Il Rosso Fiorentino a Roma nella Cappella Cesi

La nota

2013, Prima puntata

Nel 1523, il Rosso Fiorentino, soprannome di Giovanni Battista di Jacopo, si recò a Roma dove lavorò nella cappella Cesi in Santa Maria della Pace, chiesa dove si trovò a confrontarsi direttamente con Raffaello e, indirettamente, con Michelangelo. Il Rosso realizzò due affreschi: la Creazione di Eva e la Cacciata dal Paradiso terrestre. Questo articolo di Giovanni, il primo della rubrica "La nota" del 2013, ci parla proprio della poco riuscita impresa romana del Rosso, con il suo appassionante incontro-scontro con i due grandi del Rinascimento.

Sebbene del periodo a Roma di Rosso Fiorentino (1523/4 - 1527) ci siano rimaste poche opere, il contatto diretto con le opere romane di Michelangelo e di Raffaello, da lui fino a quel tempo conosciute solo indirettamente attraverso le stampe, fu decisivo. Se già nelle “Figlie di Ietro” egli aveva strizzato l'occhio alle iconografie michelangiolesche del notissimo cartone di Cascina, studiato fin dalla giovinezza, la visione ravvicinata con le ultime opere dei grandi maestri che ormai regolavano l'intera vita artistica dell'Urbe gli si presentava quasi minacciosa. Dall'incontro sarebbe scaturito inevitabilmente un duello tra la sua esigenza di forme astratte ed estremamente raffinate e la eterna semplicità delle forme dell'urbinate; tra il vivo e sentito dramma della plastica michelangiolesca e il proprio fantastico linguaggio poetico. Insomma, più che un incontro uno scontro, troppo violento se, come ricorda anche Vasari, il Rosso ne sarebbe uscito “tutto stordito e stupefatto”. In effetti gli ideali stilistici in ballo erano troppo distanti per trovare un fruttuoso punto d'incontro, e l'ovvia superiorità (sia artistica che personale) di Michelangelo obbligava necessariamente il Rosso ad una posizione iniziale di sconfitta, di resa. Ma egli stesso non voleva, non poteva, accettare lo scacco passivamente; ecco che nella ricerca di una interpretazione nuova della plastica di Buonarroti sbocciava la sua personalissima visione.

Ciò emerge chiaramente nei lavori per l'unica chiesa romana che lo vede, pare, impegnato: gli affreschi in Santa Maria della Pace, allogati al Rosso da Agnolo Cesi nel 1524. La cappella fu acquistata da Agnolo nel 1515 per farne il luogo di sepoltura per sé e per i suoi cari. L'ambiente aveva, precedentemente, una dedica all'Annunciazione e a quel tema doveva essere declinata l'intera decorazione del vano, come appare da alcuni studi di Antonio da Sangallo il Giovane, l'architetto al quale il Cesi aveva dato disposizione di ristrutturare lo spazio e provvedere alle commesse per la sua decorazione, rivoluzionata in seguito.

Negli scomparti laterali di una lunetta, separati dalla finestra centrale, sono raffigurati il “Peccato originale” e la “Creazione di Eva”. In entrambe le composizioni emergono subito, anche ad uno sguardo distratto, i ricordi degli affreschi della Cappella Sistina, qui però manipolati con un luminismo nuovo che vuole evidentemente negare la plastica e la forza del Buonarroti. Nel “Peccato originale” la cadenza ondulata del personificato albero del bene e del male ben si sposa sia con la torsione di Adamo, audace, sia alle lunghe braccia di Eva, sospese. Ma forse è proprio la salda autorevolezza del modello a cui Rosso si ispira a impedire una soluzione, almeno felice, della proposta finale: Eva, ad esempio, con la sua sproporzione tra la parte inferiore e quella superiore del corpo, non ha nulla a che vedere con la fiera progenitrice della Sistina. Ancora più incerta è la scena della “Creazione di Eva” dove Adamo appare semi sdraiato con il viso nascosto e le braccia incrociate (anche qui appare chiaro il rapporto con le iconografie della Sistina, come nell'Oloferne ucciso da Giuditta) ed Eva è leggermente piegata all'indietro, le mani sospese. Il Padreterno, barbuto, avvolto nel suo abbondante mantello, ricorda palesemente la Creazione dell'uomo sistino, ma appare ancora una volta incerto, indeciso, sospeso tra il dramma michelangiolesco e la caratterizzazione più fantasiosa di Rosso.

Insomma, vuoi la presenza in Vaticano della memoria michelangiolesca, vuoi quella ancor più vicina, immediata, degli affreschi di Raffaello subito lì accanto, dell'impresa di Rosso Fiorentino rimane un senso di impaccio a vedere la costruzione di quelle figure goffe e quelle formi grevi. E il fatto che poi Vasari ammetta che Rosso “non fece mai di peggio” di certo conferma la nostra impressione. Eppure, alla breve stagione romana, risale anche una delle opere più ammirate del pittore fiorentino, sia per la commozione che trasuda che per la costruzione formale: il “Cristo morto fra gli angeli” oggi al museo di Boston, un soggetto che, risultando pertinente al contesto iconologico della decorazione della cappella di Agnolo Cesi, ha indotto alcuni a formulare l'ipotesi che la tavola americana sia stata concepita proprio per essere collocata sull'altare di quell'ambiente.

Sulla base di ciò si può comprendere, allora, come la mediocrità degli affreschi romani non sia dovuta ad una pura imitazione da parte di Rosso, ma al tentativo (comprensibile e rispettabile) di ricreare in modo nuovo le ispirazioni michelangiolesche; impresa il cui esito sfortunato non va imputato alla mancanza di abilità, ma allo choc nella fantasia visionaria dell'artista nel momento in cui entra in contatto col drammatico e potente Buonarroti.

Il Rosso lasciò Roma durante il terribile Sacco del 1527 e, dopo essere stato “fatto prigione”, riparò dapprima nella provincia umbro-toscana, da qui a Fontainebleau. Gli affreschi di Santa Maria della Pace rimangono, nella sua carriera, la spia rivelatrice di una crisi però solo temporanea; i disegni successivi del maestro rivelano chiaramente come, dopo una prima fase di incertezza, egli riesca a fondere le suggestioni michelangiolesche e le influenze raffaellesche in un luminismo assai vigoroso, in una nuova eleganza, in un raffinatissimo linguaggio poetico.

Giovanni De Girolamo








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