressa”, “per parte de li contra scrittj sua retrattj”, la cifra di “ducatj diece”, “cioè lire 60 in tanti mozanigi”. La somma che il nobile Febo Bettignoli da Brescia corrispose al pittore era un acconto di dieci ducati, pagato in “tanti mozanigi”, ovvero “tante lire mocenigo” (la moneta all’epoca in corso nella Repubblica di Venezia), per una coppia di ritratti: quello del committente, e quello di sua moglie Laura da Pola. I pagamenti si protrassero sino al 1544: in tutto, l’artista avrebbe ricevuto per i suoi servigî la somma di trenta ducati, più “un par de paoni”, un paio di pavoni. Un prezzo che non ritenne soddisfacente (“i qual denarj non paga el tempo sopra posto al’opera perso per acomodarlo”), ma che alla fine il pittore accettò onde tener fede alla parola data al suo cliente. Messer Febo da Brescia doveva comunque essere particolarmente soddisfatto del dipinto (non si spiegherebbe altrimenti l’aggiunta dei due pavoni regalati all’artista), e ne aveva ben donde, perché possiamo asserire senz’ombra di dubbio che la coppia costituisce uno dei punti più alti della ritrattistica di Lorenzo Lotto. E tale valore è per giunta sottolineato dalla loro posizione centrale nel nuovo allestimento della sala XIX della Pinacoteca di Brera, il museo che accolse i ritratti nel 1860, quando Vittorio Emanuele II li acquistò (assieme al ritratto noto come il Gentiluomo coi guanti, del quale si dirà più sotto) dall’ultimo proprietario, il conte torinese Castellane Harrach, per farne dono all’Accademia milanese. Si può con certo margine di sicurezza affermare che, in tutta la loro storia, mai i due quadri sono stati separati: registrati in coppia sin dal primo inventario dei beni della famiglia Pola, che rimonta al 1596, si mostrano assieme anche adesso, sulla stessa parete, nella grande pinacoteca milanese.

Lorenzo Lotto, i ritratti di Febo da Brescia e Laura da Pola
Lorenzo Lotto, i ritratti di Febo da Brescia e Laura da Pola


Tutti i ritratti di Lorenzo Lotto della Pinacoteca di Brera
Tutti i ritratti di Lorenzo Lotto della Pinacoteca di Brera

Sono ritratti estremamente comunicativi, oltre che molto veritieri (e nella capacità di aderire al soggetto, forse Lorenzo Lotto è stato il più grande ritrattista del Cinquecento) e curati con sapienza ed eleganza, tanto che uno storico dell’arte nonché fine conoscitore come Gustavo Frizzoni riteneva che i tre ritratti “milanesi” rappresentassero il vertice della ritrattistica lottesca: “dove l’artista, in siffatto genere di pittura, sembra aver raggiunto la maggiore finezza ed il migliore equilibrio delle sue forze si è nelle tre effigie che, per munificenza di Vittorio Emanuele II, pervennero circa una trentina d’anni orsono nella Pinacoteca di Brera”. E più o meno dello stesso avviso era il grande Bernard Berenson, lo studioso che, nel 1895 (e quindi un anno prima che Frizzoni redigesse il proprio commento), era riuscito per primo a ricondurre i due dipinti di Brera alle note appuntate da Lotto nel Libro di spese diverse: in quel corposo saggio, intitolato Lorenzo Lotto: an essay in constructive art criticism e interamente dedicato all’artista veneto, Berenson aveva scritto che “entrambi i ritratti sono eseguiti con capacità e maestria, con delicatezza di luci e ombre, e con una sottile fusione di toni, qualità che li collocano in una nicchia a sé stante nell’ambito della produzione di Lotto”. E anche per Berenson, “il loro unico rivale”, benché lo ritenesse “a loro superiore”, era “il ritratto che si trova in mezzo a loro a Brera, che è, morfologicamente e tecnicamente, così simile a loro da far sì che l’appartenenza di tutti e tre i dipinti allo stesso periodo possa esser data per certa”. Peraltro oggi, fortunatamente, il “rivale” è stato spostato, e i ritratti di marito e moglie si mostrano affiancati senz’alcun “terzo incomodo” a interporsi.

Val la pena di osservare i dipinti più da vicino onde comprendere i motivi che portarono Frizzoni e Berenson a parlare di finezza, equilibrio, maestria, delicatezza. Il ritratto di Febo Bettignoli, membro di un’illustre famiglia di origine bresciana che s’era però da tempo trasferita a Treviso ed era divenuta parte della nobiltà cittadina (giova ricordare come i soggetti preferiti di Lorenzo Lotto, nonché probabilmente i maggiori a cui poteva aspirare data la sua carriera artistica tormentata, fossero proprio i signori delle piccole nobiltà locali), ci appare in tutta la sua austera eleganza: il nero è il tradizionale colore della sobrietà nell’abbigliamento, ma tale scelta nel vestire non impedisce a Febo Bettignoli di palesare il proprio status attraverso la ricca fodera di pelliccia del soprabito (che denota una resa materica che fa a gara con quella di Tiziano), i ricami dei polsini della camicia, l’anello alla mano destra e la fede che invece adorna la sinistra. Proprio nella mano sinistra, tra l’altro, il catalogo della grande mostra su Lorenzo Lotto tenutasi al Palazzo Ducale di Venezia nel 1953, individuava un “pezzo di straordinaria pittura”: e non è difficile comprenderne il perché, se si osservano il mirabile modellato, la tensione delle vene e delle cartilagini nel gesto di trattenere i guanti, il movimento naturale e bilanciato. Ma notevole è anche il brano della mano destra che con deciso piglio tiene fermo il candido fazzoletto che, esattamente come i guanti di pelle, simboleggia l’altero distacco del signore dalle brutture del mondo esterno (ma potrebbe anche trattarsi d’un rimando al matrimonio: il guanto è simbolo coniugale, mentre il fazzoletto ricamato potrebbe appartenere alla moglie).

Lorenzo Lotto, Ritratto di Febo Bettignoli da Brescia
Lorenzo Lotto, Ritratto di Febo Bettignoli da Brescia (1543-1544; olio su tela, 90,5 x 75,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)

Se l’atteggiamento e lo sguardo di messer Febo denotano simultaneamente signorile sicurezza e misurata compostezza, il ritratto di Laura da Pola si concede qualche vezzosa licenza in più, non foss’altro per il fatto che più sciolta appare la sua posa e più marcato il suo desiderio di mostrare all’osservatore gli agî che i Bettignoli e i Pola potevano vantare, pur senza cadere in una disinibita ostentazione che mal si sarebbe accordata con l’eleganza che si riteneva propria di una famiglia altolocata: l’esibizione della collana di perle, dell’abito in velluto decorato con un motivo a rombi neri, del vanitoso ventaglio in piume di struzzo con catenella d’oro (invero l’unico oggetto del tutto frivolo che Laura da Pola reca con sé: ma il suo uso era invalso al tempo in certi ambienti), del prezioso coprispalla decorato, così come la fascia che la donna porta in capo, con motivi floreali, della catena che le stringe la vita e degli anelli gemmati è funzionale a comunicare all’osservatore la propria appartenenza a una delle famiglie più in vista della sua città. Non sono questi tuttavia i soli dettagli a cui prestare attenzione. Ci sono i tendaggi, verdi e rossi, cui spetta il compito di creare un’ambientazione intima e familiare. C’è il mobile, un inginocchiatoio, che assolve alla stessa funzione e ci consente di identificare il locale come una camera da letto. C’è il libro che Laura da Pola reca nella sua curatissima mano affusolata: un libro di preghiere, forse, dato che la giovane s’appoggia all’inginocchiatoio. O un libro di poesie, considerato l’indubbio tenore mondano del dipinto. E poi c’è lo sguardo di questa ragazza colta nel fiore dei suoi ventitré anni. Uno sguardo fisso, quasi perso, che non incontra quello dell’osservatore. Uno sguardo profondamente diverso rispetto a quello del marito. Laura da Pola è con tutta evidenza assorta nei proprî pensieri: si avverte una sorta di dissidio tra il volto della ragazza e gli oggetti di cui s’è adornata, un dissidio che rende palesi tanto l’umanità di una ragazza andata in sposa a un uomo che aveva quasi il doppio dei suoi anni (era di diciassette anni più anziano) quanto la superba capacità d’introspezione psicologica propria di Lorenzo Lotto.

Lorenzo Lotto, Ritratto di Laura da Pola
Lorenzo Lotto, Ritratto di Laura da Pola (1543-1544; olio su tela, 90 x 75 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)

S’è detto sopra di come, in passato, tra i ritratti dei due coniugi si frapponesse un altro dipinto di enorme pregio: il summenzionato Gentiluomo coi guanti, che oggi vediamo a fianco di Laura da Pola. Di conseguenza, l’ultima parte della sua storia continua a essere legata a quella dei ritratti dei due nobili trevigiani. Pur essendo un dipinto firmato (esattamente come i ritratti di Febo da Brescia e consorte), non sappiamo in che occasione fu eseguito, né sappiamo con certezza chi sia l’effigiato. Sappiamo solo che si trovava in casa del conte Castellane Harrach quando Vittorio Emanuele II lo comperò. Tuttavia, possiamo avanzare congetture sull’identità: nel 1908 lo storico dell’arte Francesco Malaguzzi Valeri, nel compilare il suo catalogo della Pinacoteca di Brera, propose di identificare il Gentiluomo coi bianchi con quel “Liberal da Pinedel” che Lorenzo Lotto citava nel Libro di spese diverse (“Die dar misser Liberal da Pinedel per un suo retratto di naturale del qual non fu fatto alcun precio, ma starmi a quelle honestà che porta un gentiluomo, fornito el quadro valse a boni pretii ducati 20”). Da allora sono stati pochi i motivi per mettere in discussione l’identificazione proposta da Malaguzzi Valeri (uno su tutti, l’età di Liberale da Pinedel, che avrebbe dovuto avere quarantott’anni all’epoca del ritratto), ma neppure sono emerse ulteriori prove a sostegno: di conseguenza oggigiorno, con la solita cautela che contraddistingue l’azione degli studiosi in casi del genere, siamo portati ad accettare in via dubitativa il fatto che il vecchio signore possa essere il Liberale da Pinidello (se si ammette che “Pinedel” sia il termine che in veneto designa il borgo nei pressi di Conegliano) di cui si parla nelle note del pittore.

“È il più sottile di tutti i ritratti di Lotto per caratterizzazione e, considerandolo meramente sul piano tecnico, è il suo più alto risultato”: così ne parlava Berenson nel succitato saggio sull’artista. Gli studiosi da sempre ammirano l’estrema veridicità e la grande intensità di questo volto dipinto tramite finissimi passaggi tonali, che esaltano l’espressione malinconica di quest’uomo dalla fulva barba: sembra quasi che l’artista abbia sviluppato un’empatia tale da penetrare la mente del personaggio e da immedesimarsi nei suoi pensieri, probabilmente poco felici. Questa capacità di leggere l’animo del soggetto fa quasi passare in secondo piano l’abilità con cui l’artista rende le nere vesti di quest’uomo abbigliato in modo ancor più sobrio dei due giovani nobili con cui a Brera condivide la parete (ci appare infatti intabarrato in un ampio soprabito nero ricamato sui baveri: gli unici preziosi sono l’anello all’indice e la catenella d’oro) e che stringe tra le mani gli stessi oggetti con cui Febo da Brescia era stato ritratto: ancora, il fazzoletto bianco ricamato e i guanti di pelle.

Lorenzo Lotto, Gentiluomo coi guanti (Ritratto di Liberale da Pinedel?)
Lorenzo Lotto, Gentiluomo coi guanti (Ritratto di Liberale da Pinedel?) (1543?; olio su tela, 90 x 75 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)

La Pinacoteca di Brera accoglie un ulteriore ritratto eseguito dalla mano di Lorenzo Lotto. Si tratta però dell’unico per il quale risulta arduo anche solo formulare un’ipotesi identificativa. È un Ritratto di gentiluomo che con gli altri tre quadri braidensi condivide da un lato l’austerità e la composta misura (anche qui abbiamo a che fare con un personaggio interamente vestito di nero) e dall’altro la vicinanza tecnica e stilistica, tanto che s’è pensato potesse trattarsi di un’opera realizzata più o meno nello stesso periodo, ovvero a metà degli anni Quaranta del Cinquecento. Se così fosse, cadrebbe tuttavia l’unica proposta avanzata per dare un nome al personaggio: potrebbe infatti trattarsi, almeno secondo Mauro Lucco che per primo, di recente, ha formulato l’ipotesi, di Giovanni Taurini da Montepulciano, ancora un notabile menzionato nel Libro di spese diverse (“die dar el signor vice gerente de Ancona misser Joanni Taurino de Montepulzano per un quadro de suo ritrato di naturale dal mezo in suso, a tuta mia spesa tella, telar e colorj. valse almancho scuti dodece”). Si trattava di un membro dell’entourage di Vincenzo de’ Nobili, che era nipote di papa Giulio III e che per lo Stato Pontificio ricopriva la carica di governatore di Ancona. Se dovessimo accettare l’idea di Lucco, dovremmo però posticipare la datazione, dato che nel Libro di spese diverse si parla di un’opera eseguita nel 1550.

L’oggetto che il personaggio impugna nella mano sinistra (sembra il pomello d’una spada) potrebbe simboleggiare la sua carica politica (Giovanni Taurini era vicegovernatore), ma non possiamo stabilirlo con certezza: troppo vaghi i riferimenti. E parimenti vago è il gesto della mano destra che indica qualcosa al di fuori del quadro: non abbiamo alcuna idea di cosa l’uomo stia indicando. Anche qui, abbiamo un accurato studio dell’espressione, che denota fermezza e, anche in virtù della gestualità accentuata, si pone in diretto dialogo con l’osservatore. Questa capacità di compenetrazione è, del resto, quanto mancava a Tiziano, che aveva sì rinnovato la tipologia del ritratto ufficiale (e qui Lorenzo Lotto dimostra d’adeguarsi, riprendendo il tipo del ritratto d’in piedi che il cadorino aveva inaugurato) ma deficitava del livello d’immedesimazione che contraddistinse la ritrattistica lottesca.

Lorenzo Lotto, Ritratto di gentiluomo
Lorenzo Lotto, Ritratto di gentiluomo (quinto decennio del XVI secolo; olio su tela; 115 x 98 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)

Ai quattro dipinti di cui s’è detto, fino all’11 giugno 2017 s’affianca in esposizione nella sala XIX della Pinacoteca un ulteriore ritratto di Lorenzo Lotto, che giunge in prestito dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia per il “dialogo” Attorno a lotto che si tiene in occasione del riallestimento della sala. Si tratta del Ritratto di gentiluomo di casa Rovero, così detto in quanto presente, fino al 1923, nelle raccolte della famiglia Rovero di Treviso, e poiché sono documentati i rapporti tra Lorenzo Lotto e un Alvise appartenente alla famiglia, s’è pensato che l’effigiato possa essere un membro del casato, benché non possiamo con certezza asserire quale sia. Si tratta, ad ogni modo, di un’opera inusuale: sia per il formato scelto (orizzontale invece del più tipico formato verticale), sia per i tanti oggetti che affollano la scena, sia per i simbolismi che si celerebbero dietro l’opera. Si legge ancora negli occhi del giovane un lieve senso di malinconia, che s’è voluto mettere in relazione con quanto compare in quello che evidentemente sembra essere il suo studio: l’abbandono di una vita d’eccessi, una delusione amorosa, o semplicemente una particolare inclinazione caratteriale. Si tratta d’un dipinto che la critica ha datato a un periodo antecedente rispetto a quello in cui furono eseguiti i ritratti braidensi (si parla del 1530-1532 circa), ma non per questo meno efficace nella resa psicologica del soggetto e nell’efficace delineamento di una “biografia intima” del soggetto (così secondo Maria Cristina Passoni, curatrice di Attorno a Lotto assieme a Francesco Frangi): un dialogo che si rende dunque particolarmente denso e puntuale.

Lorenzo Lotto, Ritratto di gentiluomo di casa Rovero
Lorenzo Lotto, Ritratto di gentiluomo di casa Rovero (1530-1532 circa; olio su tela, 97 x 110 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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