Milano, il bello di essere cool-turali: la sfida di una città-stato del futuro. Parla Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura


Intervista all'Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo Del Corno, sulle politiche culturali di Milano che negli ultimi anni hanno ulteriormente accresciuto il prestigio internazionale della città e il suo ruolo da protagonista dell'arte, contemporanea e non solo.

Milano è riconosciuta come la capitale economica d’Italia, e da qualche anno a questa parte intende anche assumere il ruolo di capitale culturale. Non solo: nell’ultimo decennio, il prestigio internazionale di Milano ha conosciuto una crescita notevole, e nell’ambito dei processi di trasformazione economica, sociale e urbanistica, le politiche culturali hanno giocato un ruolo fondamentale. Milano ha saputo comprendere che un discorso ampio sulla cultura può avere effetti benefici sulla città tutta, e che la cultura è una leva fondamentale per lo sviluppo di una città. Centro di caratura europea per l’arte contemporanea, città multiculturale e aperta al mondo, luogo che attrae un turismo nuovo: di tutti questi argomenti abbiamo parlato con l’Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Filippo Del Corno. Intervista condotta da Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.

Filippo Del Corno (Milano, 1970) è dal 2013 Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Diplomatosi nel 1995 in Composizione al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, svolge il mestiere di compositore fin dal 1990, e le sue composizioni sono sempre presenti nei più importanti festival e teatri internazionali. Da dicembre 1997 insegna Composizione: prima a Torino, Parma e Pesaro, quindi a Trieste e poi ancora a Milano. Ha insegnato anche Economia delle Arti e della Cultura all'Università Bocconi dal 2001 al 2007 e, dal 1999 al 2008, ha ideato e condotto programmi di approfondimento musicale e culturale per RAI-Radio3.
Filippo Del Corno (Milano, 1970) è dal 2013 Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Diplomatosi nel 1995 in Composizione al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, svolge il mestiere di compositore fin dal 1990, e le sue composizioni sono sempre presenti nei più importanti festival e teatri internazionali. Da dicembre 1997 insegna Composizione: prima a Torino, Parma e Pesaro, quindi a Trieste e poi ancora a Milano. Ha insegnato anche Economia delle Arti e della Cultura all’Università Bocconi dal 2001 al 2007 e, dal 1999 al 2008, ha ideato e condotto programmi di approfondimento musicale e culturale per RAI-Radio3.

FG. Possiamo cominciare ricordando come l’Anno Europeo del Patrimonio 2018 sia stato lanciato proprio a Milano. Un importante riconoscimento che, direi, certifica in maniera inequivocabile come Milano si sia ritagliata, in ambito culturale ma anche economico e sociale, un ruolo da protagonista di primo livello in Europa, al pari di capitali come Parigi, Londra, o Berlino. Milano è in sostanza tornata un centro culturale di livello internazionale. Come ci siete riusciti?

FDC. Innanzitutto ci è riuscita la città intera: credo che il merito di questo processo non sia ascrivibile esclusivamente all’amministrazione, ma sia un merito complessivo che la città ha raggiunto. Devo dire che un punto di partenza abbastanza importante è stato il piano strategico per lo sviluppo della cultura in città che, appena insediato, ho delineato nel 2013: nel piano ho individuato tre assi fondamentali di sviluppo attorno alle quali si è progressivamente costruito il percorso di questo sviluppo culturale della città. Le assi rimangono ancora adesso, perché ritengo che questo piano strategico sia ancora in pieno svolgimento: la prima asse è l’aumento dell’offerta culturale dal punto di vista qualitativo e quantitativo, intendendo con questo il fatto che davvero la crescita di una città si può misurare sullo spessore ma anche sulla massa critica della sua offerta culturale. Il secondo tema era quello dell’incremento del patrimonio cognitivo come fattore essenziale di sviluppo economico e sociale di una comunità, quindi pensare a una sempre più larga diffusione e accessibilità della cultura cittadina anche come fattore fondante di sviluppo economico e sociale. Il terzo elemento di sviluppo era basato sul principio della creazione di reti di collaborazione e di rapporto tra soggetti pubblici e soggetti privati: un’alleanza, un patto tra pubblico e privato per lo sviluppo culturale della città. Attorno a queste tre assi del piano strategico sono accaduti, talvolta diretti dall’amministrazione e in molti altri casi in forma invece assolutamente spontanea, diversi fatti che hanno determinato una crescita complessiva davvero importante e significativa, che a sua volta ha comportato sia il riposizionamento di Milano, non solo dal punto di vista squisitamente statistico, tra le prime città europee per quanto riguarda la sua capacità di offerta e di produzione culturale, sia un nuovo e rinnovato sentimento di fiducia che la città ha nella cultura come elemento di sviluppo.

Infatti, e rimango ancora nell’ambito dell’Anno Europeo del Patrimonio, uno degli obiettivi di questa iniziativa è quello di sensibilizzare i cittadini europei in merito all’importanza anche sociale ed economica di un grande patrimonio culturale condiviso. Da anni Milano punta sulla cultura dimostrando che la cultura genera ricchezza, non soltanto materiale. Si tratta però di una sfida alquanto difficile, soprattutto in un momento storico in cui ci sono forze che, di fatto, ostacolano questo processo di riconoscimento del valore della cultura. In che modo la si può affrontare?

Credo che innanzitutto si debba avere, sempre di più, un approccio analitico: si deve non soltanto pensare in maniera fideistica, solo basandosi sull’assunto che la cultura può essere uno straordinario volano di sviluppo sociale ed economico, ma è necessario affinare i propri strumenti analitici per dimostrare la fondatezza reale e concreta di quello che altrimenti potrebbe sembrare solo un postulato teorico. Io credo che, da questo punto di vista, una responsabilità grossa che Milano deve assumere con un po’ più di forza e di rilevanza sia quella di essere anche leader nella capacità di innovazione, utilizzando strumenti analitici appropriati che possano dimostrare e suffragare l’affermazione che prima ho fatto e che è ampiamente condivisa. Il secondo punto è quello di riconoscere quello che è l’effettivo perimetro di azione della leva culturale, che non è soltanto quella dei punti di Pil, misurabili, connessi alla produzione e all’offerta culturale, ma costituisce il tema, per me più profondo, del patrimonio cognitivo. La capacità di far accrescere la propria comunità grazie all’acquisizione di strumenti di conoscenza del reale, e dunque la capacità di dotarla di maggiori capacità di lettura del mondo che ci circonda, determina condizioni favorevoli per lo sviluppo. Quindi bisogna pensare che il capitale sociale di un investimento culturale è duplice: da un lato c’è quello concreto, reale e materiale che sta nel valore economico che produce, dall’altro c’è quello immateriale che è legato al patrimonio cognitivo e che ha un legame concreto con la capacità di avere conoscenza e consapevolezza del proprio presente, e maggiori possibilità di progettare e realizzare un futuro.

Ecco, vorrei concentrarmi sul lato “immateriale” degli investimenti culturali. Mi viene in mente un articolo di “Le Monde” che, a fine maggio, ha definito Milano una “città europea che resiste al populismo”. In questo senso quali sono, secondo Lei, i suggerimenti che Milano potrebbe dare al resto di un paese che spesso vorrebbe alzare barriere più che costruire ponti col resto d’Europa e del mondo?

Io credo che l’unico suggerimento che noi possiamo dare in questo momento sia quello di mostrare come un atteggiamento di fiducia e di apertura ha fatto sì che in un ciclo economico così recessivo e critico come quello che il nostro paese ha attraversato e sta attraversando, la città di Milano segni invece notevoli elementi di crescita, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista occupazionale. Una comunità che si apre, che dialoga, che si lascia anche contaminare e meticciare da elementi esterni, è una comunità che è poi in grado di produrre crescita e sviluppo, al contrario di quello che comunemente si crede. Il secondo elemento fondante, e questo è l’unico suggerimento che forse la città può dare anche in termini squisitamente operativi dal punto di vista dei poteri culturali, è che bisogna tenere alto il livello del dibattito politico, anzi: bisogna stimolarlo sempre di più. Cioè occorre fare sì che l’offerta culturale non preveda un meccanismo di ricezione passiva da parte della città, ma chiami e stimoli la città stessa a essere protagonista di un dibattito politico che avviene grazie alla sollecitazione dell’offerta culturale. Da questo di vista i modelli dei nostri festival diffusi, penso a Book City, penso a Piano City, penso alle settimane che abbiamo lanciato l’anno scorso, sono produttivi proprio perché funzionano come straordinario attivatore, sull’intero territorio urbano, di luoghi e di momenti di dibattito pubblico. Oggi il nostro paese soffre della mancanza di dibattito pubblico, perché è congestionato in una sorta di continua sfida dialettica che si effettua soltanto attraverso il meccanismo, in questo caso abbastanza perverso, della comunicazione via social, dove si viralizzano opinioni che diventano totem. Bisogna sfidare questa concezione totemica della società, e invece considerare quanto sia arricchente sotto ogni punto di vista il dibattito, il confronto e quindi anche, in un certo senso, l’inevitabile mediazione che deve esistere tra idee e prospettive diverse.

Pubblico al Castello Sforzesco durante un evento dell'Estate Sforzesca. Ph. Credit Giovanni Daniotti
Pubblico al Castello Sforzesco durante un evento dell’Estate Sforzesca. Ph. Credit Giovanni Daniotti

Parlando della cultura come chiave per l’integrazione e l’inclusione, anche alla luce dei recenti fenomeni migratori e delle statistiche dell’Istat che ci dicono che il numero di stranieri in Italia è raddoppiato nel giro di appena tredici anni, siamo soliti dire che il patrimonio culturale, ovviamente, sia una base imprescindibile per costruire una società capace di includere e di aprirsi al multiculturalismo: come si sta muovendo Milano in questo senso?

Milano ha fatto due operazioni molto importanti e significative. Una è stata istituire il Forum Città Mondo, che ha rappresentato un luogo dove tutte le comunità presenti sul nostro territorio hanno avuto la possibilità di esprimersi, di rappresentarsi e di coltivare relazioni innanzitutto e soprattutto tra loro, quindi non vivendo più un principio di contrapposizione tra microcomunità e ambiente esterno ostile, ma al contrario condividendo sogni, speranze, aspettative, paure e timori attraverso però un flusso di condivisione intercomunitario. Con il Forum Città Mondo noi abbiamo visto peruviani, senegalesi, egiziani, cinesi, filippini e marocchini trovare occasioni di confronto, relazione e dialogo soprattutto tra loro: questo ha fatto scattare un meccanismo di percezione forte di cittadinanza milanese, perché una persona che viene da un paese lontano condivide, con qualcun altro che proviene da un altro paese lontano, il fatto di essere milanese e di abitare in questa città. È stata un’esperienza molto preziosa, e adesso come tutte le esperienze che hanno avuto una crescita molto tumultuosa sta avendo delle difficoltà, ma sul piano simbolico è stata sicuramente molto importante. L’altro aspetto significativo è stato dar vita al Mudec - Museo delle culture, un museo che ha sviluppato, al di là della sua attività di offerta e di proposta culturale, il meccanismo dei focus di approfondimento sulle diverse comunità (cinese, egiziana, peruviana, e così via), e questo ha stimolato le comunità a sentirsi parte consapevole di un paesaggio culturale vario e frastagliato, dove però l’istituzione cittadina riconosce e attribuisce a quelle comunità un valore di apporto significativo a questa molteplicità di presenze culturali. Io dico sempre che il Mudec ha il grande merito, o il compito ambizioso, di generare dalla differenza tra le diverse culture, una cultura delle differenze. Credo che questo, dal punto di vista culturale, abbia funzionato e abbia contribuito a far sì che oggi Milano sia una città che è riuscita a declinare la forma di convivenza tra le diverse culture in una maniera un po’ più pacifica rispetto ad altre realtà.

Tra i risultati che vengono riconosciuti a Milano, c’è anche la sua dimensione di capitale dell’arte contemporanea. Si sono create importanti sinergie e a Milano sia il pubblico sia il privato contribuiscono con successo, e in maniera, devo dire, molto equilibrata, all’ascesa della città in questa veste: non c’è giornale internazionale che non parli della Fondazione Prada o dell’Hangar Bicocca, c’è l’Art Week che coinvolge tutte le istituzioni della città, c’è una Miart che assume un’importanza sempre più considerevole anche in ambito internazionale, ci sono realtà come la Triennale e il Museo del Novecento. Se però dovessimo valutare anche l’aspetto negativo della medaglia, credo che dovremmo partire proprio dal Mudec, perché dall’esterno si ha la percezione che si tratti di un museo che ottiene successo soprattutto perché ospita rassegne di forte impatto commerciale o mostre facili e preconfezionate, mi vengono in mente i tanti spettacoli multimediali o, per esempio, la mostra su Frida Kahlo. Secondo Lei, nella Milano capitale dell’arte contemporanea quali sono gli aspetti che funzionano e quali invece quelli da migliorare?

Credo che funzioni molto il principio dell’alleanza orizzontale tra i vari soggetti. Pubblico e privato concorrono sempre più a fare di Milano una città straordinariamente fertile dal punto di vista della capacità che ha di accogliere il pensiero creativo contemporaneo. E allora le varie manifestazioni e istituzioni che Lei ha citato sempre di più vivono la loro complementarietà in questo scenario come un fattore di vantaggio e non di svantaggio. Unirei anche il fatto che, dal punto di vista meramente simbolico, alcune operazioni pubbliche che sono state compiute in queste anni, su tutte quella che è ancora in divenire ma che io spero si concluda entro la fine del mandato, ovvero ArtLine, il più grande parco di arte pubblica contemporanea che esiste in Italia nonché tra i più grandi e più rilevanti d’Europea, dove si è attribuita all’arte contemporanea e ai linguaggi dell’arte contemporanea anche la responsabilità di abitare uno spazio pubblico e diventare elemento catalizzante dell’identificazione di una nuova funzione dello spazio pubblico. Ricordo sempre, come uno dei progetti di cui sono più soddisfatto e orgoglioso, di quando nel 2015, in piena Expo, decidemmo di far sì che piazza Duomo, ovvero il centro nevralgico della città, fosse abitata dalla presenza della Mela reintegrata di Michelangelo Pistoletto. Quella presenza simbolica catalizzò anche moltissima attenzione circa la forma che uno spazio pubblico, quando è abitato dall’arte contemporanea, può assumere. Quanto al Mudec, vorrei rispondere dialetticamente alle sue osservazioni su due piani: per quanto riguarda l’arte contemporanea, posso dire che non è quella la missione specifica e principale del Mudec. Il Mudec intreccia la sua dimensione contemporanea con le matrici più antiche e lontane dell’antropologia culturale, come fa nella sua collezione permanente e in diversi suoi progetti speciali. Inoltre, vorrei sfatare il pregiudizio che circonda un po’ diverse mostre che vengono fatte al Mudec. Lei per esempio citava Frida Kahlo, che non è stata una mostra preconfezionata, ma è stata realizzata apposta per il Mudec, da un curatore interno all’amministrazione comunale, Diego Sileo, con un progetto scientifico che ha richiesto tre anni di approfondimenti, ricerche e contatti, che ha permesso di portare per la prima volta in Europa diverse opere che non erano mai uscite dai musei messicani, e che ha messo in relazione l’opera di Frida Kahlo, per la prima volta in maniera scientificamente approfondita, con il tema delle sue relazioni con le proprie matrici di natura storica, antropologica e artistica. Poi è chiaro che il richiamo mediatico del titolo e tutto ciò che sta attorno a questi fenomeni inevitabilmente riflettono anche una visione un po’ commerciale ed edonistica che certi visitatori hanno di questo tipo di operazioni, ma l’attenzione del Mudec nei confronti della cultura è massima. Ed è poi certo che nella nostra città ci sono comunque tante cose che ancora non funzionano nell’arte contemporanea. Per esempio, dobbiamo porci il problema, in maniera chiara, di come rendere giustizia alle sempre crescenti collezioni private di arte contemporanea, di grande qualità, che dimostrano una generosa disponibilità a essere esposte al pubblico ma che ancora non hanno una collocazione. La vera sfida secondo me non è tanto allestire un museo di arte contemporanea (non credo sia questo il destino che Milano richiede), ma pensare a una forma più diversa e innovativa: una sorta di casa delle collezioni, un luogo che attraverso una gestione mista pubblico-privata possa permettere alle tante collezioni di arte contemporanea, che i nostri cittadini hanno, di esprimere una funzione pubblica.

Piazza Duomo nel 2015 con, sulla sinistra, la Mela Reintegrata di Michelangelo Pistoletto. Ph. Credit Finestre sull'Arte
Piazza Duomo nel 2015 con, sulla sinistra, la Mela Reintegrata di Michelangelo Pistoletto. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Mi consenta di aggiungere una coda sul discorso delle mostre di forte impatto mediatico, giocando però su di un altro piano, quello dell’arte antica. Qui occorre constatare che Milano arranca un po’ nel far conoscere i suoi innumerevoli tesori: spesso addirittura molti milanesi fanno fatica a ricordare, per esempio, chi erano Vincenzo Foppa o Bernardino Luini, e secondo me in questo senso poco giovano iniziative a mio avviso discutibili come le mostre natalizie di singoli capolavori sradicati dal loro contesto e portati a Palazzo Marino. In quest’ambito quali sono gli aspetti su cui lavorare, sempre comunque tenendo conto che rispetto ad anche soltanto dieci anni fa è stato fatto molto?

Per rispondere a questa domanda, che coglie molto il punto, posso dire che abbiamo lavorato su due livelli, uno simbolico e uno di consapevolezza. A livello simbolico abbiamo cercato di far acquisire maggior orgoglio ai cittadini milanesi rispetto alla molteplicità dei tesori d’arte che musei, collezioni e luoghi d’arte della città custodiscono. Proprio durante Expo lanciai il progetto delle sei icone di Milano, le sei opere d’arte custodite nelle città ma che di fatto non erano percepite, a partire dai milanesi stessi, come appartenenti al proprio patrimonio. Le ricordo in successione: il Quarto stato di Pellizza da Volpedo, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, il Bacio di Hayez, la Pietà Rondanini di Michelangelo, Concetto spaziale. Attesa di Lucio Fontana e l’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Durante i sei mesi di Expo io attribuii a ciascun mese un’immagine, e promossi l’intera comunicazione del palinsesto Expo in città attraverso queste sei opere: da lì si produsse il progetto Conversazioni d’arte, con cui ogni anno scegliamo (un anno è successo anche con un referendum popolare) sei opere d’arte che appartengono alle nostre collezioni e verso le quali riteniamo sia opportuno che i milanesi inizino a sentire anche un maggior orgoglio di appartenenza. Da questo punto di vista c’è senz’altro molto da fare ma credo che la strada che abbiamo intrapreso sia giusta e sia corretta, e l’ho visto soprattutto quando dei ragazzi giovanissimi, provenienti da diverse scuole della città di Milano e partecipando a un concorso indetto dalla Fondazione Accenture, hanno basato i loro racconti della città proprio sulla identità di Milano vissuta attraverso le opere d’arte. Dicevo che però c’è anche un piano della consapevolezza. La responsabilità rispetto alla storia artistica della propria città la si costruisce progressivamente. Milano aveva fatto dei passi importantissimi, da questo punto di vista, negli anni Cinquanta e Sessanta, poi però questo aspetto si è offuscato. Noi abbiamo ripreso il cammino dando il via a un ciclo di mostre che su questo hanno appunto lavorato. Penso alla mostra sui Luini di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, che ha comportato uno sforzo considerevole: fu la classica mostra in cui l’assenza di un aspetto fortemente seducente da un punto di vista meramente pubblicitario, di fatto, non riuscì a creare, per quanto riguarda la partecipazione del pubblico, altrettanta affluenza, ma devo dire che fu un’iniziativa molto importante, anche perché accanto alla mostra realizzammo l’iniziativa degli itinerari. Tutti i visitatori della mostra sui Luini ebbero l’opportunità, proprio grazie a quella mostra, di avere in dotazione un itinerario che poi li ha portati a scoprire o a connettere in maniera più profonda la consapevolezza della presenza dei Luini in città. La stessa cosa facemmo riprendendo la storica mostra degli anni Cinquanta, Dai Visconti agli Sforza: allestimmo una mostra con un impianto curatoriale diverso e aggiornato ma anche in questo caso con un’impostazione d’itinerario che si poteva poi seguire. Io credo che la chiave sia questa: da una parte lavorare su progetti espositivi contemporanei che focalizzino l’attenzione su figure importanti dello sviluppo della storia artistica milanese, e dall’altra promuovere una profonda connessione con il territorio. Questo non solo per l’arte antica, ma anche per quanto riguarda le figure dell’arte dell’Ottocento e del Novecento. Ricordo per esempio l’operazione fatta recentemente dal FAI, che a Villa Necchi ha allestito una mostra sul monumento che Arturo Martini eseguì per il Palazzo di Giustizia di Milano, e ha prodotto poi un itinerario di conoscenza delle sue opere. Noi stessi, quando abbiamo fatto la mostra su Arnaldo Pomodoro nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, promuovemmo contemporaneamente un itinerario sulle opere di Pomodoro presenti in città.

E sul merito delle mostre circa le quali vi vengono mosse accuse di scarsa rilevanza scientifica?

Lei citava le mostre natalizie di Palazzo Marino. L’impostazione originaria era quella di collaborazione con Eni, e quelle mostre si basavano su un principio che, dal punto di vista culturale, io stesso non condividevo fino in fondo, ma che sicuramente avevano un grande impatto pubblicitario: grandi capolavori di grandi musei che venivano esposti per il pubblico milanese. Ecco, noi su questo progetto abbiamo fatto un’inversione di rotta, facendo un discorso del tutto diverso. Noi abbiamo lavorato con realtà locali del centro Italia in maniera tale da raccontare quel territorio, a partire dalla presenza simbolica dell’opera che viene esposta a Palazzo Marino, ma facendo ogni volta una riflessione estremamente accurata, dal punto di vista scientifico, sull’opera. Abbiamo scelto il centro Italia perché abbiamo assunto una responsabilità di carattere nazionale: ci siamo resi conto che, al di là delle grandi città d’arte consacrate dal turismo mainstream, non vi è una diffusa conoscenza e consapevolezza della straordinaria molteplicità, varietà e qualità del patrimonio che è custodito in realtà medie o piccole del centro Italia. Abbiamo quindi realizzato un progetto che ogni volta mette in connessione profonda territorio e opera: siamo partiti con Fermo, siamo andati avanti con Sansepolcro, tra l’altro contribuendo in maniera significativa a ricollocare fortemente l’identità dell’opera di Piero della Francesca rispetto al suo borgo natale, abbiamo proseguito con Ancona, quest’anno faremo Perugia. Abbiamo quindi segnato un’inversione di tendenza: l’impostazione delle mostre degli ultimi anni di Palazzo Marino non ha un carattere eclatante, perché abbiamo esposto opere bellissime ma non capolavori “acchiappa-pubblico”, anzi semmai ogni volta c’è stata la tendenza a far conoscere opere meno note, come la Pala Gozzi di Tiziano, meraviglioso capolavoro ma che oggettivamente non ha un forte impatto mediatico sui visitatori, che così hanno avuto modo di scoprirla e soprattutto di capirne la genesi in relazione al territorio. Per questo, ogni volta che facciamo questi progetti, collaboriamo molto strettamente con le città di provenienza. Devo dire la verità: credo siano operazioni che hanno una consistenza e un approccio molto valido dal punto di vista della divulgazione culturale.

Quindi alle critiche si oppone questo valore divulgativo che Lei menziona.

Le critiche però sono utili, perché è anche grazie alle critiche che noi abbiamo corretto un po’ il tiro. Poi ci fu anche un fatto evidente, cioè Eni si ritirò dal progetto, e venne meno il principio di collaborazione stretta che Eni aveva con alcuni musei, e noi dovemmo ripensare tutto dall’inizio. Però è stato molto interessante e molto stimolante, e qua vengo un po’ incontro alle sue osservazioni iniziali, cioè su come queste iniziative possono essere utili: secondo me queste iniziative sono utili per riscoprire il proprio patrimonio artistico. Ricordo che nel filmato che accompagnava l’esposizione della Pala Gozzi, il curatore citava a un certo punto la pala esposta in San Fedele, e moltissimi visitatori, inevitabilmente, entrarono finalmente ad ammirare i capolavori di San Fedele grazie alle sollecitazioni che provenivano da Palazzo Marino.

Code a Palazzo Reale per una mostra. Ph. Credit Comune di Milano
Code a Palazzo Reale per una mostra. Ph. Credit Comune di Milano

Ad ogni modo c’è da riconoscere che tutte le iniziative culturali di Milano hanno prodotto un effetto facilmente riscontrabile, ovvero l’aumento dei flussi turistici: nel 2017 le presenze hanno superato i nove milioni, un risultato che migliora di oltre il 10% quanto raggiunto l’anno prima. Possiamo dire che Milano, anche in questo senso, si vuole porre o si è già posta al livello di città come Roma, Firenze e Venezia?

Milano ha raggiunto risultati molto importanti dal punto di vista dei flussi turistici grazie alla sua crescita di reputazione che è avvenuta soprattutto in concomitanza con Expo. Noi dobbiamo riconoscere questo aspetto, e anche impararne le conseguenze, perché è stato un elemento fortemente attrattivo, che Milano è riuscita a organizzare e gestire molto bene, e questo anche nell’arco delle varie amministrazioni che se ne sono occupate (è giusto ricordare che la prima a credere molto in Expo fu la sindaca Moratti, che appartiene a una parte politica che è esattamente contrapposta a quella cui appartengo io). Devo dire che la città di Milano ha sempre vissuto in grande continuità l’idea e la consapevolezza che Expo potesse essere una straordinaria opportunità. Quando Expo è arrivata, Milano ha saputo giocarsi tutte le sue carte con grande consapevolezza e responsabilità per far sì che la reputazione complessiva della città crescesse, e che Milano diventasse una meta desiderabile per un turismo che ha però delle caratteristiche molto diverse da quelle delle tradizionali città d’arte italiane. È un turismo molto meno massificato, molto più diversificato e soprattutto, si può dire, riconosce in Milano non soltanto l’aspetto di conservazione di tesori d’arte, ma la sua vivacità di tessuto produttivo. Questo è molto importante perché è testimonianza della vitalità che la città ha dimostrato negli ultimi anni.

Dunque, abbiamo parlato di accoglienza, apertura, multiculturalismo, arte contemporanea, arte antica, e a tutto ciò potremmo aggiungere anche altri ambiti per cui Milano è famosa, come la moda, l’architettura, il design: se volessimo tracciare il profilo di un’identità culturale di Milano dovremmo partire da queste basi per arrivare dove?

Per arrivare a riconoscere un tratto identitario della città di Milano, quello di essere stata una città sempre straordinariamente fertile per il pensiero creativo: Milano, nella sua storia, ha questa caratteristica, che come un fiume carsico a volte scende di livello e a volte riaffiora diventando un elemento caratterizzante. Se noi facessimo un censimento di quanti musicisti, pittori, architetti, designer, stilisti provenienti dalle parti più disparate del mondo sono arrivati a un certo punto a Milano, e qui hanno trovato le condizioni migliori per far esplodere il loro talento creativo, faremmo un elenco smisurato. Chiaramente poi c’è sempre l’esempio fortissimo di Leonardo da Vinci, che ha vissuto più che in ogni altra città del mondo proprio a Milano, dove ha trovato le condizioni migliori per l’esplosione del suo multiforme talento creativo. E poi io faccio sempre un altro esempio che mi è molto caro, quello di Giuseppe Verdi, che analogamente a quanto accadeva per Leonardo da Vinci, proveniva da un territorio sicuramente non lontano ma comunque estraneo alla città di Milano, e che proprio a Milano ha trovato le condizioni migliori per poter far esplodere il suo talento.

In conclusione: quali saranno invece le principali sfide che attenderanno Milano nel futuro, sul breve e sul lungo periodo?

Io credo che sul breve periodo la vera sfida sia quella di conservare questa reputazione, questo senso di meta desiderabile di cui si parlava prima, non soltanto dal punto di vista del flusso turistico immediato, ma anche dal punto di vista della meta di progetti di vita o di investimenti. Oggi noi vediamo che le realtà più dinamiche dal punto di vista imprenditoriale, progettuale e anche artistico mettono Milano nella mappa delle città dove è desiderabile investire e collocare la propria attività e il proprio futuro. Quindi Milano, sul breve, deve riuscire a conservare questa reputazione e continuare a essere una meta ritenuta desiderabile soprattutto per chi vuole investire sul futuro e sullo sviluppo della propria attività e della propria esperienza. Sul lungo periodo credo che la vera sfida che attende Milano sia quella di essere tra le prime città a sperimentare che cosa significhi essere una città-stato: io sono sempre più convinto che abbia ragione Jacques Attali nel suo libro Breve storia del futuro, quando dice che il futuro che vivranno le generazioni dei nostri figli e dei nostri nipoti sarà un futuro in cui gli stati-nazione avranno sempre meno importanza e sempre meno potere, e invece i centri nevralgici dal punto di vista del potere decisionale saranno, da una parte, le grandi entità sovranazionali, e dall’altra le grandi città del mondo che assumeranno sempre di più i contorni di vere e proprie città-stato. Io credo che Milano sia oggi, tra le città d’Europa, all’interno del novero di quelle che questo ruolo lo giocheranno da protagoniste. Città-stato non saranno necessariamente le capitali, ma quelle città che stanno investendo su un certo tipo di crescita. Oggi Milano ha moltissimi tratti in comune con un’altra città che non è capitale, Barcellona, che però ha anch’essa questo destino e quest’ambizione possibile di essere tra le prime città che sperimenteranno in maniera molto concreta, spero in maniera sufficientemente dialettica e non impositiva, questa idea di trasferimento sempre maggiore di peso e di potere decisionale dagli stati nazionali verso le città.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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