Dal ministro dei beni culturali Franceschini un appello all'unità alquanto tardivo


Il ministro dei beni culturali, Dario Franceschini, lancia al PD un appello all'unità. Proprio quella che è mancata durante la sua guida al ministero.

“Il PD è nato per unire, per superare le divisioni”. A scandire quest’affermazione è stato il ministro dei beni culturali, Dario Franceschini, in un’intervista pubblicata ieri su Repubblica. L’appello all’unità, alquanto tardivo, giunge all’indomani della disfatta dei dem alle ultime elezioni amministrative, ma soprattutto giunge quando ormai l’unità auspicata assume le sembianze d’una chimera piuttosto che quelle d’un vero obiettivo da perseguire: il PD, che non è mai stato veramente unito ma che, semmai, s’è sempre mostrato come la traballante somma d’una serie di correnti più o meno piccole tenute assieme, soprattutto dopo l’ascesa di Matteo Renzi, da un leader di forte impatto politico e mediatico, è giunto a identificarsi quasi totalmente nella figura del suo segretario, e le fratture interne, rivelatesi in tutta la loro gravità a seguito dell’ultima tornata elettorale, appaiono quanto mai insanabili.

Franceschini e Renzi
Dario Franceschini e Matteo Renzi. Foto di Formiche.net

Tuttavia, restringendo la visione al settore che interessa da vicino il nostro giornale, l’affermazione secondo la quale il PD sia nato per unire cozza tremendamente con i risultati conseguiti dal triennio di Franceschini alla guida del dicastero preposto alla cultura, nell’ambito dell’azione di governo condotta dal PD renziano. Non mi sento di affibbiare a Dario Franceschini, com’è già stato fatto da altri, l’etichetta di “peggior ministro della cultura” che il paese abbia mai conosciuto (ricordiamo che, soltanto negli ultimi anni, abbiamo potuto malauguratamente saggiare la passività di Bondi, l’inconsistenza di Galan e l’immobilismo di Ornaghi, il trio che, secondo Settis, nella Firenze del Quattrocento “avrebbe insabbiato il Rinascimento”), ma certo è realistico affermare che la sua condotta e financo il suo atteggiamento abbiano rincorso qualsiasi scopo eccetto quello di superare le divisioni che, anzi, da tre anni a questa parte si sono terribilmente acuite.

I nuovi direttori dei musei, direttamente nominati dal ministro, in molti casi hanno gestito i loro istituti nel segno d’un forte decisionismo fino a prima pressoché sconosciuto (si pensi alla Galleria Nazionale di Roma, dove il nuovo corso del museo ha addirittura comportato una raffica di dimissioni nel comitato scientifico): abbiamo assistito a notevoli cambî di direzione, a stravolgimenti degli assetti museali, a risultati peraltro spesso confortanti (penso, in particolare, alla Pinacoteca di Brera che sta raggiungendo standard di altissimo livello negli allestimenti, nella comunicazione, nell’offerta al pubblico e agli studiosi), ma l’avvicendamento alla guida dei musei ha anche dato vita a una nettissima contrapposizione tra le sfere più alte del ministero e la base, che s’è sentita sminuita e delegittimata. E il ministro non ha avvertito la necessità di fare qualcosa per appianare le divergenze.

Anzi: non sono mancate le occasioni di tensione. Penso, per esempio, a tutte le volte in cui i lavoratori dei musei e dei siti archeologici hanno indetto assemblee sindacali o scioperi. Sempre nel pieno rispetto della normativa vigente, sempre con comunicazioni diramate nei tempi previsti dalla legge, sempre tenendo chiuse le porte degli istituti per poche ore. E di sicuro per durate inferiori rispetto a quelle che in molti casi si sono rese necessarie per preparare gli allestimenti delle sale dei musei pubblici designati per accogliere festini privati. I vertici del governo hanno però sempre stigmatizzato le legittime rimostranze dei lavoratori, tanto da arrivare a far rientrare l’attività dei luoghi della cultura, con apposito decreto legge composto da un unico articolo, nell’ambito dei servizi pubblici essenziali: una mossa che è stata vista più come un tentativo di ostacolare i lavoratori, che come una misura mirata a garantire ai cittadini un servizio efficiente e puntuale.

E cosa dire poi delle Soprintendenze, principale assillo di Renzi, che hanno subito accorpamenti scriteriati e paradossali riorganizzazioni atte spesso a contrastare misure promosse da altri esponenti del consiglio dei ministri, come quella sul silenzio-assenso introdotta dalla legge Madia, che ha fornito un lampante esempio di divisioni in seno al governo stesso? E come non menzionare i dissidî con le nuove leve, alle quali è stato proposto soltanto un concorso da cinquecento assunzioni, insufficiente persino a coprire il turn over, o tutt’al più qualche bando per posti di lavoro precarî, spesso celati dietro la maschera del volontariato?

La XVII legislatura, che s’avvia ormai verso le fasi conclusive, limitatamente ai beni culturali lascerà dietro le proprie spalle sicuramente dei buoni risultati, ma anche un ministero diviso come probabilmente mai lo era stato prima, con tecnici e funzionarî che lamentano di continuo la mancanza d’ascolto da parte della dirigenza, con la tutela ridotta ormai all’osso e lasciata in mano a soprintendenze drasticamente depotenziate e ormai non più in grado di svolgere azioni capillari a presidio dei loro territori, con risorse economiche di poco più alte rispetto ai livelli del ministero di Bondi, con i giovani che escono dalle università che hanno perso gran parte della loro fiducia, con un personale dall’età media esageratamente elevata che appare stanco e demotivato. Certo: se la cultura, negli ultimi anni, avesse veramente cercato quell’unità alla quale adesso si fa appello in vista delle imminenti elezioni politiche, forse adesso staremmo raccontando una storia diversa.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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