Al Palazzo Blu di Pisa si fa il punto sulla storia dei macchiaioli


Recensione della mostra “I Macchiaioli”, a cura di Francesca Dini (Pisa, Palazzo Blu, dall’8 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023).

Già dopo le prime sale della mostra sui macchiaioli a Pisa il pubblico potrà tirare un sospiro di sollievo: finalmente una mostra sul tema che non delude le attese. E sì che dovrebbe forse esser chiaro fin dal titolo che quella allestita a Palazzo Blu è una rassegna di alto profilo: I Macchiaioli. Punto. Senza sottotitoli, senz’abbellimenti, senza fronzoli, con fermezza e con autorevolezza, senza cercare d’irretire il visitatore. E si prova soddisfazione poiché purtroppo, da qualche tempo a questa parte, ogni volta che giunge notizia d’una mostra sui macchiaioli occorre abbassare il livello delle aspettative. In una società ch’è sempre più liquida, insicura e irresoluta, pare ci sia rimasta una sola certezza: che almeno una volta l’anno, da qualche parte in Italia, verrà organizzata una mostra sui macchiaioli. S’è perso il conto delle mostre sui macchiaioli che, spesso con esiti tutt’altro che memorabili, sono state allestite in diversi musei. Negli ultimi tre anni (e di mezzo c’è stata anche la pandemia!) ci sono state mostre sui macchiaioli alla Galleria d’Arte Moderna di Milano, alla Galleria d’Arte Moderna di Torino, a Palazzo Zabarella a Padova, a Palazzo Mazzetti ad Asti, a Palazzo delle Paure a Lecco, al Forte di Bard (e probabilmente ne dimentichiamo qualcuna), a cui vanno aggiunte le monografiche sui singoli artisti. Il perché d’un tale successo è presto detto: la vicenda dei macchiaioli è associata da molti a quella degl’impressionisti, altro nome ch’è garanzia di riuscita quando si voglia ordinare una mostra di facile presa sul pubblico, e le dimensioni del gruppo, oltre alla durata della loro esperienza e alla prolificità di molti di loro, agevola il compito dei curatori che, anno dopo anno, si sono industriati per mettere insieme selezioni spesso tutt’altro che esaltanti.

Non che siano mancate, negli anni addietro, interessante occasioni d’approfondimento (per esempio su nuclei collezionistici, o su singoli episodi: tra le iniziative più meritevoli varrà la pena citare almeno quella sugl’inediti di Silvestro Lega che si tenne nel 2015 all’Istituto Matteucci di Viareggio, oppure quella sui legami tra Signorini padre e figlio a Firenze nel 2019), ma si son viste anche mostre che, con selezioni un po’ raccogliticce e sostanzialmente prive di opere fondamentali, hanno preteso di ricostruire la storia del movimento. A Palazzo Blu la curatrice, Francesca Dini, ha invece scelto un paradigma diverso: concentrare il ragionamento soprattutto sulle origini del gruppo radunando opere d’indiscussa qualità, tra cui molti capolavori fondamentali (e per quelli assenti in mostra, per esempio il Pergolato di Silvestro Lega o L’alzaia di Telemaco Signorini, c’è il catalogo che sopperisce: le assenze, dunque, sono poche). E offrire al pubblico una storia del movimento delineata nei suoi momenti fondamentali, senza trascurare le premesse: si comincia addirittura dalla pittura di storia praticata dai futuri macchiaioli (che prima d’adottare il nome con cui sarebbero passati alla storia si presentavano come i “progressisti”), con opere che non sempre è dato vedere in rassegne che pure si propongono di fornire al pubblico una panoramica completa sulle vicende del gruppo.

E in effetti, la mostra di Palazzo Blu dà l’impressione di orientarsi lungo una precisa direzione: mettere ordine nel subbuglio espositivo che da qualche tempo in qua accompagna il nome dei macchiaioli, chiarendo alcuni aspetti del loro lavoro spesso citati a sproposito (si pensi al rapporto che questi artisti hanno avuto col Risorgimento), fornendo ulteriori spunti di riflessione (per esempio il loro legame con Pisa, su cui si concentra in catalogo il saggio di Cinzia Maria Sicca), introducendo alcune novità storiche (in particolare su Signorini a Riomaggiore: è stato rinvenuto materiale documentario inedito, vagliato da Elvira D’Amicone), e limitando il tutto agli artisti della prima generazione. Sono tagliati fuori, dunque, i vari Francesco Gioli, Niccolò Cannicci, Eugenio Cecconi, Angelo Torchi, Adolfo e Angiolo Tommasi: peccato, perché forse almeno Gioli poteva essere incluso nel percorso, per il suo ruolo di promotore del movimento, per il suo stretto legame col territorio pisano, per i suoi rapporti con Martelli e Castiglioncello.

Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli
Allestimenti della mostra I Macchiaioli

L’itinerario di visita parte con un’ouverture d’effetto: il Silvestro Lega che dipinge sugli scogli di Giovanni Fattori, opera di collezione privata ch’è però tra le più famose del gruppo, introduce la rassegna rivelando fin dall’inizio tanto le attitudini dei macchiaioli (e in particolare la loro predilezione per il lavoro en plein air), quanto le loro radicali innovazioni tecniche, dal momento che la tavoletta di Fattori, che è del 1866 e quindi appartiene alla stagione dello sperimentalismo più estremo del pittore livornese, è uno dei più puri esempi della pittura di macchia. Ma non solo: è stata scelta come proemio anche per sottolineare il modo in cui questi artisti erano soliti lavorare, e cioè da soli oppure in piccoli gruppi che percorrevano le campagne e le coste della Toscana alla costante ricerca di nuove vedute da fissare coi pennelli. Introdotti dunque d’emblée alcuni elementi di novità coi quali i macchiaioli rinnovarono la pittura italiana, si passa alle premesse che avrebbero portato alla nascita del gruppo: la mostra ci guida immancabilmente al Caffè Michelangelo di Firenze, abituale luogo di ritrovo d’una combriccola di giovani ch’erano mossi dal desiderio di svecchiare la pittura di storia, attratti dalle idee del francese Paul Delaroche che, alla celebrazione retorica dei fatti storici più altisonanti, preferiva episodi più riposti, ma da raccontare con più intensi toni drammatici. I primi a muoversi in questo senso sono Cristiano Banti, che in un suo primo tentativo del 1848 racconta l’aneddotico episodio del proprietario terriero Beccafumi che scopre il figlio d’uno dei suoi mezzadri, Domenico detto “Mecherino”, intento a disegnare pecore perfette sulla terra (il piccolo diventerà poi uno dei più grandi pittori del Cinquecento: Domenico Beccafumi), e che con ancor più enfasi, nel 1857, cercherà di immaginare Galileo davanti al tribunale dell’Inquisizione, e Silvestro Lega che ancora nel 1859 dipinge la famosa scena con Tiziano e Irene di Spilimbergo. Presenti in mostra anche i Funerali di Buondelmonte di Saverio Altamura per introdurre la figura del foggiano che fu dapprima tra gl’innovatori della pittura di storia e contribuì a diffondere a Firenze le idee del napoletano Domenico Morelli (non ci sono però suoi dipinti in mostra), e più tardi, nel 1855, si sarebbe recato assieme allo stesso Morelli e al livornese Serafino De Tivoli all’Esposizione Internazionale di Parigi, fatto che la storiografia riconosce ormai alla base della nascita del gruppo, fissato da molti studiosi proprio a quel fatidico anno in cui i giovani del Caffè Michelangelo si ritrovarono a discutere sulle idee importate dalla Francia.

È nella seconda sala che s’approfondisce la figura di Serafino De Tivoli. Purtroppo la mostra di Palazzo Blu non concede spazio agli altri esponenti della Scuola di Staggia, quel gruppo di pittori (tra i quali occorre menzionare almeno Lorenzo Gelati e Carlo Markò il giovane) che, sull’esempio della Scuola di Barbizon, s’aggirava per le campagne senesi per dipingere il paesaggio all’aria aperta: le loro ricerche pionieristiche sulla veduta, rappresentate in mostra da un paio di paesaggi di Serafino De Tivoli, uno pre e uno post 1855, ebbero, da un lato, la sfortuna di non essere sufficientemente comprese, e dall’altro quella d’esser travolte dall’Esposizione del 1855 che sancì l’affermazione della pittura di paesaggio e accelerò le indagini dei macchiaioli (si possono far risalire al periodo tra il 1856 e il 1859, e alle prime sortite di Telemaco Signorini e Vincenzo Cabianca a Venezia e sul Levante ligure, le prime prove sulla pittura di macchia). La mostra però riconosce il ruolo fondamentale di De Tivoli oltre che quello d’un altro indiscusso pioniere, l’inventore del paesaggio italiano moderno, quel Nino Costa che fu grande amico di Fattori e che in mostra è presente con un dipinto fondamentale, le Donne che imbarcano legna al porto di Anzio, che possiamo considerare il primo paesaggio moderno della storia della pittura italiana, animato com’è da una nuova idea di veduta, poiché attenta alle situazioni più umili e quotidiane e che la pittura di paesaggio precedente non avrebbe mai preso in considerazione, e soprattutto poiché capace di far risuonare all’unisono lo scorcio di litorale laziale col sentimento del pittore, in netto anticipo sulle ricerche del paysage-état d’âme della pittura europa di fine Ottocento.

La sezione seguente è un primo affondo sul sodalizio Cabianca-Signorini: con precisione chirurgica la rassegna riconduce le origini della macchia alle ricerche del veronese e del fiorentino (com’è noto da tempo agli studi sui macchiaioli, ma come spesso non appare visitando molte mostre), rappresentati in sala da alcuni dipinti che possono essere annoverati tra gli embrioni della pittura di macchia. Tra questi, lo Sposalizio a Chioggia che pur nel suo innovativo accenno di sintesi non abbandona il senso del pittoresco tipico della pittura dell’Italia settentrionale (l’affollamento delle figure affacendate nei loro compiti quotidiani, il tripudio di vele, certe pose insolite e bizzarre, alcuni elementi retorici come il marinaio che si volge verso l’osservatore), e l’Abbandonata, dipinto “risolto nel fascio di luce che investe la figura femminile e si fa carico di esprimerne l’umana sofferenza”, come scrive la curatrice in catalogo. Le ricerche condotte in occasione della mostra hanno peraltro consentito di chiarire il soggetto di questo dipinto, ch’è tratto da un poema di Giovanni Prati del 1841, l’Edmenegarda: un brano di letteratura dove però, sottolinea ancora Dini, “il richiamo alla realtà contemporanea è tanto clamoroso ed evidente agli occhi dei suoi compagni da contrassegnare un indirizzo di ricerca ben preciso, quello verso la contemporaneità”.

E la contemporaneità entra d’impatto nella mostra con la sala dedicata al Risorgimento. Contrariamente alla stragrande maggioranza delle mostre sui macchiaioli, l’insistenza sui temi risorgimentali, a Palazzo Blu, è molto limitata. Ovvero, il tanto che basta a chiarire il ruolo ch’ebbero questi pittori nei confronti dei fatti che avrebbero segnato la storia d’Italia. E se spesso i macchiaioli sono stati visti, a torto, come passivi cantori del Risorgimento (l’equivoco nasce probabilmente da una lettura superficiale delle grandi battaglie di Fattori, che le dipinse per lo più dietro commissione), la mostra di Pisa, pur riconoscendo che molti macchiaioli, sinceri patrioti, parteciparono con fervida passione agli eventi di quel tempo, tanto che diversi di loro si arruolarono per prender parte alle guerre d’indipendenza, e ci fu anche chi ci lasciò la vita (è il caso di Raffaello Sernesi, ferito nella battaglia di Condino del 1866 e morto a soli ventott’anni: ad ogni modo il saggio di Cosimo Ceccuti in catalogo ricostruisce le singole vicende d’ognuno dei macchiaioli impegnati nelle guerre), al contempo evidenzia con chiarezza che non prestarono la loro arte all’enfasi celebrativa. Non c’è retorica, dunque, ma semmai molta attenzione agli aspetti umani del conflitto: la solidarietà tra italiani e francesi nell’Artiglieria toscana a Montechiaro di Signorini, il rispettoso silenzio dei soldati che avanzano tra i caduti nel celeberrimo Campo italiano dopo la battaglia di Magenta di Fattori, l’intimità domestica delle donne di Borrani che partecipano alle battaglie da casa, colte mentre offrono il loro contributo cucendo le bandiere, o le camicie rosse dei garibaldini. Persino il ritratto di Garibaldi di Silvestro Lega coglie il generale con gli occhi abbassati, in un momento di pensosa riflessione. Da Trissino è arrivata anche una delle opere più note di Fattori, In vedetta, ch’è anche uno dei più arditi esperimenti di Fattori sulla macchia, col bianco abbacinante del muro che, nella luce abbagliante del sole estivo, amplifica il senso d’attesa dei tre soldati a cavallo, fermi ad aspettare qualcosa che accadrà (o forse no).

Giovanni Fattori, Lega che dipinge sugli scogli (olio su tavola, 12,5x28 cm; Collezione privata)
Giovanni Fattori, Lega che dipinge sugli scogli (olio su tavola, 12,5x28 cm; Collezione privata)
Cristiano Banti, Domenico Mecherino figlio di Pacio colono trovato a disegnare le pecore dal suo padrone Beccafumi (1848; olio su tela, 90 x 119 cm; Asciano, Museo Cassioli - deposito dell’Istituto d’Istruzione Superiore E. S. Piccolomini, Siena)
Cristiano Banti, Domenico Mecherino figlio di Pacio colono trovato a disegnare le pecore dal suo padrone Beccafumi (1848; olio su tela, 90 x 119 cm; Asciano, Museo Cassioli - deposito dell’Istituto d’Istruzione Superiore E. S. Piccolomini, Siena)
Cristiano Banti, Galileo Galilei davanti al tribunale dell’Inquisizione (1857; olio su tela, 110 x 140 cm; Carpi, Collezione Palazzo Foresti)
Cristiano Banti, Galileo Galilei davanti al tribunale dell’Inquisizione (1857; olio su tela, 110 x 140 cm; Carpi, Collezione Palazzo Foresti)
Saverio Altamura, I funerali di Buondelmonte (1860; olio su tela, 106 x 214 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Saverio Altamura, I funerali di Buondelmonte (1860; olio su tela, 106 x 214 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Nino Costa, Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio (1852; olio su tela, 73 x 147 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 1232)
Nino Costa, Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio (1852; olio su tela, 73 x 147 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 1232)

Sposalizio a Chioggia

Vincenzo Cabianca, Sposalizio a Chioggia (1856; olio su tela, 49 x 37 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Sposalizio a Chioggia (1856; olio su tela, 49 x 37 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, L’abbandonata (1858; olio su tela, 98 x 115 cm; Viareggio, Società di Belle Arti)
Vincenzo Cabianca, L’abbandonata (1858; olio su tela, 98 x 115 cm; Viareggio, Società di Belle Arti)
Telemaco Signorini, L'artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino (1859; olio su tela, 60x117 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino (1859; olio su tela, 60x117 cm; Collezione privata)
Giovanni Fattori, Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (1862; olio su tela, 117x175 cm; Collezione privata)
Giovanni Fattori, Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (1862; olio su tela, 117x175 cm; Collezione privata)
Odoardo Borrani, Cucitrici di camicie rosse (1863; olio su tela, 66x54 cm; Collezione privata)
Odoardo Borrani, Cucitrici di camicie rosse (1863; olio su tela, 66x54 cm; Collezione privata)
Odoardo Borrani, Il 26 aprile 1859 in Firenze (1861; olio su tela, 75x58 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)
Odoardo Borrani, Il 26 aprile 1859 in Firenze (1861; olio su tela, 75x58 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)
Silvestro Lega, Ritratto di Giuseppe Garibaldi (1861; olio su tela, 111 x 78,4 cm; Modigliana, Pinacoteca Civica “Silvestro Lega”)
Silvestro Lega, Ritratto di Giuseppe Garibaldi (1861; olio su tela, 111 x 78,4 cm; Modigliana, Pinacoteca Civica “Silvestro Lega”)
Giovanni Fattori, In vedetta (il muro bianco) (1872; olio su tela, 34,5x54,5 cm; Trissino, Fondazione Progetto Marzotto)
Giovanni Fattori, In vedetta (il muro bianco) (1872; olio su tela, 34,5x54,5 cm; Trissino, Fondazione Progetto Marzotto)

Si prosegue con una sezione dedicata al Mattino di Cabianca, che l’artista espose nel 1861 alla mostra annuale della Promotrice di Torino, quella da cui originò il nome “macchiaioli”: così furono battezzati, in tono spregiativo, da un anonimo recensore della Gazzetta del Popolo, che si firmava “Luigi” (poi identificato nel letterato Giuseppe Rigutini). Gli artisti del gruppo, che chiamavano se stessi i “progressisti” e che fino ad allora venivano definiti “effettisti” dalla critica, decisero di far loro quel nomignolo poi passato alla storia. Ma quell’esposizione fu importante anche perché rappresentò la prima occasione di successo per il movimento, un successo sancito dall’acquisto del Mattino da parte della Società Promotrice che organizzava la mostra. Era del resto un dipinto in cui il vigoroso sperimentalismo degli anni precedenti veniva attenuato in favore d’una più tranquilla ricerca degli effetti di luce, capace però di far vivere la scena: “questa narrazione, per quanto intima e garbata”, spiega giustamente la curatrice, “non avrebbe evidenza poetica se la luce atmosferica non la pervadesse rendendola viva e palpitante, restituendo ossigeno ai dolci volti pallidi nella fede, muovendo i fili d’erba, indorando i cordoli del giardino, rendendo calpestabili le zolle del povero orticello; e la ritmasse con le nette scansioni di luce e ombra capaci di restituirci il sentimento del pittore e il suo emozionarsi dinnanzi al vero”. Dopo una sala interlocutoria e un poco ridondante, in cui si dà conto della svolta che la mostra del 1861 segnò per tanti pittori del gruppo (spicca, in particolare, la Riunione di contadine di Cristiano Banti, in prestito dalla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, altro capolavoro in cui protagonisti sono gli effetti della luce crepuscolare), la rassegna di Palazzo Blu torna a occuparsi, con un balzo indietro nel tempo, della fondamentale prima stagione degli esperimenti di Cabianca e Signorini seguendoli nel loro peregrinare per la riviera apuana e per il golfo dei Poeti. Le Acquaiole di Signorini e le Donne alla Spezia di Cabianca appartengono a quegli anni d’instancabile ricerca: i due artisti tentano di catturare ora un raggio di sole che entra da un’arcata (si vedano gli Avanzi della chiesa di San Pietro a Portovenere di Cabianca), ora una figura in controluce (come quella sotto l’arco nel dipinto di Signorini), ora la luce piena del mezzogiorno, o quella che fa risaltare le pietre d’un edificio antico (ecco il dipinto di Cabianca che raffigura l’interno delle mura del Castello di San Giorgio alla Spezia, esposto assieme al suo bozzetto), fino a giungere ai bagliori dei blocchi di marmo che Cabianca dipinge sulla spiaggia di Marina di Carrara in un dipinto dal formato orizzontale, uno dei più interessanti capolavori della mostra, anche perché l’effetto di controluce sulle figure dei due protagonisti (due “buscaiol”, ovvero due lavoratori dediti a un’attività faticosissima: caricare le lastre di marmo sui velieri in partenza da Marina di Carrara) verrà ripreso da Signorini nella sua Alzaia sempre con lo stesso intento, e cioè sottolineare l’estrema pesantezza del lavoro cui tanti a quel tempo erano costretti. Nella stessa sala si trovano anche opere risalenti a dopo il 1861: il pubblico rimarrà affascinato dalla Marina a Viareggio di Signorini, dipinto dal sentore quasi romantico, dove un passante solitario si staglia contro le superfici uniformi della spiaggia e del cielo offuscato dalle nubi che coprono anche le Apuane all’orizzonte, e da una tela di grande formato, Dopo la burrasca di Luigi Bechi, che apparirà tuttavia più rigida rispetto alle opere dei colleghi.

La visita al pianterreno continua con due sale dedicate a quella che Dario Durbè chiamò la “Scuola di Castiglioncello”: s’introduce dunque la figura di Diego Martelli, critico di riferimento del gruppo dei macchiaioli, che dopo la scomparsa del padre Carlo, nel 1861, ereditò una vasta tenuta nelle pinete di Castiglioncello, divenuta abituale luogo di ritrovo dei pittori del gruppo, che venivano spesso invitati da Martelli (in mostra si trova il suo celebre ritratto eseguito da Fattori) a trascorrere del tempo nella sua villa. Si formò dunque una vivacissima comunità, che diede luogo a una delle esperienze più singolari della storia dei macchiaioli: ne nascevano, scrive la curatrice, “piccoli capolavori capaci di evocare la vastità degli spazi, la libertà di respiro che l’artista prova di fronte alla natura, non più una natura sentita nella sua immanenza, bensì vissuta intimamente, sottilmente indagata per mezzo dei principi armonizzanti del disegno e della luce atmosferica”. Sono soprattutto Giovanni Fattori, Odoardo Borrani e Giuseppe Abbati i protagonisti di questa stagione: la rassegna di Palazzo Blu allinea una serie di evocativi paesaggi dipinti perlopiù su tavole orizzontali che richiamavano le predelle delle pale rinascimentali, e sulle quali prendono forma vedute essenziali, che introducono il riguardante a una vita dal ritmo lento tra le campagne della Toscana, in mezzo a buoi che pascolano sulle rive del mare, in un’aia coi panni stesi, al limitare d’una pineta, in un campo dove le contadine sono impegnate nella loro attività di raccolta. È però anche la sezione su cui la mostra si dilunga di più, forse fin troppo, rischiando di far arrivare i visitatori stanchi al piano superiore, dove prosegue la storia dei macchiaioli.

La prima sala che s’incontra fa da contraltare a quella che s’è appena visitata: se Castiglioncello era il luogo di ritrovo di molti macchiaioli sulla costa della Toscana in estate, d’inverno molti del gruppo trovavano più comodo raggiungere le campagne di Piagentina, periferia di Firenze oggi urbanizzata ma a quell’epoca ancora in grado d’offrire scorci di rara bellezza: ne sono prova il tramonto sui campi che Silvestro Lega cattura ne I fidanzati in prestito dal Museo della Scienza di Milano, o la splendida veduta dell’Arno di Telemaco Signorini. La stagione di Piagentina si differenzia tuttavia da quella di Castiglioncello per il fatto che, nei dintorni di Firenze, i macchiaioli amavano concentrarsi anche sugl’interni, o sulla vita nelle ville (è qui che nasce un’opera fondamentale come il Pergolato di Silvestro Lega, non presente in mostra: si potrà tuttavia ammirare un’altra opera di prim’ordine, La visita che giunge dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma): è lo stesso Lega l’artista che meglio interpretò l’intimità familiare delle case fiorentine (si veda l’Educazione al lavoro), ma altri non furono da meno, come Odoardo Borrani che riuscì ad ammantare d’accenti di denuncia sociale un dipinto ambientato in uno di questi interni, ovvero L’analfabeta (l’analfabetismo era uno dei problemi più sentiti del tempo), esposto vicino alle Case a Piagentina di Signorini che, nel quadro di Borrani, sono riprodotte appese alla parete dietro le due protagoniste.

Due sezioni separano la mostra dalla sua conclusione: quella dedicata al Gazzettino delle arti del disegno, il periodico fondato nel 1867 da Martelli dopo la chiusura del Caffè Michelangelo e divenuto nuovo centro degli scambi delle idee dei macchiaioli negli anni Settanta, è in realtà un capitolo dedicato a Giovanni Boldini sotto mentite spoglie, dal momento che il focus è dedicato al giovane ferrarese in quanto lanciato dalla testata di Martelli. Sono dunque esposti i ritratti della brevissima fase macchiaiola della sua carriera, a confronto con quelli del maestro Michele Gordigiani, nella sezione forse più accessoria della rassegna. L’ultima, invece, è dedicata alle ricerche degli anni Ottanta e Novanta, riassunte nell’ultimo corridoio del piano superiore: non vengono tuttavia presentati gli artisti più giovani, ma si continua con gli esperimenti dei quattro grandi della prima ora, ovvero Lega, Signorini, Fattori e Cabianca. Il primo, dopo tormentatissime vicende personali, continuerà a trovare ispirazione in una pittura domestica tutta d’intonazioni delicate (ne è un esempio la toccante Lezione della nonna), mentre Signorini viene seguito nei suoi soggiorni a Riomaggiore alle Cinque Terre, alla ricerca di soluzioni sempre nuove che, nei Tetti a Riomaggiore, trovano la forma d’uno scorcio ardito, dalla piazzetta che sovrasta la parte bassa del paese e dona l’impressione d’una veduta a volo d’uccello. Quanto a Fattori, troviamo nell’ultimo scorcio di mostra quadri di tema bellico che trasmettono tutta la sua disillusione per le mancate riforme sociali che i patrioti che avevano contribuito a costruire l’Italia avevano invano aspettato (e pertanto si consideravano traditi): Pro patria mori, truculenta immagine d’un soldato morto e divorato dai porci, esprime al massimo lo sconforto che il pittore provava a quell’epoca, del quale ci rendono partecipi anche i suoi numerosi scritti. Spetta infine a Cabianca il compito di chiudere la mostra: nel suo Mattutino, la pittura di macchia si carica di un’inattesa intonazione spirituale, che quasi sfocia nel simbolismo e ci accompagna “verso il Novecento”, come da titolo della sezione conclusiva.

Vincenzo Cabianca, Il Mattino (1861; olio su tela, 132x56 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Il Mattino (1861; olio su tela, 132x56 cm; Collezione privata)
Cristiano Banti, Riunione di contadine (1861; olio su tela, 31,3 x 46,4 cm; Firenze, Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti)
Cristiano Banti, Riunione di contadine (1861; olio su tela, 31,3 x 46,4 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)
Telemaco Signorini, Acquaiole a La Spezia (1860 circa; olio su tela, 40 x 31,5 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Acquaiole a La Spezia (1860 circa; olio su tela, 40 x 31,5 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Marmi a Carrara Marina (1861; olio su tela, 36x89 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Marmi a Carrara Marina (1861; olio su tela, 36x89 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Avanzi della Chiesa di San Pietro a Portovenere (1860; olio su tela, 47,5 x 62 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)
Vincenzo Cabianca, Avanzi della chiesa di San Pietro a Portovenere (1860; olio su tela, 47,5 x 62 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)
Telemaco Signorini, Marina a Viareggio (1865 circa; olio su tela, 20,7 × 48,5 cm; Collezione privata, in comodato presso Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi)
Telemaco Signorini, Marina a Viareggio (1865 circa; olio su tela, 20,7 × 48,5 cm; Collezione privata, in comodato presso Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi)
Luigi Bechi, Dopo la burrasca (1865 circa; olio su tela, 60,5 x 176,3 cm; Genova, Galleria d’Arte Moderna - Musei di Genova Nervi)
Luigi Bechi, Dopo la burrasca (1865 circa; olio su tela, 60,5 x 176,3 cm; Genova, Galleria d’Arte Moderna - Musei di Genova Nervi)
Giovanni Fattori, Diego Martelli a Castiglioncello (1867; olio su tavola,13x30 cm; Collezione privata)
Giovanni Fattori, Diego Martelli a Castiglioncello (1867; olio su tavola, 13x30 cm; Collezione privata)
Giuseppe Abbati, Casa sul botro (1863 circa; olio su tavola, 24 x 36,5 cm; Collezione privata)
Giuseppe Abbati, Casa sul botro (1863 circa; olio su tavola, 24 x 36,5 cm; Collezione privata)
Silvestro Lega, I fidanzati / I promessi sposi (1869; olio su tela, 35,5 x 79,5 cm; Milano, Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)
Silvestro Lega, I fidanzati / I promessi sposi (1869; olio su tela, 35,5 x 79,5 cm; Milano, Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)
Silvestro Lega, La visita (1868; olio su tela, 31x60 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Silvestro Lega, La visita (1868; olio su tela, 31x60 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Odoardo Borrani, L’analfabeta (1869; olio su tela, 74 × 41,5 cm; Collezione privata)
Odoardo Borrani, L’analfabeta (1869; olio su tela, 74 × 41,5 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Nei ditorni di Firenze (Case a Piagentina) (1865-66; olio su tela, 42,2 x 27,5 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Nei ditorni di Firenze (Case a Piagentina) (1865-66; olio su tela, 42,2 x 27,5 cm; Collezione privata)
Giovanni Boldini, L’amatore delle arti (1866; olio su tela, 32x47 cm; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giovanni Boldini, L’amatore delle arti (1866; olio su tela, 32x47 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Silvestro Lega, La lezione della nonna (1880-81; olio su tela, 116 x 90 cm; Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, deposito dal Comune di Peschiera del Garda)
Silvestro Lega, La lezione della nonna (1880-81; olio su tela, 116 x 90 cm; Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti, deposito dal Comune di Peschiera del Garda)
Telemaco Signorini, Tetti a Riomaggiore (1893 circa; olio su tela, 56 x 38 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna)
Telemaco Signorini, Tetti a Riomaggiore (1893 circa; olio su tela, 56 x 38 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna)
Giovanni Fattori, Pro patria mori (1900; tecnica mista su carta, 70 x 100 cm; Collezione privata)
Giovanni Fattori, Pro patria mori (1900; tecnica mista su carta, 70 x 100 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Mattutino (1901; tecnica mista su carta applicata a cartone, 37,7 x 78,8 cm; Collezione privata)
Vincenzo Cabianca, Mattutino (1901; tecnica mista su carta applicata a cartone, 37,7 x 78,8 cm; Collezione privata)

S’è detto che i macchiaioli sono stati spesso accostati agl’impressionisti, e non sarà il caso di ridiscutere in questa sede affinità e divergenze tra i due gruppi. Basterà qui ripetere quanto Dini ha scritto in catalogo, e cioè che è fuorviante parlare dei macchiaioli come degli “impressionisti italiani” perché “ciò comporta sacrificare alle ragioni di una approssimativa etichetta (quando non addirittura a quelle del puro marketing culturale) la complessità ideologica e culturale sottesa alla vicenda della ‘macchia’ in ragione della quale si può parlare di una ‘civiltà dei Macchiaioli’ e di una rinascenza della pittura italiana da quegli artisti avviata”. Per inquadrare la mostra è però necessario cedere per un momento alle etichette, e mettere in evidenza un elemento che divide gl’impressionisti dai macchiaioli: il fatto che per i primi esiste ormai una sorta di canone che pure il grande pubblico è in grado di ricordare e riconoscere, mentre per i secondi questo canone fatica a imporsi. Ecco: la mostra di Pisa pare orientarsi verso la definizione d’una regola, e tra le sale di Palazzo Blu sembra di percepire un nuovo punto fermo nella già lunga storia espositiva dei macchiaioli, che devono l’inizio della loro fortuna contemporanea alla pionieristica mostra che Palma Bucarelli volle nel 1956 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. In catalogo un saggio, firmato da Chiara Stefani, è dedicato proprio a quella mostra, che radunò a Valle Giulia oltre trecento opere.

La mostra di Pisa, nonostante la sua lunghezza che per alcuni potrà forse risultare estenuante, è di dimensioni più ridotte: centotrenta opere distribuite su undici sezioni, per raccontare però soltanto le vicende della prima generazione del gruppo dei macchiaioli, e il tutto sostenuto da un buon catalogo (che sarebbe stato ottimo se avesse incluso anche schede delle opere e soprattutto bibliografia). La sua riuscita, per ampiezza e qualità delle opere esposte, andrà misurata con alcune rassegne storiche: dalla già citata mostra del 1956 a quelle di Monaco di Baviera e Firenze del 1976, o ancora quella di Palazzo Zabarella del 2004. Non sarà esagerato affermare che Pisa stabilisce pertanto una nuova, notevole tappa nella storia delle mostre sui macchiaioli, un punto con cui dovrà necessariamente misurarsi chiunque in futuro voglia tentare nuove operazioni sul gruppo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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