Ottocento a Forlì: poche novità, ma una mostra che è come un grande manuale di storia dell'arte


Recensione della mostra “Ottocento” a Forlì, Musei San Domenico, dal 9 febbraio al 16 giugno 2019.

Nel vasto novero di mostre che nell’ultimo periodo molti istituti hanno riservato all’Ottocento italiano, risultava impossibile non rivolgere una particolare attenzione al progetto Ottocento, la vasta rassegna, curata da Francesco Leone e Fernando Mazzocca, che i Musei di San Domenico a Forlì hanno dedicato alle vicende dell’arte del XIX secolo nel nostro paese. Notevole e coraggioso l’intento d’allestire una mostra capace d’offrire al visitatore un racconto onnicomprensivo di quanto avvenuto tra l’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale, straordinaria la parata di capolavori che per l’occasione sono stati radunati e sistemati nelle dieci sale dell’esposizione, di spiccata raffinatezza certe scelte curatoriali, come l’aver posto in chiusura una sorta di richiamo alla mostra della ritrattistica italiana che si tenne a Firenze nel 1911, in occasione del cinquantenario dell’Unità. Risulta tuttavia necessario addurre alcune premesse per meglio contestualizzare il percorso che il pubblico si troverà a fronteggiare.

Si potrebbe cominciare dal fatto che Ottocento non dica niente che non sia già stato detto. Poco c’è da approfondire sulla sezione introduttiva, affidata per intero alla figura di Francesco Hayez (Venezia, 1791 - Milano, 1882), qui presentato come il creatore della nuova pittura di storia che la rassegna seguita ad affrontare nella parte immediatamente seguente: tematiche già ampiamente esaminate nella monografica su Hayez del 2015 e in quella, eccellente, sul Romanticismo di quest’anno (entrambe curate da Mazzocca ed entrambe allestite alle Gallerie d’Italia di piazza della Scala a Milano), e anche nella mostra del bicentenario della Galleria dell’Accademia di Venezia (Canova, Hayez, Cicognara, tenutasi tra il 2017 e il 2018), dove l’ultima sezione era anch’essa dedicata alla nascita della pittura storica per merito del grande pittore veneto. Quanto al versante della storia del gusto, si tratta d’un altro fronte già ampiamente esplorato anche di recente (ne è esempio l’esposizione L’Ottocento elegante che si svolse nelle sale di Palazzo Roverella a Rovigo nel 2011). Non è una novità assoluta neppure il confronto tra arte ufficiale e arte sperimentale, benché occorra sottolineare che nella maggior parte delle occasioni si sia trattato di raffronti messi in atto per far risaltare le novità di certi movimenti nei riguardi dell’arte accademica (è il caso, per esempio, della recentissima mostra, purtroppo penalizzata da un deludente catalogo, sui macchiaioli alla GAM di Torino, dove dipinti d’artisti come Bezzuoli o Pollastrini erano utilizzati in chiave d’apertura alle successive esperienze dei pittori di macchia). Già affrontato anche il discorso relativo all’arte come mezzo per la costruzione d’un’identità nazionale: in parte, per esempio, in occasione d’un’altra mostra curata da Mazzocca, quella su Giuseppe Mazzini e la grande pittura europea a Genova, Palazzo Ducale, nel 2005, più nello specifico alla mostra sui pittori del Risorgimento ch’ebbe luogo alle Scuderie nel Quirinale nel 2011, per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, per un evento curato ancora da Mazzocca assieme a Carlo Sisi, o La nazione dipinta di Palazzo Te nel 2007. Per ciò che invece concerne altre tematiche, per esempio il rapporto tra arte, letteratura e musica, i passaggi di Ottocento sono così fugaci che risulta alquanto difficile scendere in profondità.

Uno dei rischi d’una mostra che, invece d’accostarsi all’argomento con un approccio verticale (il più diffuso oggigiorno), proponga al contrario una disamina condotta secondo un’ottica orizzontale, risiede nel suo eccessivo esporsi a una trattazione marginale e poco profonda dei temi presentati nelle sale. Un rischio contro il quale poco può anche lo studiatissimo allestimento, ideato con l’intento di coinvolgere il pubblico con continui cambi di registro, spesso improvvisi, tra una sala e l’altra, probabilmente anche per cercare una risposta emozionale: in tal senso la mostra può dirsi ben riuscita, e l’impatto sul pubblico è notevole (difficile trovare mostre così trascinanti e appassionanti, e per avvedersene è sufficiente ascoltare qualche commento dei visitatori nelle sale). Tuttavia, i salti da un ambiente all’altro appaiono tanto repentini, e spesso peraltro collegati in maniera così poco chiara, che tocca domandarsi se, al fine, l’impianto complessivo regga e risponda in maniera soddisfacente alle elevate ambizioni della mostra, o se al contrario non s’avverta qualche incrinatura di troppo.

Ingresso della mostra Ottocento a Forlì
Ingresso della mostra Ottocento a Forlì


Una delle sale della mostra Ottocento a Forlì
Una delle sale della mostra Ottocento a Forlì

L’avvio, come anticipato, è demandato a Francesco Hayez, pittore a cavallo tra due epoche, tra i maggiori interpreti del Romanticismo in Italia (se non il maggiore tout court) e poi artista che continua a essere aggiornato e a innovare anche in tarda età: il visitatore è accolto da due potenti nudi (la Ruth e la Tamar di Giuda, che introducono alla sensualità di molta arte dell’Ottocento, la quale sarà propria anche di certa pittura di storia), e prosegue il suo cammino apprezzando l’Hayez dei grandi quadri a soggetto storico, sui quali spicca La distruzione del Tempio di Gerusalemme, che sottende una riflessione amara del pittore sulla storia stessa (l’opera è del 1867, e tre anni dopo, con l’Europa ancora in pieno sconvolgimento bellico, Hayez avrebbe scritto alla contessa Luigia Negroni Prati Morosini che “il vecchio artista [...] sente la tristezza di ciò che succede nel mondo politico”). Passata la sala in cui l’Ecce Homo di Hayez è messo a confronto con il successivo Cristo flagellato di Pietro Canonica (Moncalieri, 1869 - Roma, 1959), evidentemente per suggerire possibili filiazioni, e trascorsa anche l’ultima celletta nella quale è posto, solitario, il Vaso di fiori portato a Forlì per ricondurre all’attenzione del pubblico quell’Hayez naturamortista così poco considerato, ci si reimmette nel primo corrodoio del pianterreno dove i curatori hanno approntato la sezione dedicata alla pittura storica, con una selezione che copre quasi un trentennio di storia, dagli anni attorno all’Unità fino all’ultimo decennio del XIX secolo. Dalle emanazioni pressoché dirette dell’arte di Hayez, quali potrebbero essere i calcolatissimi Vespri siciliani di Michele Rapisardi (Catania, 1822 - Firenze, 1886) si passa a manifestazioni più aggiornate e spontanee come Un episodio della vita di Fabiola, tra le espressioni più alte dell’arte di Cesare Maccari (Cesena, 1840 - Roma, 1919) o il neorinascimentale Cino e Selvaggia di Amos Cassioli (Asciano, 1832 - Firenze, 1891), opere entrambe realizzate nello stesso torno d’anni dei Vespri di Rapisardi, fino ad arrivare a composizioni che, pur non discostandosi dagli ormai tradizionali e codificati soggetti storici, s’accostano a nuove soluzioni: è il caso, ad esempio, dei finora poco studiati Funerali di Britannico di Giovanni Muzzioli (Modena, 1854 - 1894), in tensione tra retaggi accademici ed aperture al naturalismo. Dove non arriva il percorso espositivo, sopperisce il catalogo: stupisce, per esempio, la totale assenza di Domenico Morelli (Napoli, 1823 - 1901) dalle sale della mostra, lui che pure fu uno dei primi pittori, se non addirittura il primo, a discostarsi da una pittura di storia ancora totalmente inserita entro il solco del romanticismo per dedicarsi a ricerche che miravano a risolvere i soggetti entro un’ottica di più spiccata naturalezza (e nel catalogo ben gli è riconosciuto questo ruolo, così come altrettanto efficacemente lo si pone alle origini delle sperimentazioni d’altri importanti pittori quali Tranquillo Cremona e Federico Faruffini). S’incontra un’appendice a questa seconda sezione, dopo aver passato la terza dedicata ai ritratti dei protagonisti della cultura e della politica del tempo (si va dal Cavour di Hayez al Garibaldi di Corcos, dal Puccini di De Servi al D’Annunzio di Troubetzkoy), percorrendo lo scalone che porta al piano superiore: emerge in particolare il monumentale Cesare Borgia a Capua (Il Valentino), significativa prova su di un soggetto storico da parte di Gaetano Previati (Ferrara, 1852 - Lavagna, 1890), realizzata peraltro in giovane età (l’artista aveva all’epoca ventisette anni).

Ai dipinti di soggetto militare è tutta votata la quarta sezione che intende illustrare una sorta di “pittura in presa diretta”, come da definizione dei curatori, ch’era frequentata tanto dai pittori ancora legati all’Accademia, quanto da coloro ch’erano dediti ai più arditi esperimenti. Alle origini di questo filone che spingeva spesso gli artisti a recarsi di persona sui campi di battaglia per esser presenti agli eventi che intendevano testimoniare viene posto, com’è del resto noto, il lombardo Gerolamo Induno (Milano, 1825 - 1890), qui presente con diversi lavori, tra cui la sua Battaglia di Magenta presentata alla prima Esposizione Nazionale di Firenze organizzata nel 1861. Induno, scrive Mazzocca, è pittore da cui “prendono avvio l’interpretazione e la celebrazione, destinate a dominare nella pittura dell’Italia unitaria, del Risorgimento come una guerra di popolo dove quello che più aveva contato era stato il sacrificio personale e il contributo di umanità versato dagli umili prima in Crimea e poi nelle guerre di liberazione”: la testimonianza di quanto avvenuto coinvolgerà pittori d’ogni esperienza e provenienti dalle più svariate zone della penisola, con esiti diversi. Sono però le opere improntate a un vivo realismo, e soprattutto scevre da intenti celebrativi, quelle che probabilmente hanno mosso con più convinzione le scelte dei curatori, che in questa sala offrono al pubblico una piccola antologia dei risultati più alti e innovativi della pittura risorgimentale. Si va dalla tela di Napoleone Nani (Venezia, 1839 - Verona, 1899) che narra della liberazione dal carcere dei patrioti veneziani Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, opera che con piglio realistico racconta un fatto di circa trent’anni precedente l’epoca della realizzazione, alla quasi cronachistica Breccia di Porta Pia di Michele Cammarano (Napoli, 1835 - 1920), artista che sta lentamente riemergendo dalla disattenzione nella quale per diverso tempo è stato confinato (e il recente riallestimento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, con la sua Battaglia di San Marino messa al centro d’una delle più spettacolari sale del museo, ne costituisce conferma), senza dimenticare le ben note meditazioni su temi soldateschi di Giovanni Fattori (Livorno, 1825 - Firenze, 1908), come Lo staffato, dipinto dinamico e drammatico dove “tutto contribuisce a trasmettere, senza filtri aneddotici, un’immagine di cruda violenza, tanto che l’opera suscitò nei contemporanei reazioni di incomprensione e dissenso” (Beatrice Avanzi).

Francesco Hayez, Ruth (1853; olio su tela, 137 x 100 cm; Bologna, Collezioni Comunali d'Arte)
Francesco Hayez, Ruth (1853; olio su tela, 137 x 100 cm; Bologna, Collezioni Comunali d’Arte)


Francesco Hayez, Tamar di Giuda (1847; olio su tela, 112 x 84,5 cm; Varese, Civico Museo d'Arte Moderna e Contemporanea)
Francesco Hayez, Tamar di Giuda (1847; olio su tela, 112 x 84,5 cm; Varese, Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea)


Francesco Hayez, La distruzione del Tempio di Gerusalemme (1859-1867; olio su tela, 183,3 x 253,3 cm; Venezia, Gallerie dell'Accadema)
Francesco Hayez, La distruzione del Tempio di Gerusalemme (1859-1867; olio su tela, 183,3 x 253,3 cm; Venezia, Gallerie dell’Accadema)


Francesco Hayez, Un vaso di fiori sulla finestra di un harem (1869-1881; olio su tela, 125 x 94,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Francesco Hayez, Un vaso di fiori sulla finestra di un harem (1869-1881; olio su tela, 125 x 94,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)


Michele Rapisardi, I vespri siciliani (1864-1865; olio su tela, 233 x 346 cm; Catania, Museo Civico di Castello Ursino)
Michele Rapisardi, I vespri siciliani (1864-1865; olio su tela, 233 x 346 cm; Catania, Museo Civico di Castello Ursino)


Cesare Maccari, Un episodio della vita di Fabiola (1870 circa; olio su tela, 152 x 200 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, proprietà Banca Monte dei Paschi di Siena)
Cesare Maccari, Un episodio della vita di Fabiola (1870 circa; olio su tela, 152 x 200 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, proprietà Banca Monte dei Paschi di Siena)


Giovanni Muzzioli, I funerali di Britannico (1888; olio su tela, 146 x 330 cm; Ferrara, Museo dell'Ottocento)
Giovanni Muzzioli, I funerali di Britannico (1888; olio su tela, 146 x 330 cm; Ferrara, Museo dell’Ottocento)


Gaetano Previati, Cesare Borgia a Capua (1879-1880; olio su tela, 295 x 588 cm; Collezione Intesa Sanpaolo)
Gaetano Previati, Cesare Borgia a Capua (1879-1880; olio su tela, 295 x 588 cm; Collezione Intesa Sanpaolo)


Gerolamo Induno, La battaglia di Magenta (1861; olio su tela, 208 x 363 cm; Milano, Museo del Risorgimento
Gerolamo Induno, La battaglia di Magenta (1861; olio su tela, 208 x 363 cm; Milano, Museo del Risorgimento


Napoleone Nani, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo liberati dal carcere e portati in trionfo in piazza San Marco (1876; olio su tela, 252 x 357 cm; Venezia, Fondazione Querini Stampalia)
Napoleone Nani, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo liberati dal carcere e portati in trionfo in piazza San Marco (1876; olio su tela, 252 x 357 cm; Venezia, Fondazione Querini Stampalia)


Michele Cammarano, La breccia di Porta Pia (1871; olio su tela, 290 x 467 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)
Michele Cammarano, La breccia di Porta Pia (1871; olio su tela, 290 x 467 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)


Giovanni Fattori, Lo staffato (1880; olio su tela, 90 x 130 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d'Arte Moderna)
Giovanni Fattori, Lo staffato (1880; olio su tela, 90 x 130 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna)

Si procede dunque con la quinta sezione, dedicata ai temi della denuncia sociale, per lo più incentrati sulle condizioni dei lavoratori: altro argomento già ampiamente affrontato in altre occasioni espositive, l’ultima delle quali costituita dalla rassegna Colori e forme del lavoro di Palazzo Cucchiari a Carrara (2018). La selezione di Ottocento è in buona parte simile a quella della mostra carrarese, sebbene più ristretta e condotta su base geografica piuttosto che su base tematica come accadeva a Palazzo Cucchiari. Rispetto a quest’ultima occasione espositiva tornano artisti come Fattori, Ferroni, D’Orsi, Nomellini, Bistolfi, Signorini (da segnalare tuttavia la presenza de L’alzaia, uno dei più grandi capolavori di Signorini, di collezione privata, assente dalla rassegna di Carrara, ragion per la quale Ottocento rappresenta un’importante opportunità per vedere, o rivedere, l’opera dal vivo), ma viene anche concesso spazio a realtà più lontane da quelle toscane o del nord, come quella abruzzese descritta da Teofilo Patini (Castel di Sangro, 1840 - Napoli, 1906), che col suo verismo sociale pareva quasi dar corpo agli scritti di Verga, o a quella siciliana drammaticamente raccontata da Onofrio Tomaselli (Bagheria, 1886 - Palermo, 1956) con un capolavoro come I carusi che descrive la difficile situazione degli adolescenti che lavoravano nelle miniere di zolfo. Spazio, inoltre, a ulteriori filoni della denuncia sociale che sono in vario modo collegati al discorso sul lavoro ma affrontano altri argomenti: si ragiona, in particolare, sull’emigrazione, e ci si sofferma su opere intense come Gli emigranti di Angiolo Tommasi (Livorno, 1858 - Torre del Lago, 1923), che si reca su di un molo del porto della natia Livorno onde offrire al riguardante una vivida, cruda, angosciante testimonianza della portata dei fenomeni migratorî che caratterizzarono l’Italia di fine Ottocento, quando il nostro paese era terra di migranti che partivano verso le Americhe e il nord Europa alla ricerca di migliori condizioni di vita. Con un ulteriore, improvviso scarto si passa alla sala dedicata al paesaggio: attraverso una selezione tirata pressoché al limite (il rapporto tra dipinti e poetiche è quasi in rapporto di uno a uno), Ottocento cerca di dar conto di tutti i rivolgimenti conosciuti dalla pittura paesistica. Presente il realismo post-romantico di Nino Costa, la scuola di Rivara con Giuseppe Camino, la pittura di macchia con Telemaco Signorini (e le meditazioni sulla macchia di Ciardi e Cabianca, quest’ultimo presente con un evocativo Sul mare), il paesaggio-stato d’animo di Sartorio, il divisionismo di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo 1868 - 1907) e Giovanni Segantini (Arco, 1858 - Schafberg, 1899), con il primo presente, verso la parte finale della sala, con un dipinto di estrema rilevanza quale Tramonto (il roveto), della Galleria Ricci Oddi di Piacenza, opera che dà corpo al proponimento di Pellizza di lasciare che lo studio attento dei fenomeni naturali aprisse a una pittura in grado di superare la dimensione strettamente naturalistica “in favore di un accostamento fulmineo capace di schiudere la dimensione del sovrasensibile, non più la qualità fisica del colore e del suono ma l’insieme di associazioni inconsce che evocano” (Stefano Bosi), per un risultato che quasi trasforma il paesaggio in una sorta d’astrazione.

Con la settima sezione s’entra di peso nell’ambito dell’arte come mezzo per ritrarre la società, e se nella sala precedente ci s’era spinti negli abissi della disperazione di contadini affamati, operai in sciopero, minatori sporchi, affaticati e spenti, famiglie divise dal dramma della migrazione, il corridoio che segue cala il pubblico nel mezzo dei trastulli del bel mondo con opere dei suoi massimi cantori, a partire dagli italiens à Paris Zandomeneghi e De Nittis, per proseguire con il principale vate del gusto borghese, Vittorio Maria Corcos (Livorno, 1859 - Firenze, 1933), che nella sua In lettura sul mare cerca d’elevare il tono ammantando di accenti vagamente simbolisti la scena, e in particolare la protagonista al centro (nella quale s’è voluta riconoscere la moglie Ada). Si sfocia ancora nella storia del gusto quando si passano in rassegna altri campioni della borghesia come Michele Tedesco (Moliterno, 1834 - Napoli, 1917) e le sue damine assorte in affettati sollazzi, o lo scultore Giulio Monteverde (Bistagno, 1837 - Roma, 1917) il cui realismo edulcorato e dal registro altisonante (Edoardo Jenner prova sul figlio l’inoculazione del vaccino del vaiolo) era quanto di più idoneo a dar forma, col marmo, alle esigenze della sua ricca clientela (tanto che Monteverde divenne peraltro un richiestissimo realizzatore di monumenti funebri). Il rischio d’esser assaliti dalla noia viene scongiurato da alcuni considerevoli acuti come il Luglio di Ettore Tito (Castellammare di Stabia, 1859 - Venezia, 1941), una spensierata mattinata di bagni estivi al Lido di Venezia catturata quasi come un’istantanea fotografica, o il Battello sul lago Maggiore di Angelo Morbelli (Alessandria, 1853 - Milano, 1919), panorama che diventa poesia della luce, o il confronto tra La madre di Adriano Cecioni (Firenze, 1836 - 1886) e quella di Silvestro Lega (Modigliana, 1836 - Firenze, 1895): la prima risolve l’idea della maternità con un tono realista che attirò allo scultore aspre critiche, mentre la seconda, nella quale riconosciamo la cognata di Silvestro Lega, Adele Mazzarelli, risponde con un approccio raffinato che rende manifesto quel sentimentalismo che connotò buona parte della produzione dell’artista romagnolo (che peraltro, con questa sua madre, condivise con Cecioni l’insuccesso di critica). Il corridoio successivo, riservato alla ritrattistica femminile (genere ormai battuto da miriadi di altre esposizioni), si potrebbe anche saltare in toto senza che la mostra ne perda alcunché.

La più interessante sezione della mostra arriva nelle battute conclusive ed è paradossalmente quella che meno ha a che fare con gli argomenti di Ottocento, dacché si tratta d’un sunto di quell’Esposizione del Ritratto Italiano allestita a Firenze nel 1911 per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia e che allora, com’ebbe a scrivere Ugo Ojetti, curatore di quella rassegna, non era “mai stata tentata né in Italia né fuori”. È forse improprio parlare d’una rievocazione, dal momento che la selezione dei dipinti che quella mostra propose è stata allestita con criterî museografici contemporanei (e ovviamente non è che una piccola parte di quanto Ojetti aveva radunato nelle sale di Palazzo Vecchio), ma appare lodevole l’idea d’includere, nel percorso di Ottocento, una porzione di quell’esposizione ch’era stata immaginata, come l’autore stesso s’era premurato di sottolineare, per “rivelare la continuata gloria del Ritratto italiano dagli ultimi anni del ’500 fino al 1861, cioè fino alla proclamazione del Regno e alla grande Esposizione d’arte che quell’anno stesso a Firenze provò alla nuova Nazione l’esistenza di un’arte magnificamente italiana”, ed era guidata dalla volontà di scegliere “i ritratti più belli e più importanti per la storia”. Una mostra che comunque, al di là della sua carica retorica (“la mostra fiorentina”, sottolinea giustamente Tommaso Casini nel suo ottimo saggio dedicato alla grande esposizione, “riuscì a consolidare [...] una intrinseca vocazione identitaria e patriottica”, e Ojetti “intese dimostrare con spirito esplicitamente nazionalistico e campanilistico la grandezza dell’arte italiana, a confronto di quella degli altri paesi europei”), ebbe il non trascurabile merito d’esser stata la prima a considerare il genere del ritratto in un’ottica d’insieme lunga quattro secoli (e molti dei periodi che la mostra attraversava, allora erano stati oggetto di studî poco o per niente approfonditi), e al contempo si poneva l’intento di fotografare, evidenzia ancora Casini, il volto d’una nazione. La presenza di quell’esposizione in Ottocento è pertanto una delle scelte più felici da parte dei curatori, dal momento che offre al visitatore un sunto delle convinzioni e delle aspirazioni del tempo sul tema del rapporto tra arte e identità (e si trattò, peraltro, d’una rassegna di gran successo, dato che registrò oltre 170.000 visitatori: numeri da grande evento anche al giorno d’oggi). La selezione di Mazzocca e Leone ha tenuto conto delle opere di maggior qualità che il pubblico poteva trovare nelle trenta affastellatissime sale dei quattro appartamenti di Palazzo Vecchio nelle quali i ritratti furono sistemati: spiccano alcuni dipinti di grande rilevanza come il Ritratto della madre di Guido Reni, il Ritratto di Ferdinando Gini di Luigi Crespi o il Ritratto di Giacomo Rota di Gaspare Landi, mentre in coda sono stati aggiunti i ritratti eseguiti da artisti che operavano nel momento in cui la mostra veniva allestita. Un’opera importante come le Tre donne di Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 - Verona, 1916) apre così all’ultima sezione della rassegna, dove s’analizzano le tendenze che avrebbero inaugurato il ventesimo secolo: il compito non può ch’essere affidato a Giovanni Segantini e Giuseppe Pellizza da Volpedo, di cui sono presenti alcuni capolavori (su tutti le celeberrime Due madri di Segantini e Lo specchio della vita di Pellizza), e che con il loro sperimentalismo portano ai suoi vertici la tecnica divisionista, il “vero linguaggio da cui ripartì il Novecento” (Francesco Leone). A loro, i curatori aggiungono la figura di Francesco Paolo Michetti (Tocco da Casauria, 1851 - Francavilla al Mare, 1929), considerato come l’artista che rappresentò, per l’Italia centrale e appenninica, ciò che Segantini fu per il Settentrione e per le Alpi.

Telemaco Signorini, L'alzaia (1864; olio su tela, 54 x 173,2 cm; Concezione Ltd)
Telemaco Signorini, L’alzaia (1864; olio su tela, 54 x 173,2 cm; Concezione Ltd)


Onofrio Tomaselli, I carusi (1905 circa; olio su tela, 184 x 333,5 cm; Palermo, Galleria d'Arte Moderna Empedocle Restivo)
Onofrio Tomaselli, I carusi (1905 circa; olio su tela, 184 x 333,5 cm; Palermo, Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”)


Angiolo Tommasi, Gli emigranti (1896; olio su tela, 262 x 433 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Angiolo Tommasi, Gli emigranti (1896; olio su tela, 262 x 433 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Giuseppe Pellizza da Volpedo, Tramonto (Il roveto) (1902; olio su tela, 73 x 92 cm; Piacenza, Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi)
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Tramonto (Il roveto) (1902; olio su tela, 73 x 92 cm; Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi)


Vittorio Matteo Corcos, In lettura sul mare (1910 circa; olio su tela, 130 x 228 cm; Collezione privata)
Vittorio Matteo Corcos, In lettura sul mare (1910 circa; olio su tela, 130 x 228 cm; Collezione privata)


Ettore Tito, Luglio (1894; olio su tela, 97 x 155 cm; Trissino, Fondazione Progetto Marzotto)
Ettore Tito, Luglio (1894; olio su tela, 97 x 155 cm; Trissino, Fondazione Progetto Marzotto)


Angelo Morbelli, Battello sul Lago Maggiore (1915; olio su tela, 58,5 x 103 cm; Milano, Collezione Fondazione Cariplo)
Angelo Morbelli, Battello sul Lago Maggiore (1915; olio su tela, 58,5 x 103 cm; Milano, Collezione Fondazione Cariplo)


Adriano Cecioni, La madre, dettaglio (1884-1886; marmo, 180 x 50 x 78 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Adriano Cecioni, La madre, dettaglio (1884-1886; marmo, 180 x 50 x 78 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Silvestro Lega, La madre (una madre) (1884; olio su tela, 191 x 124 cm; Forlì, Collezione Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì)
Silvestro Lega, La madre (una madre) (1884; olio su tela, 191 x 124 cm; Forlì, Collezione Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì)


Guido Reni, Ritratto della madre (1610-1612; olio su tela, 65 x 55 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Guido Reni, Ritratto della madre (1610-1612; olio su tela, 65 x 55 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)


Luigi Crespi, Ritratto di Ferdinando Gini (1759; olio su tela, 96,7 x 77,6 cm; Bologna, Collezioni Comunali d'Arte)
Luigi Crespi, Ritratto di Ferdinando Gini (1759; olio su tela, 96,7 x 77,6 cm; Bologna, Collezioni Comunali d’Arte)


Gaspare Landi, Ritratto del conte Giacomo Rota con il suo cane (1798; olio su tela, 100 x 73 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
Gaspare Landi, Ritratto del conte Giacomo Rota con il suo cane (1798; olio su tela, 100 x 73 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)


Umberto Boccioni, Tre donne (1909-1910; olio su tela, 170 x 124 cm; Milano, Gallerie d'Italia di piazza Scala)
Umberto Boccioni, Tre donne (1909-1910; olio su tela, 170 x 124 cm; Milano, Gallerie d’Italia di piazza Scala)


Giovanni Segantini, Le due madri (1889; olio su tela, 162,5 x 301 cm; Milano, Galleria d'Arte Moderna)
Giovanni Segantini, Le due madri (1889; olio su tela, 162,5 x 301 cm; Milano, Galleria d’Arte Moderna)


Giuseppe Pellizza da Volpedo, Lo specchio della vita (E ciò che l'una fa, e le altre fanno) (1895-1898; olio su tela, 132 x 291 cm; Torino, Galleria Civica d'Arte Moderna)
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Lo specchio della vita (E ciò che l’una fa, e le altre fanno) (1895-1898; olio su tela, 132 x 291 cm; Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna)

La principale novità della rassegna forlivese sta soprattutto nell’aver collocato in una prospettiva unitaria e diacronica, e alla luce delle più recenti conquiste degli studî, esperienze così diverse per fornire al pubblico un sunto di ciò che fu l’Ottocento in Italia: come ribadito, le sezioni, prese singolarmente, non aggiungono molto rispetto a quanto già è stato esaminato in passato (benché diverse siano ben riuscite: in particolare, quella sui temi sociali), ma rimangono fermi l’innegabile valore divulgativo dell’esposizione e la capacità d’offrire ai visitatori rilevanti spaccati di quanto avvenne nell’Italia artistica del secolo diciannovesimo, il tutto arricchito da allestimenti in grado di suscitare il massimo coinvolgimento. E se ci vuole spingere oltre, si potrà ritenere (come del resto è già stato osservato) la mostra di Forlì come un nuovo capitolo della riscoperta dell’Ottocento italiano, come ulteriore tappa d’un percorso che negli ultimi quattro o cinque anni ha conosciuto una frenetica e importante accelerata (si considerino giusto le mostre elencate in apertura). Varrà la pena ricordare come, sull’Ottocento italiano, abbiano pesato negativamente soprattutto due circostanze: la sua estrema frammentarietà e la scarsa tendenza alla contaminazione e allo scambio tra le diverse scuole che composero il grande affresco del diciannovesimo secolo in Italia, e i pesanti giudizî di molti studiosi, responsabili di una condanna che per un lungo lasso di tempo non ha avuto appello. Per esempio, la predilezione di Roberto Longhi per le coeve esperienze francesi, dal realismo all’impressionismo, lo aveva portato a parlare del “nostro minuto Ottocento coi suoi modesti riflessi di avvenimenti di ben altro peso verificatisi in Francia e da noi sempre diminuiti” e, in riferimento soprattutto ai macchiaioli, dei “nostri, modesti adorabili provinciali”, intendendo con ciò sottolineare il ritardo che, a suo avviso, l’arte italiana scontava nei riguardi delle contemporanee esperienze francesi. Considerazioni che, da qualche anno a questa parte, l’odierna critica sta cercando di ribaltare per porre sotto nuova luce tutti gli aspetti originali del nostro Ottocento.

In definitiva, niente di nuovo per gli studiosi (anche sul fronte delle scoperte: si segnala giusto una replica in bronzo, inedita, del Minatore di Enrico Butti), e di conseguenza una rassegna che non spicca per scelte particolarmente originali, ma per il pubblico una considerevole occasione d’approfondimento, una mostra riepilogativa forse un poco faticosa, ma comunque ricca, soprattutto d’opere ben note (anche se non mancano lavori da collezioni private, alcuni esposti per la prima volta al pubblico): in fondo, visitarla è come ripassare l’Ottocento su di un grande manuale di storia dell’arte le cui pagine sono state portate “in vita” dai curatori.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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