Autorità suprema fino ai limiti dell'eterno. Il cosiddetto Virgilio Romano (Vat. Lat. 3867)

Antiquitates

2012, Sesta puntata

Si parla di codici miniati nella rubrica "Antiquitates": protagonista della sesta puntata è il manoscritto cosiddetto "Virgilio Romano" (Vat. Lat. 3867), un codice prodotto tra il quinto e il sesto secolo dopo Cristo che conserva una delle più antiche copie illustrate che si siano conservate delle opere di Virgilio: le "Bucoliche", le "Georgiche", l'"Eneide". L'antichità del testo, il ricco apparato illustrativo, l'eleganza della scrittura ne fanno un documento particolarmente prezioso. E in più, Luca ci introduce all'argomento con una breve storia del passaggio dal rotolo al codice!

Il periodo compreso tra i secoli IV e VI fu un momento di profondi mutamenti politici, sociali, economici e culturali. Tra il 313, con l’editto di Costantino, e il 380, con quello di Teodosio, il Cristianesimo divenne l’unica religione di stato. Nel 330 era stata fondata la nuova Roma (Costantinopoli) con l’intento di spostare verso Oriente il fulcro dell’Impero; in tale maniera la pars occidentis rimase quasi in balia di se stessa e fu soggetta alla pressione delle orde barbariche che muovevano da oltre Reno. Nel 410 Roma, che per mille anni era stata il cuore pulsante del Regno e dell’Impero, venne brutalmente saccheggiata; avvenimento che sconvolse l’animo dei cittadini1 e che contribuì all’impulso della vecchia aristocrazia di migrare verso Oriente. Infine, nel 476 Odoacre depose Romolo Augusto, l’ultimo imperatore d’Occidente, sancendo così di fatto la caduta di quella parte dell’Impero.

La formazione dei nuovi stati barbari avvenne sotto il labaro della Chiesa che, con vigorosa energia, portò avanti una politica di evangelizzazione dei nuovi arrivati innestandosi sulle vecchie divisioni amministrative e legando, sotto un unico ideale religioso, popoli tanto eterogenei. Si assistette inoltre alla formazione di una nuova aristocrazia fatta di parvenu, gente che non era nata ricca né tantomeno cresciuta sotto l’egida del mos maiorum romano (letteralmente, il costume degli antenati).

Da un punto di vista della trasmissione della cultura, tra III e IV secolo si registra, inoltre, un avvenimento epocale: il passaggio dal rotolo al codice. Durante tutta l’epoca romana (oltre che precedentemente all’interno di altre culture) la redazione, la conservazione e la lettura dei testi avveniva su rotoli di papiro che venivano scritti su colonne e la cui fruizione avveniva srotolando il cosiddetto volumen con una mano e arrotolandolo con l’altra, lasciando visibili solo una o due colonne di scrittura. La durata della “vita” di un rotolo non superava in media i duecento anni, dopodiché si procedeva con una nuova redazione e con la sostituzione del vecchio testo. A partire dal III secolo invece, l’affinamento della produzione della pergamena (ricavata attraverso la concia della pelle ovina o vaccina) permise l’utilizzo di un materiale nettamente più resistente (quasi eterno, se mantenuto con le dovute accortezze). Le pagine di pergamena venivano cucite insieme a formare i codices che hanno l’aspetto degli odierni libri. Il passaggio dal rotolo al codice, in un’epoca in cui la cultura era diventata di matrice sostanzialmente cristiana, comportò una precisa scelta dei testi che “meritavano” di essere copiati e tramandati. I Padri della Chiesa, ad esempio, si scagliarono in feroci invettive contro i testi di natura prettamente pagana, alcuni dei quali, dunque, subirono una sorta di damnatio memoriae, con l’esito di essere ad oggi irrimediabilmente perduti.

Nonostante tale stato delle cose, le scuole di grammatica che rimasero attive continuarono i loro insegnamenti sulle basi delle grandi autorità del passato, di cui spesso troviamo echi e citazioni. Virgilio, ad esempio, uno dei massimi autori di I secolo d.C., godette di una enorme fortuna durante tutto il Medioevo e oltre, sulla base del fatto che molti passaggi dei suoi versi potevano essere interpretati in chiave cristiana (tanto che Dante, che lo definisce “autorità suprema fino ai limiti dell’eterno”, lo sceglierà come sua guida nel viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio).

Con queste premesse ci possiamo accostare senza rischi di eccessivo disorientamento, all’opera che intendiamo trattare di seguito. Si tratta di un manoscritto conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Vat. Lat. 3867) che è conosciuto, a partire dal 1521, come Virgilio Romano. Il Virgilio Romano è un codice pergamenaceo attualmente composto da 309 fogli (ma si ritiene che in origine ne avesse circa 411), nel quale si conserva in maniera frammentaria una delle più antiche copie illustrate delle Bucoliche, delle Georgiche e dell’Eneide. È stato scritto in una data imprecisata tra V e VI secolo con una grafia che all’epoca veniva utilizzata per manoscritti di pregio, conosciuta col nome di capitale rustica. La monumentalità e l’eleganza della scrittura unite ad un ricchissimo apparato illustrativo fanno di questo codice un oggetto di lusso, un prodotto che rappresenta uno status symbol. Infatti, la quantità di errori presenti nel testo e il fatto che questi siano stati corretti non prima di tre secoli dopo la redazione del codice (in età carolingia), fanno supporre che fosse un prodotto elegante realizzato per far mostra di una collezione libraria di lusso nel quale non poteva mancare una copia di Virgilio; in ogni caso il codice non era utilizzato nei periodi di otium2 del suo possessore. Le ipotesi sulla localizzazione dello scriptorium (ovvero il luogo in cui si confezionavano i codici) di origine del Virgilio Romano sono molteplici e coprono un’area geografica che va dalla Siria alla Francia; tuttavia, ad oggi, la maggior parte degli studiosi ritiene che il testo sia stato redatto nella Ravenna di VI secolo.

Le carte superstiti prive di illustrazioni contengono ognuna 18 versi. Sopravvivono, nel complesso, 19 immagini miniate realizzate a partire da modelli tardo-antichi che, tuttavia, non sono più perfettamente compresi. Per quanto riguarda l’illustrazione delle Bucoliche, il modo di illustrare differisce sostanzialmente dalla decorazione degli altri due testi. Infatti, fatta eccezione per la prima miniatura, che rappresenta gli arcadi Titiro e Melibeo e che supera i margini della pagina, tutte le altre immagini stanno entro una cornice (all’inizio o alla fine dell’ecloga di riferimento) e ripetono due modelli: pastori immersi in un paesaggio agreste che discutono, oppure il ritratto dell’autore che è raffigurato sempre frontalmente seduto con un rotulo in mano. Per quanto riguarda questa parte del testo, dobbiamo immaginare una quasi sicura collaborazione tra colui che si occupò di scrivere il testo e colui che impaginò le illustrazioni miniate. Il fatto che testo e immagini siano sulla stessa pagina comporta un utilizzo forzato dello spazio a disposizione e del tempo di realizzazione.

La decorazione miniata degli altri due testi, invece, fu realizzata in totale indipendenza tra le figure dello scriba e quello dell’illustratore. Infatti le miniature sono tutte a piena pagina e realizzate su carte che non dovevano ricevere alcun testo sulla faccia della pergamena senza illustrazione. Considerata la monumentale dimensione delle scene rappresentate (ognuna ha un lato di circa 22 cm), si può parlare più che di miniature, di vere e proprie pitture.

Delle Georgiche sopravvivono solamente due miniature a piena pagina su due pagine consecutive, quasi a formare due valve di un dittico. Infatti le scene sono strettamente collegate e comunicano l’una con l’altra. E’ rappresentata una sorta di concerto campestre in cui, immersi nella campagna, tre pastori con i rispettivi animali al pascolo, si intrattengono suonando e conversando.

La monumentalità dell’apparato illustrativo dell’Eneide dimostra l’eccezionale importanza che questo testo ricopriva ancora nella società del V-VI secolo. La quasi completa assenza di una precisa descrizione spaziale, la volontà di “non rappresentare le cose di per sé, ma per l’idea che incorporano”, la scelta di trasmettere sentimenti religiosi solo a personaggi “neutri”, positivi o che non fanno diretti richiami al paganesimo, dimostrano che lo scriptorium per quanto importante che fosse, era ormai probabilmente orientato alla produzione di testi di matrice cristiana. In ogni caso la nuova religione influì sull’atteggiamento di chi si occupò dell’illustrazione di questo testo. Pensiamo al timore (quasi si può parlare di pudore) con cui il miniatore si è accostato alla rappresentazione del nudo; pensiamo al fatto che solo il “pio” Enea è degno di replicare il gesto cristiano dell’orante.

Ci troviamo dunque di fronte al prodotto di un periodo che rappresenta il passaggio dall’antichità al medioevo. Un codice di prestigio destinato, come abbiamo visto, più alla tesaurizzazione che alla fruizione e che godette di grande fortuna. Prodotto verosimilmente in uno scriptorium ravennate nel VI secolo (in un momento in cui la città attraversava un periodo di particolare fioritura economica e culturale), intorno al IX secolo doveva trovarsi nella biblioteca dell’abbazia parigina di Saint-Denis dove rimase almeno fino al XIII. In questo secolo, infatti si datano alcune note che sono apposte su due carte del testo. Infine, nel 1475 il nostro codice compare in un elenco di manoscritti presenti nel Palazzo Vaticano dove, cambiando collocazione nel corso del tempo, è rimasto fino alla creazione della Biblioteca Apostolica Vaticana in cui si trova a tutt’oggi.

Bibliografia

  1. Vergilius Romanus (Codice Vaticano Latino 3867 conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana), a c. di Italo Lana, Milano-Zurich 1986
  2. C. Bertelli, Le illustrazioni del Virgilio Romano nel contesto storico e artistico, in Wolvinio e gli angeli. Studi sull’arte medievale, Mendrisio Academy Press 2006, pp. 25-67

Note

1. La cittadinanza romana (dapprima garantita solo agli abitanti dell’Urbe e, dal III secolo, allargata a diversi abitanti dell’Impero) consentiva l’accesso alle cariche pubbliche, alle varie legislature e dava diritto ad utilizzare la legge secondo lo ius civile, il diritto romano.

2. Con il termine otium si intende il tempo libero dedicato dalle classi dominanti alla pura attività intellettuale nel quale si leggevano testi letterari o si discuteva di questioni filosofiche e in generale ci si dedicava alle attività di pensiero.

Luca Cipriani








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