Lunga intervista al Patriarca di Venezia: “ticket o numero chiuso? Vuol dire musealizzare la città”


Una lunga intervista a Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia, in cui si parla di turismo in città, di beni culturali e chiese a pagamento, dello spopolamento del centro storico e molto altro.

I problemi di Venezia visti dall’occhio del principale punto di riferimento della comunità cattolica della città lagunare: il Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia (Genova, 1953), che regge il Patriarcato dal 31 gennaio 2012. Un dialogo sull’overtourism che affligge la città, sulle politiche per fermarlo (in particolare le ipotesi del ticket o del numero chiuso), sullo spopolamento del centro storico ma anche su questioni inerenti i beni culturali, su tutti gli ingressi a pagamento in molte chiese di Venezia. E poi, argomenti di carattere più strettamente pastorale.

AL. Da pastore di una comunità millenaria cosa pensa del progressivo spopolamento della Venezia lagunare a vantaggio di turisti che vengono solo per visitare e non vivere? Può vivere una Chiesa come museo senza un popolo che ne faccia esperienza vissuta?

Francesco Moraglia
Francesco Moraglia

FM. Il costante spopolamento della città di Venezia (mi riferisco al centro storico e alle isole) è un fatto che intacca strutturalmente la comunità e, alla fine, ne mina l’esistenza - che esige un continuo e concreto ricambio - ed è così anche per la vita della Chiesa. Non ridurrei però la questione al solo binomio residenti - turisti. Vi è, infatti, anche una numerosa “popolazione” studentesca, con presenze di giovani che danno vita ad una forma semiresidenziale integrandosi, seppure temporaneamente, nella vita della città. Lo stesso avviene per categorie professionali e con incarichi pluriennali a Venezia. Lo stesso turismo conosce, inoltre, livelli che lo differenziano con presenze fugaci ma ricorrenti.

Venezia oggi è una meta del turismo mondiale per la sua particolarità unica al mondo. È qualcosa da ‘vedere’ a prescindere. Un’attrattiva mondiale che rende problematico quello che per altri sarebbe una fonte di benessere: il turista. Cosa ne pensa delle proposte per ‘arginare’ il problema come il numero chiuso per i non residenti?

Limitazioni quali il numero chiuso o forme di tassazione all’ingresso potrebbero risultare discriminatorie, difficilmente praticabili e, credo, arrecare difficoltà alla popolazione residente nei rapporti con amici e parenti che avrebbero il diritto di recarsi a Venezia per visitarli ed incontrarli. Tali misure potrebbero sì prevedere una serie di esenzioni, ma con non poche complicazioni, soprattutto nei meccanismi di verifica. Oltre a queste difficoltà organizzative, che le amministrazioni locali certamente dovrebbero valutare, rimane la preoccupazione sull’impatto psicologico che eventuali provvedimenti-filtro nell’entrare e uscire dalla città potrebbero avere sulla popolazione residente e sulla percezione esterna. A ben considerare, alla fine, si contribuirebbe alla “musealizzazione” di Venezia creandone ancor più l’immagine di “parco turistico”.

I residenti quasi sono stati espulsi si potrebbe dire, dai turisti, lasciando le case e trasformandole in b&b. Con un emendamento alla Legge speciale per Venezia il Sindaco da un anno ha il potere di limitare i pernottamenti dei turisti ma ancora non ha usato questo potere. Si sta cercando una soluzione meno drastica?

Mi lasci dire: a ciascuno il suo! Non sta al vescovo valutare gli strumenti giuridici e politici con i quali le amministrazioni locali potrebbero affrontare la situazione. Posso però dire che, nonostante tutto, a Venezia c’è ancora una quota di popolazione residente e “viva”, oltretutto fortemente motivata dall’amore che nutre per questa città unica. Ritengo, anzi, che l’enfasi sulla pur innegabile criticità del rapporto tra il cosiddetto “overtourism” e i residenti sia, alla fine, fiaccante e demotivante. Non giova ad un malato assillarlo col ripresentargli ossessivamente lo stato della sua malattia. Serve solo a deprimerlo, a persuaderlo dell’irrimediabilità e ineluttabilità della situazione e, alla fine, a fargli gettare la spugna finendo per svuotare Venezia degli ultimi residenti, alcuni dei quali lamentano di sentirsi considerati come un “incomodo”, quasi fossero di impedimento ad un ulteriore sviluppo del turismo anziché la condizione necessaria affinché la città rimanga viva come una vera città e non la quinta di un palcoscenico. Questa a me sembra una condizione irrinunciabile per un turismo consapevole. Che gusto potrebbe avere un visitatore a trovarsi in una città privata della sua stessa vita, del “vissuto” della sua quotidianità, delle sue tradizioni popolari, dell’incontrarsi e parlare nelle calli, nei campi e campielli, nelle fondamenta, con la gente, sentendo risuonare la caratteristica cadenza dell’accento dialettale? Non ne perderebbe la sua stessa esperienza di visita?

L’Unesco vorrebbe inserire Venezia nella black list del patrimonio mondiale a rischio, imputando la colpa al sovraffollamento del turismo con tutto ciò che ne consegue. Cosa pensa di questa fragilità proclamata per la sua città dal massimo organismo di tutela del patrimonio culturale mondiale? Siamo veramente vicini al limite?

Auspico che tale intenzione si debba intendere come la volontà di alzare il livello di guardia verso un pericolo che sempre più minaccia una città unica al mondo, rimarcando, in tal modo, un rischio che in nessun modo va sottovalutato. Personalmente lo intendo come un forte richiamo ad un impegno sinergico – in ambito politico, culturale, economico, locale, nazionale ed internazionale - per promuovere al meglio la salvaguardia e la tutela dell’intera città, del suo territorio e del suo straordinario patrimonio naturale, artistico e culturale.

Venezia, Punta della Dogana
Venezia, Punta della Dogana
Venezia, il Canal Grande
Venezia, il Canal Grande

Si sta dibattendo molto a livello politico e amministrativo di soluzioni per vietare o limitare gli affitti turistici. Quello che stanno vivendo molti centri storici italiani lo ha iniziato a vivere Venezia per prima già molti anni fa: la scomparsa di negozi, artigiani e tutto quanto non sia utile ad un turista (cui interessa solo bere e mangiare). Le chiese e le monumentali bellezze che il cristianesimo ha prodotto qui nei secoli sono svilite nel loro valore?

Non sono d’accordo che a un turista “interessi solo bere e mangiare”. C’è senza dubbio anche un turismo superficiale e che nel viaggiare sembra più preso dalla smania di un girare a vuoto, magari per il solo gusto di “essere stato” in quel dato luogo, senza in realtà conoscerne nulla. Ma sono non poche le persone che visitano Venezia perché attratte dalla sua bellezza unica, dalle straordinarie opere d’arte custodite nelle chiese, nei palazzi, nei musei e nelle collezioni, per non dire del fascino di un tessuto urbanistico davvero unico e in cui chi si pone nella dimensione dell’osservazione e dell’ascolto trova un universo simbolico pronto a parlare al suo cuore. La sfida che ci sta di fronte oggi è superare la logica del turismo “mordi e fuggi” che, nella misura in cui è incontrollato, diviene inoltre un fattore di degrado – anche fisico – della città. E la soluzione non è un turismo elitario, ma consapevole.

Alla devozione gratuita del cristiano che, a suo tempo, ha contribuito a realizzare chiese e opere d’arte si contrappone una città carissima per chiunque: residenti e turisti (dal caffè al panino, dal dormire ai trasporti). Una città dove la bellezza adesso è solo per ricchi?

Tra le cose che più addolorano, soprattutto per le famiglie numerose a medio o basso reddito, è che tanta bellezza non sia accessibile a causa dei costi sempre più elevati proprio a chi, forse, è più motivato di altri e potrebbe goderne arricchendosi nello spirito e nell’anima. Nella qualificazione di un turismo più sostenibile e consapevole sarebbe auspicabile la messa a punto di qualche strumento per offrire maggiori opportunità a quanti aspirerebbero a “conoscere” Venezia con interesse e passione per i tesori d’arte, di storia e di fede che custodisce. Spesso i tesori artistici sono frutto dell’esperienza di fede del popolo. E questo non va dimenticato, altrimenti si “vedrebbero” ma non se ne avrebbe l’”intelligenza”.

Cosa ne pensa del contributo obbligatorio d’ingresso richiesto per visitare i luoghi di culto? In sostanza un biglietto.

Il tema è quanto mai delicato. Condizione irrinunciabile è che, comunque, sia garantito il libero accesso a chi vuole entrare in chiesa per pregare. Nel 1997, per far fronte alle necessità gestionali e degli elevatissimi costi di manutenzione delle chiese, è stata anche fondata l’associazione “Chorus” che ha introdotto un regime di contribuzione economica per l’accesso ad alcune chiese (non tutte, oggi sono 17) che hanno aderito all’iniziativa, con la possibilità, appunto, di un contributo economico unitario nella logica di una valorizzazione culturale e teologico-catechetica dei luoghi di culto. Ciò ha dato la possibilità di tenere aperte molte chiese che, diversamente, sarebbero rimaste chiuse. Ma il rischio è quello di indurre i visitatori a considerare le chiese spazi museali, anziché luoghi di celebrazione. Ribadisco che si è cercato di ovviare a ciò lasciando libero accesso a tutti per la preghiera, non solo negli orari delle celebrazioni, in cui si attiva la vera dimensione nella quale vanno vissuti questi luoghi, comprese le stesse opere d’arte che illustrano visivamente - in autentiche pagine di teologia per immagini - il mistero celebrato.

Cosa ha pensato in questi anni quando affacciandosi dalla finestra del suo ufficio vedeva le navi da crociera, alte decine di metri, in questo contrasto tra moderno e antico che si lambiscono? È favorevole o contrario a vietarne l’ingresso in laguna?

La vista delle grandi navi da crociera mi induceva ad una riflessione sul necessario rispetto della delicatezza e fragilità - quasi “sacralità” - di questa città e del suo ecosistema lagunare. Richiamava anche le complesse esigenze del lavoro e della vita di molte persone, nel cui indotto si trovano ad operare, e che vanno pure considerate insieme a quelle della tutela di un ambiente unico, naturale e urbanistico; il lavoro contribuisce a costituire la dignità della persona umana. Per secoli la città si è retta e ha prosperato su un delicatissimo equilibrio in cui l’opera dell’uomo ha interagito con l’ambiente, in un dialogo tra uomo, natura e cultura all’insegna del rispetto delle peculiarità del luogo e dei limiti che imponeva all’artificio umano. E l’uomo ha genialmente interpretato questo rapporto sino a trarne nei secoli l’elaborazione di una tessitura urbanistica unica al mondo: la Venezia che oggi conosciamo. Oggi, spesso, abbiamo smarrito questo senso del limite, di una cooperazione armonica e responsabile con la realtà naturale e le risorse a disposizione; è quello che Papa Francesco chiama “ecologia integrale”, come atto di responsabilità verso la vita umana stessa. E vediamo come ne soffre la nostra casa comune, il pianeta terra. Sotto questo aspetto Venezia appare come un iconico microcosmo del rapporto con l’ambiente su scala planetaria e può essere un interessante laboratorio nel quale realizzare una rinnovata cultura del limite e dell’armonizzazione perché, di fatto, la città e la laguna sono state questo nei secoli.

Venezia è l’icona dell’arte mondiale: qui si è espressa ed è andata evolvendosi fino alle importanti manifestazioni internazionali di arte, che oggi è arte contemporanea. L’arte con Venezia ha, quindi, un connubio inscindibile. Cosa le ha permesso di avere questa capacità di trasmettere per secoli questo testimone del mecenatismo e della ricerca dell’espressione artistica tra queste isole?

Credo sia stata la straordinaria libertà d’immaginazione e creatività che questo ambiente naturale, inizialmente privo di quasi tutto, ha indotto nel genio umano. Una creatività fecondata dall’esperienza dell’interiorità, favorita dalla quiete dell’ambiente lagunare e dall’insularità dei suoi insediamenti civili, sin dalle origini, segnati dalla presenza di chiese antichissime e coagulati in poli abitativi attorno ad esse, come è stato ad esempio per Altino e Torcello.

Cosa pensa che possa essere determinante per far scattare nell’uomo quel desiderio di bello e di vero che lo ha spinto nei millenni a rappresentare il suo rispetto e la sua gratitudine ai propri dèi creando altari e simulacri che fossero preziosi e belli? Il bello è lo splendore del vero si direbbe...

La bellezza è, senza dubbio, un’alta espressione dell’esperienza di verità dell’umano e la tradizione spirituale cristiana, riconnettendosi a Platone e al platonismo, descrive Dio stesso come suprema Bontà e Bellezza. Essa, però, ha bisogno di spazi di silenzio e di riflessione per essere colta e Venezia sarebbe la città ideale, in tal senso, come “città dei silenzi” benché questa sua proprietà sia sempre più aggredita e intaccata dal turismo di massa e dalla sua crescente invasività in termini di inquinamento acustico. Anche qui si apre una sfida: nella qualificazione di un turismo consapevole dovremmo saper educare alla contemplazione della bellezza. In senso umano, innanzitutto, perché la contemplazione è sguardo e, insieme, pensiero; è l’umano nella sua esperienza elementare, condizione del dischiudersi delle porte del cuore alla trascendenza.

Quando i primi arrivavano su un’isola della laguna il primo edificio che si curavano di tirare su era un luogo di culto. Ci sono infatti isole che hanno appena la chiesa fino ad arrivare al massimo della magnificenza come San Marco. Oggi, paragonando la società moderna a quella di quei primi cristiani, probabilmente la prima cosa che penserebbero a costruire su un’isola appena attraccati sarebbe lo stadio o un albergo: quanto è cambiata la fede e la devozione con essa e quanto è cambiata l’arte sacra in questi secoli?

Nonostante la riduzione materialistica del vissuto dell’uomo contemporaneo, la nostra società soffre paradossalmente di un eccesso di “astrazione”. Astrazione dalla vita nella sua concretezza, innanzitutto, come si può constatare da taluni atteggiamenti e da un certo modo di intendere la politica e il diritto oggi e dalla posizione dell’individuo nella società civile; c’è come una fabbrica dell’astrazione che “genera” un diritto per ogni desiderio. Gli stessi credenti, uomini e donne immersi in questo tempo e nella sua cultura, soffrono di tale inclinazione in cui persino la fede rischia l’astrazione dalla vita e finisce per contrarsi in un’interiorità individualistica; si riduce solo a un “pensato” ciò che in realtà chiede d’essere “creduto” da tutto l’uomo - spirito, anima e corpo (1 Ts 5,23) -. L’arte, e l’arte sacra in particolare, rappresenta una risorsa di straordinario valore nel richiamare la fede al realismo cristiano dell’incarnazione, rimettendoci a contatto con la bellezza della realtà che esprime nei suoi linguaggi figurativi. La fede cristiana al suo centro ha l’Incarnazione, la Passione, la Morte, la Risurrezione e l’Ascensione di Gesù Cristo; è, inoltre, fede nella risurrezione della carne. Certo, dobbiamo fare in modo che le sue opere parlino ancora al cuore dell’uomo e si rendano intelligibili nelle loro narrazioni, non più scontate per il venir meno dei riferimenti della cultura biblica e catechetica in moltissime persone. Anche qui si apre una sfida a cui il Patriarcato di Venezia è sensibile.

Il cristianesimo ha generato un patrimonio numericamente e qualitativamente rilevantissimo nei secoli e San Marco è di una bellezza ricchissima. Il messaggio che trasmette è quello di un popolo che ama il proprio Dio e che gli offre il regalo più bello. La precisione dei mosaici del soffitto ne è un esempio. Quanto secondo Lei l’arte può essere veicolo di evangelizzazione?

San Marco è uno scrigno unico con una concentrazione teologico-iconografica senza pari. Ma una chiesa, prima di raccontare un popolo che ama il proprio Dio e prima d’essere un tempio elevato dall’immaginazione umana - che proietta qualcosa d’immaginario fuori di sé per adorarlo e tributargli onori umani -, racconta l’esperienza di un popolo che, per primo, è stato amato da Dio sino al sacrificio supremo del Figlio. E questo sacrificio - nel mistero pasquale rappresentato in completezza dalla passione, morte in croce e risurrezione di Cristo - disegna sull’arcone centrale di San Marco l’asse che catalizza l’intera storia della salvezza che si dispiega su tutta la superficie mosaicata delle volte e delle pareti della basilica. San Marco è il densissimo e toccante racconto di questa esperienza del vissuto che si dispiega nella storia e nella meraviglia, generatrice della bellezza, di chi ha esperito personalmente cosa significhi l’essere salvato e accolto nell’oceano d’oro della misericordia di Dio. San Marco, non per nulla, è denominata la Basilica d’oro.

Folla in piazza San Marco a Venezia
Folla in piazza San Marco a Venezia
La basilica di San Marco
La basilica di San Marco
Lattanzio Querena e Liborio Salandri, Giudizio Universale (1836; mosaico; Venezia, Basilica di San Marco). Foto: Alex Micheu
Lattanzio Querena e Liborio Salandri, Giudizio Universale (1836; mosaico; Venezia, Basilica di San Marco). Foto: Alex Micheu

È venuta meno anche una vena artistica? E questo forse è segno di una fede meno viva? Mi spiego: le chiese moderne spesso sono anonime o, peggio, solo dei luoghi meramente “funzionali” a una gestione di assemblea di persone, perdendo di vista lo scopo del perché ci si riunisce. Lei che ne pensa?

Non sempre le chiese contemporanee sono anonime e insignificanti ma, purtroppo, non poche lo sono. Forse si può dire che vi sono chiese più riuscite e meno riuscite. Il criterio di giudizio dev’essere quello della specificità dello spazio sacro per la celebrazione liturgica. Una chiesa strutturata come una sala conferenze, ad esempio, snatura la stessa comprensione della celebrazione liturgica rischiando di schiacciarla sul piano intellettualistico (se non funzionale) di una catechesi sulle letture, quando il cuore in realtà è l’Eucaristia. La riuscita di un’architettura sacra dipende molto da quanto riesce a differenziarsi dagli spazi comuni della quotidianità, da quanto sa esprimere simbolicamente “altro” e soprattutto ”l’Altro”. Lo stesso dovrebbe valere per la musica liturgica che, come forma altissima di arte, ha uno strettissimo legame con l’architettura sacra. Anche in tal senso Venezia ha moltissimo da mostrare e raccontare. A Venezia, da prima del XIV secolo, la Cappella Marciana è inseparabile dalla Basilica.

Nell’esprimersi degli artisti contemporanei con soggetti religiosi, pur essendo loro stessi credenti, non trova una minor capacità di essere apprezzati ed efficaci con il messaggio che aveva l’arte sacra in altre epoche?

L’arte sacra contemporanea si esprime in canoni simbolici non sempre di semplice e immediata comprensione, perché spesso meno espressamente iconici, e secondo reinterpretazioni e soluzioni figurative che, nel distaccarsi da un naturalismo didascalico nella rappresentazione (quale era maturato, per esempio, alla fine dell’Ottocento), possono risultare sul piano estetico più difficilmente, o meno, fruibili. Va quindi operata, dove è possibile e sensato, una mediazione e un’educazione alla comprensione del significato, a volte profondo, delle opere di arte sacra contemporanea, soprattutto nei contesti dello spazio liturgico.

Spesso chiese e musei diocesani hanno opere che potrebbero essere valorizzate meglio in termini di conoscenza dei fedeli e anche come fonte di rendita, sempre utile per aiutare i bisognosi. Quanto si scontra l’idea del fare ‘parrocchiale’ (nell’accezione negativa comune del termine che sta per una cosa fatta alla buona) rispetto ad una gestione manageriale delle opere d’arte?

Si scontra nel momento in cui per “gestione manageriale” intendessimo un cinismo imprenditoriale che, insensibile alla originaria collocazione e destinazione delle opere d’arte, le considerasse sotto l’unico profilo del profitto. Rispetto a questo opterei per il “fare parrocchiale”, espungendo però da tale espressione qualsiasi accezione negativa. Se vi è un luogo e un contesto in cui l’arte sacra può essere compresa e apprezzata nel suo significato proprio e nel suo luogo naturale, avvalendosene per la vita liturgica e la catechesi, è quello di una comunità viva celebrante. Ed è quello che chiamiamo parrocchia.

Quale delle tante opere d’arte presenti nel Patriarcato apprezza di più o a quale è legato particolarmente?

Senza dubbio – e non potrebbe essere altrimenti - la Basilica di San Marco, per il significato che ha la cattedrale come cuore della Diocesi e per l’altissima concentrazione iconografica di cui è dotata. Ma ci sono tanti altri luoghi densamente simbolici per la storia della fede vissuta a Venezia; tra questi indicherei la Basilica della Salute, amatissima dai veneziani e testimonianza ancor viva di una fede popolare e accesa, che si ridesta vivissima nella festa del 21 novembre anche in persone apparentemente lontane. Se parliamo di singole opere d’arte, poi, direi le icone della Nicopeia a San Marco e della Mesopanditissa alla Salute, che hanno catalizzato la pietà popolare di secoli. E la magnifica Pala d’Oro dell’Altar Maggiore in San Marco, raffigurazione (in una concezione grandiosa) della Gerusalemme celeste con al centro il Cristo Pantocrator tra gli Evangelisti in una festa di smalti, gemme e pietre preziose che anticipano i “colori” della città celeste.

Artista ignoto, Madonna Nicopeia (IX secolo; legno e pietre, altezza 48 cm; Venezia, Basilica di San Marco)
Artista ignoto, Madonna Nicopeia (IX secolo; legno e pietre, altezza 48 cm; Venezia, Basilica di San Marco)
Artista cretese, Madonna Mesopanditissa (XIII secolo; tavola; Venezia, Santa Maria della Salute)
Artista cretese, Madonna Mesopanditissa (XIII secolo; tavola; Venezia, Santa Maria della Salute)
Artisti bizantini, Pala d'oro (XII secolo; oro, argento, smalti e pietre, 140 x 348 cm; Venezia, Basilica di San Marco)
Artisti bizantini, Pala d’oro (XII secolo; oro, argento, smalti e pietre, 140 x 348 cm; Venezia, Basilica di San Marco)

In Italia è fortissimo il legame delle opere d’arte con il cristianesimo. Secondo Lei oggi si è persa questa consapevolezza?

Anche in Italia si scontano gli effetti di una deculturazione che ha prodotto una sorta di analfabetismo religioso e rende, in pratica, inintelligibili a molti le opere dell’arte sacra, con l’effetto, a volte desolante, di trovare tali incapacità di lettura persino in alcuni addetti ai lavori, cosa inaccettabile a prescindere dalla fede personale dei singoli. Come se uno studioso di antichità si potesse permettere di ignorare la mitologia classica, e anzi, in nome della “laicità”, ne traesse motivo di vanto...

Nel 2025, tra un anno e mezzo, ci sarà il Giubileo e anche in questo caso il turismo religioso porterà da tutto il mondo attenzione verso le nostre città così legate ad opere d’arte cristiane, al netto di Roma. Come si prepara la Chiesa veneziana a far conoscere luoghi di fede meno conosciuti e turisticamente molto attraenti e a far vivere la frenesia del viaggio ‘con la scusa dell’indulgenza plenaria’ in un atto di fede vissuto secondo la sua reale radice cristiana?

Da anni vi sono iniziative, promosse dal Patriarcato di Venezia, per la valorizzazione e l’intelligenza, presso il largo pubblico dei visitatori, del significato delle opere d’arte delle chiese veneziane e non solo. Si può citare tra tutti l’esempio del servizio di guide formate per illustrare la Basilica di San Marco, che ha dato nel tempo buoni risultati, o di una rubrica dedicata alla lettura iconologica delle opere d’arte nel settimanale diocesano “Gente Veneta”. Si tratterà ora di raccogliere la sfida che in tale ambito giunge dal Giubileo, ossia ripensare e far convogliare i molteplici sforzi e iniziative per intercettare più efficacemente i visitatori di passaggio e possibilmente accompagnarli, attraverso sussidi e con itinerari studiati, alla scoperta dell’affascinante labirinto della città. Vengono a mente le parole di Giovanni Paolo II in visita a Venezia il 16 giugno 1985. Nell’omelia della Messa in Piazza San Marco disse: “La diocesi di Venezia ha una speciale vocazione missionaria. Molte diocesi mandano i missionari in altri Paesi. Per i veneziani c’è un altro modo per vivere la missionarietà: è il mondo che viene a Venezia e visita le sue chiese straordinariamente ricche di arte. [...] Forte della sua identità cristiana, accogliente nella carità, la vostra Chiesa sia sempre pronta e aperta al dialogo con le culture, di cui Venezia è il crocevia, per annunziare ad esse il Vangelo”.


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