Elogio della bellezza: venti capolavori per celebrare uno dei musei più belli d'Italia


Recensione della mostra 'L'elogio della bellezza' al Museo Lia (La Spezia) fino al 25 giugno 2017.

In che modo si potrebbe integrare la raccolta che l’ingegnere Amedeo Lia, fine e appassionato collezionista d’arte, donò nella sua interezza al Comune della Spezia nel 1995 permettendo alla città di aprire il ricco Museo che oggi porta il suo nome? A questa domanda si propone di rispondere la mostra L’elogio della bellezza, che porta nella città ligure venti dipinti da altrettanti musei in una sorta di continuazione ideale dell’opera che consentì a Lia di radunare una delle più importanti collezioni private a livello europeo, nonché probabilmente la principale per i fondi oro, che costituirono forse la sua “fissazione” più costante e preziosa. Il tutto per celebrare, seppur con qualche mese di ritardo, il ventennale dell’apertura del Museo Lia, che cominciava ad accogliere il pubblico il 3 dicembre del 1996. Certo: si potrebbe rimproverare ai curatori, Andrea Marmori e Francesca Giorgi, il fatto d’aver scelto un titolo che include quel termine, “bellezza”, così tanto abusato ai giorni nostri (e quanto più d’un termine s’abusa, tanto più si dovrebbe profondere cautela nell’utilizzarlo). Ché più che di bellezza, sostantivo che significa al contempo tutto e niente, si potrebbe parlare d’intuito, passione, preparazione, intelligenza, lungimiranza. Beh, pazienza: si concederà una deroga alle ragioni del marketing.

Una deroga che, comunque, si concederà ben volentieri, perché non ci troviamo dinnanzi a una vacua celebrazione, bensì di fronte a un’operazione meritoria, che intanto riscatta il Museo Lia da un paio di mostre invero un poco deludenti che si sono succedute negli ultimi tempi, poi perché aiuta il visitatore a familiarizzare con la figura d’un collezionista che volle donare alla propria città d’adozione la sua raccolta onde evitarne un’eventuale futura dispersione (e soprattutto onde rendere i concittadini partecipi dei suoi successi, obiettivo degno d’ogni imprenditore illuminato), e infine perché le “integrazioni” non solo denotano quelle “assonanze” con i lavori della collezione Lia alle quali i curatori miravano, ma sono anche ben calate nel contesto dello spazio museale che le ospita, quasi che i pannelli approntati per accoglierle non aspettassero altro che loro. “Ospiti di qualità e di famiglia”, dunque, disseminati lungo un percorso che viene proposto al visitatore da una prospettiva inedita: per l’Elogio della bellezza, infatti, si entra dallo scalone dell’ex convento dei frati di San Francesco da Paola, il luogo che il comune elesse nel 1995 a sede del Museo Amedeo Lia, e si giunge direttamente nella sala dei fondi oro passando attraverso l’antiquarium archeologico (si saltano dunque le sale del pianterreno, quelle che ospitano gli oggetti liturgici e le miniature: le attraverseremo prima di uscire).

Quasi tutta una parete, quella di fondo della sala IV, è dedicata ai cinque Santi (Francesco, Tommaso, Caterina, Girolamo e Luigi di Tolosa) di Neri di Bicci (Firenze, 1418/1420 - 1492) in arrivo dalla Galleria dell’Accademia di Firenze: l’opera si staglia su di un lungo pannello anch’esso dorato (grande attenzione è dedicata ai colori degli allestimenti che richiamano le caratteristiche delle opere o dei periodi a cui si riferiscono) e, mostrando una stretta adesione alla maniera del padre Bicci di Lorenzo, ci introduce alla sala successiva, la quinta, quella del Quattrocento. Vi troviamo, oltre al San Girolamo dello stesso Bicci di Lorenzo (ma l’attribuzione è disputata: potrebbe trattarsi di un’opera del giovane Masaccio), dipinti che attestano il passaggio dal tardogotico al Rinascimento, con particolare riferimento alla Toscana e al Nord Italia: uno scomparto di predella con Sposalizio della Vergine del Beato Angelico (Firenze, 1395 circa - Roma 1455) arricchisce le testimonianze di tale fase di transizione, mentre a “cose già fatte” sono calate due splendide tavole di Ambrogio da Fossano detto il Bergognone (Fossano, 1453 - 1523), una sant’Agata e una santa Lucia (da notare, in quest’ultima, il singolare dettaglio degli occhi infilati in una sorta di spiedino) un tempo parti del Polittico di san Bartolomeo e oggi conservate all’Accademia Carrara di Bergamo. Sono su pannelli azzurri, come il cielo che nel Rinascimento prende il posto del fondo oro, e a loro è affidato il compito di dialogare proficuamente con un san Giuseppe sito in loco e anch’esso, come le due sante bergamasche, assegnato alle fasi avanzate della carriera dell’artista.

La sala dei fondi oro
La sala dei fondi oro


Neri di Bicci, Santi
Neri di Bicci, Santi (1444-1453 circa; tempera su tavola, 130 x 89 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia)


Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Santa Lucia
Ambrogio da Fossano detto il Bergognone, Santa Lucia (1500-1520 circa; tempera su tavola, 60 x 55 cm; Bergamo, Accademia Carrara)

Entrando nella sala del Cinquecento si trovano quelli che con tutta probabilità sono i prestiti più interessanti dell’esposizione. Tra le due opere di Sebastiano del Piombo della collezione permanente, la Nascita e la Morte di Adone, fa la propria comparsa un’Adorazione dei pastori di Jacopo Bassano (Bassano del Grappa, 1510 circa – 1592) che completa la parete dedicata al Veneto, mentre su quella contigua, riservata agli emiliani, compare una sontuosa opera di Dosso Dossi (San Giovanni del Dosso, 1474 – Ferrara, 1542) proveniente dalla Galleria Borghese di Roma, una Diana e Callisto che raffigura il momento topico dell’episodio mitologico (la scoperta delle nudità di Callisto da parte di Diana) e che trasporta l’osservatore in una dimensione pressoché onirica, con quest’apertura paesaggistica che prosegue idealmente quella dei pittori veneti. Particolarmente intenso (anche perché allestito in una saletta gettata nella penombra) il confronto tra l’Autoritratto del Pontormo (Pontorme di Empoli, 1494 - Firenze, 1557) appartenente alla collezione permanente e il disegno proveniente dal Museo Horne di Firenze, un altro Autoritratto del capofila del manierismo fiorentino: la spontaneità con la quale l’artista s’è disegnato, pensoso e malinconico, è la stessa che ritroviamo nel dipinto, l’ultimo acquisto della raccolta di Lia.

La sala del Cinquecento
La sala del Cinquecento


Dosso Dossi, Diana e Callisto
Dosso Dossi, Diana e Callisto (1529-1530 circa; olio su tela, 49 x 61 cm; Roma, Galleria Borghese)


Jacopo Bassano, Adorazione dei Pastori
Jacopo Bassano, Adorazione dei Pastori (1545 circa; olio su tela, 93 x 140 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia)


Pontormo, Autoritratto
Pontormo, Autoritratto (1530-1532; matita rossa su carta bianca tinteggiata in rosa, 12,1 x 8,2 cm; Firenze, Museo Horne)

Lasciandosi alle spalle il Cinquecento con un altro prestito d’eccezione, il Compianto sul Cristo morto del Bramantino (Milano, 1465 ca. - 1530) proveniente dal Castello Sforzesco, si arriva al corridoio del Seicento dove ampio spazio viene dato all’arte dell’età della Controriforma: i patetismi religiosi e le inquietudini del tempo, che trovano invero poco spazio nella collezione permanente, vengono evocati da tre opere. Si tratta d’una santa Chiara di Panfilo Nuvolone (Cremona, 1581 – Milano, 27 ottobre 1651) e soprattutto di un piccolo Cristo crocifisso di Annibale Carracci (Bologna, 1560 - Roma, 1609) e di una Madonna col Bambino di Ludovico Carracci (Bologna, 1555 - Roma, 1619). Sono in particolare le opere dei due cugini bolognesi che colpiscono l’osservatore e invitano a riflettere sulle due “anime” dell’arte della Controriforma: la meditazione sul dolore indotta dal Cristo che soffre sulla croce che si staglia su di un cielo cupo, e la vicinanza al fedele del pantheon cristiano raffigurato in tutta la sua umanità, che nel dipinto di Ludovico si sostanzia in un Bambino che smanaccia e si lancia verso una rosa che la madre agita per farlo giocare. La mostra prosegue poi con opere di Guercino, Giulio Cesare Procaccini e, al piano superiore, una natura morta di Chardin che si misura con gli analoghi dipinti della sala XIII, un Clemente X in bronzo, del Bernini, ad arricchire la sala dei bronzi e dei marmi, e una Madonna di Matteo Civitali. Si scende e si giunge quindi al piano terra per la conclusione nelle sale delle miniature e degli oggetti liturgici.

Il corridoio del Seicento
Il corridoio del Seicento


Annibale Carracci, Cristo crocifisso
Annibale Carracci, Cristo crocifisso (1594 circa; olio su tela, 33,8 x 23,4 cm, Berlino, Gemäldegalerie)


Ludovico Carracci, Madonna col Bambino
Ludovico Carracci, Madonna col Bambino (olio su tela, diametro 114 cm; Roma, Pinacoteca Capitolina)

Si sarebbe potuta corredare l’esposizione di un efficace apparato didascalico che potesse illustrare le scelte dei curatori e aiutasse a meglio contestualizzare i prestiti nel contesto espositivo: sotto questo aspetto la mostra si è rivelata carente. Ciò nonostante, l’operazione è da salutare positivamente, anche per un altro aspetto, oltre a quelli sopra elencati: si tratta di un’esposizione che afferma il ruolo del Museo Lia come grande protagonista europeo, al centro di reti di collaborazioni con altri istituti museali che hanno spesso fatto segnare il nome del Lia nell’albo dei prestatori di importanti rassegne anche di livello internazionale, oppure lo hanno visto sostenere progetti di varia natura, o ancora che hanno visto il suo direttore, Andrea Marmori, far parte di comitati scientifici di notevole spessore. Ancora, i prestiti selezionati hanno il merito di sottolineare il gusto e le principali passioni artistiche di Amedeo Lia: spazio dunque ai fondi oro, come già detto, ma anche ai piccoli oggetti d’arte antica, ai codici medievali, alla pittura del Seicento. Manca giusto il vedutismo settecentesco, genere che abbonda nella raccolta di Lia e al quale è dedicata un’intera sala del museo.

Non una mostra usuale, quindi. E, se vogliamo, neanche una mostra facile, ma proprio questa sua caratteristica segna un punto a favore: ci induce a percorrere le sale del Lia più che mai con gli occhi del collezionista che volle raccogliere pezzi di eccezionale valore e poi farne dono alla città. Ci sprona a percorrere lentamente le sale del museo, a pensare a quali furono le scelte che dettarono l’acquisto di un dipinto, di una scultura, di un oggetto liturgico, se Lia avesse mai pensato di completare certe parti della collezione o se gli fossero sembrate bastevoli, se ci fossero autori che l’ingegnere volle fortemente per la propria raccolta e che non riuscì mai a raggiungere. Risposte che spesso giungono dai dipinti stessi, celate tra le pieghe d’una veste, dietro la decorazione d’un fondo oro, tra gli oggetti sparsi sopra un tavolo d’una natura morta, negli sguardi di un personaggio. E altrettanto spesso arrivano dalle affinità e dai contrasti con i dipinti della collezione permanente del Museo Lia che, con l’Elogio della bellezza, raggiunge probabilmente uno degli apici della sua breve ma già intensa storia.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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