Quando Mishima si masturbava sul san Sebastiano di Guido Reni


Il 25 novembre 1970 moriva Yukio Mishima. Ecco un brano in cui lo scrittore giapponese descrive la sua masturbazione sull'immagine del san Sebastiano di Guido Reni.

Esattamente 45 anni fa, il 25 novembre 1970, Yukio Mishima, il grande scrittore giapponese, si toglieva la vita con un suicidio rituale (“seppuku”), il cui vero motivo è ancora oggi al centro di numerosi dibattiti. Mishima ebbe sempre un forte e solido rapporto con l’arte. Pertanto, al fine di ricordare l’anniversario, abbiamo scelto di proporvi un brano tratto dal suo romanzo autobiografico del 1948 Confessioni di una maschera (“Kamen no kokuhaku”) in cui l’autore descrive la sua prima masturbazione, avvenuta a seguito di un impulso scaturito da una forte attrazione nei confronti di un’opera d’arte: il san Sebastiano di Guido Reni conservato a Genova, a Palazzo Rosso, e visto sulle pagine d’un libro. Mishima si sarebbe fatto poi ritrarre, proprio come san Sebastiano, nel 1963, dal fotografo Eikoh Hosoe. La traduzione del brano, di Marcella Bonsanti, deriva a sua volta dalla traduzione in inglese di Meredith Weatherby e figura nell’edizione italiana Feltrinelli di “Confessioni di una maschera” del 2004.

Guido Reni e Yukio Mishima
A sinistra: Guido Reni, San Sebastiano (1615 circa; Genova, Palazzo Rosso). A destra: Eikoh Hosoe, Yukio Mishima come san Sebastiano (1963).

Un giorno, approfittando di un leggero raffreddore che mi aveva impedito di andare a scuola, pescai alcuni volumi di riproduzioni d’opere d’arte che mio padre aveva riportato in patria come ricordo dei suoi viaggi in terre straniere, e rifugiatomi in stanza da letto li esaminai con grande attenzione. Mi affascinarono in special modo le fotoincisioni di sculture greche nelle guide dei vari musei italiani. Quando mi trovai davanti alle rappresentazioni del nudo, fra le molteplici riproduzioni di capolavori furono queste tavole in bianco e nero che appagarono la mia fantasia a preferenza d’ogni altra. Ciò era dovuto probabilmente al semplice fatto che, anche riprodotta, la scultura mi pareva più vicina alla vita.

Era la prima volta che vedevo dei libri di quella specie. Quel taccagno di mio padre, insofferente dell’idea che mani infantili avessero a toccare e a insudiciare quelle figure, e temendo per giunta - come a torto! - ch’io potessi venir attratto dalle donne ignude dei capolavori, aveva riposto i volumi nei più profondi recessi di uno stipo. Quanto a me, non mi ero mai sognato fino a quel giorno che potessero essere più interessanti delle vignette dei giornalini dei ragazzi.

Stavo sfogliando una delle ultime pagine d’un volume. Tutt’a un tratto, dall’angolo della pagina successiva, baluginò davanti ai miei occhi un’immagine che dovetti ritenere si fosse appostata laggiù per me solo, a mio beneficio.

Era una riproduzione del San Sebastiano di Guido Reni, che figura nella raccolta di Palazzo Rosso a Genova.

Il tronco dell’albero del supplizio, nero e leggermente obliquo, campeggiava sullo sfondo tizianesco d’una tenebrosa foresta e d’un cielo serotino, fosco e distante. Un giovane di singolare avvenenza stava legato nudo al tronco dell’albero, con le braccia tirate in alto, e le cinghie che gli stringevano i polsi incrociati erano fermate all’albero stesso. Non si scorgevano legami d’altra sorta, e l’unico rivestimento della nudità del giovane consisteva in un ruvido panno bianco che gli fasciava mollemente i lombi.

Immaginai che fosse la descrizione di un martirio cristiano. Ma siccome era dovuta a un pittore della scuola eclettica derivata dal Rinascimento, anche da questo dipinto che raffigurava la morte di un santo cristiano emanava un forte aroma di paganesimo. Il corpo del giovane - lo si potrebbe perfino paragonare a quello di Antinoo, il favorito di Adriano, la cui bellezza fu così spesso immortalata nella scultura - non reca alcuna traccia degli stenti o dello sfinimento derivati dalla vita missionaria, che improntano l’effigie d’altri santi: questo palesa invece unicamente la primavera della gioventù, unicamente luce e piacere e leggiadria.

Quella sua bianca e incomparabile nudità scintilla contro uno sfondo di crepuscolo. Le braccia nerborute, braccia d’un pretoriano solito a flettere l’arco e a brandire la spada, sono levate in una curva armoniosa, e i polsi s’incrociano immediatamente al disopra del capo. Il viso è rivolto leggermente in alto e gli occhi sono spalancati, a contemplare la gloria del paradiso con profonda tranquillità. Non è la sofferenza che aleggia sul petto dilatato, sull’addome teso, sulle labbra appena contorte, ma un tremolio di piacere malinconico come una musica. Non fosse per le frecce con le punte conficcate nell’ascella sinistra e nel fianco destro, egli sembrerebbe piuttosto un atleta romano che allevia la stanchezza in un giardino, appoggiato contro un albero scuro.

Le frecce si sono addentrate nel vivo della giovane carne polposa e fragrante, e stanno per consumare il corpo dall’interno con fiamme di strazio e d’estasi suprema. Ma il sangue non sgorga, non ha ancora infuriato il nugolo di frecce che si vedono in altri dipinti del martirio di San Sebastiano. Qui invece, due frecce solitarie mandano le loro ombre quiete e delicate sopra la levigatezza della pelle, simili alle ombre d’un ramo che cadono su una scala di marmo.

Ma tutte queste interpretazioni e scoperte vennero in un secondo tempo.

Quel giorno, nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me ch’era prossima a esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno. Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevo imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal didentro. Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebbrezza accecante...

Trascorse un certo tempo e poi, con animo desolato, guardai in giro per lo scrittoio a cui stavo di fronte. Fuori dalla finestra un acero proiettava dovunque un vivido riverbero - sulla boccetta d’inchiostro, su libri e quaderni di scuola, sul dizionario, sull’immagine di San Sebastiano. Apparivano qua e là degli schizi d’un biancore fioccoso - sul titolo a caratteri dorati d’un libro di testo, sul margine del calamaio, su uno spigolo del dizionario. Alcuni oggetti gocciavano pigramente, altri lucevano di un fioco barlume come gli occhi d’un pesce morto. Per fortuna un movimento riflesso della mia mano per proteggere la figura aveva impedito che il volume s’insudiciasse.

Fu quella la mia prima eiaculazione. E fu anche l’inizio, maldestro e assolutamente impremeditato, della mia “brutta abitudine”.


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