Più moderno di Monet non si può: artista pop e astratto. La recensione della mostra di Milano


Recensione della mostra “Monet”, a Milano, Palazzo Reale, dal 18 settembre 2021 al 30 gennaio 2022.

“Vorremmo che Claude Monet ci conducesse a Giverny, sulle rive della Senna, a quel gomito del fiume che ci lascia appena intravedere attraverso la nebbia del mattino”. Era il 15 giugno 1905: a scrivere Sulla lettura, Marcel Proust. Un ricordo, un frammento di luce intravisto in un quadro di Claude Monet che lascia, in uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, una traccia a colori, sfumata, evanescente: il fiume ancora sonnecchia nei sogni della nebbia mattutina. La scrittura magica, visionaria di Proust fa da controcanto alla pittura (evocativa) di Monet, due fari che hanno abbagliato la storia della cultura.

Affrontare il “mostro”, scrivere di Monet, è un’impresa quanto mai azzardata e sicuramente fallimentare. Fior fiore di critici e storici dell’arte, intellettuali di ogni tempo si sono cimentati nell’impresa… ciononostante, al di là della presunzione d’innocenza per l’ennesimo tentativo, ciò che possiamo constatare è che Monet, come pochi altri, (Caravaggio, Van Gogh), e per ragioni diverse, ci tiene svegli, ancora. E allora è giusto porsi la domanda delle domande: perché ancora mostre su Monet? O meglio, perché ancora non si può fare a meno di Monet? Al di là del “canone inverso” della sua pittura mobile e sonora, c’è per noi anche una drammatica, attualissima esigenza, che ha il nome di solastalgia (etimo coniato di recente dal filosofo Glenn Albrecht): quel sentimento di nostalgia che si prova di fronte ai cambiamenti di un ambiente violato, distrutto, irrimediabilmente perso. Il carattere convulsivo della nostra contemporaneità non è paragonabile al contesto storico, culturale e ambientale degli anni di Monet: tuttavia, sappiamo che impatto abbiano avuto sull’arte e la sua funzione le due rivoluzioni industriali e la ricusa post-illuministica del razionalismo. Si potrebbe sostenere che i primi esiti, spiegati in modo molto cursorio, siano stati anche il fiorire di quel Romanticismo che andava a caccia del “sublime”, e per continuare, l’invenzione e le conquiste tecniche dei colori sintetici (in primis, l’indaco) che assieme alla fotografia costituiscono il banco di prova della rivoluzione dello sguardo degli Impressionisti.

Una delle aspirazioni di questi artisti, sulla scena dagli anni Settanta dell’Ottocento, anche per rivaleggiare inizialmente con i primi dagherrotipi, era quella di intercettare il vento (vento si dice nenufar in egiziano, ed era il nome tecnico delle ninfee prima che Monet, si proprio lui, ne assumesse l’altro sostantivo), intrappolare la luce, afferrare il movimento. Raggiunti attraverso l’uso di nuovi espedienti e più vari esperimenti, che spesso consistevano nell’annotazione del fluire delle cose, o in una ricerca ossessiva che confluiva e produceva le ripetizioni e le serie. Quasi una modalità pop! Che poi mutò e si tradusse, lungo i quasi novant’anni anni di Monet (1840-1926), in dissolvenza, rarefazione e, in definitiva, in astrazione.

Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale
Sala della mostra Monet a Milano, Palazzo Reale

Monet contemporaneo. Monet, il portabandiera di molti “movimenti” sviluppatisi più tardi, fu senz’altro il capostipite dell’uso costante della ripetizione in pittura, nonostante per certi versi, alcuni precedenti siano ravvisabili in altri pittori, tra cui Constable per esempio, che nello studio dello stesso paesaggio, sul taccuino annotava persino data, ora e direzione del vento!

Delle numerose fasi della lunga carriera del pittore si dà conto già da un mese in una mostra a Milano, attraverso un sostanzioso numero di prestiti (cinquantatré, tutti provenienti dalla collezione del Musée Marmottan Monet di Parigi), comprese le opere dei maestri, Johan B. Jongkind, Eugène Boudin, e un paio di oggetti: una sua tavolozza e gli occhiali con le lenti leggermente gialle che dovette usare dal 1912 a causa della cataratta, le stesse che gli abbagliavano la vista: “Non percepivo più i colori con la stessa intensità, i rossi mi apparivano annebbiati”.

Nell’esposizione a cura di Marianne Mathieu con Aurélie Gavoille, prodotta dal Comune di Milano e da Arthemisia, impaginata negli spazi eleganti di Palazzo Reale, il cui l’unico neo è quello di non avere avuto a disposizione sale più grandi per allestire sovradimensionate le esperienze immersive che le opere-parete, le mega-installazioni ambientali di Monet avrebbero richiesto, l’universo di Monet è dato come un “equivoco di riflessi” sempre cangiante, come un’ossessione per il continuo cambiare, per le perenni metamorfosi che avvengono “sull’eterna e scorrevole trama del tempo” (Giuliana Giulietti).

Perché, quale dei tanti Monet c’è in mostra? Quali fasi sono esposte della sua ricerca artistica continuamente sperimentale? Il Monet delle ninfee e dei ponti giapponesi? O il Monet del paesaggio urbano, o ancora, il Monet ad Argenteuil, o quello irriconoscibile degli ultimi anni, a Giverny quando, come scrisse Clement Greenberg, (il critico americano e sostenitore dell’arte astratta), nella sua pittura, “la luce smaterializza le cose, le sgretola”. Molti sono i periodi, forse c’è tutto Monet, dalle opere iniziali e nate sulla scorta della pittura realista, fino a quelle più moderne, in cui ci si perde e ci si immerge, per via di una assoluta mancanza di riferimenti spaziali. Tra queste ultime, e le più affascinanti, le Ninfee del 1916-19, i due Viale delle rose del 1920-22, la serie dei Ponti giapponesi dipinti tra il 1918 e il 1924 (“impeto violento nell’applicare il colore”: Claire Gooden, in catalogo), ognuno dei quali realizzato senza una precisa percezione binoculare e quindi senza alcuna profondità.

Claude Monet, Ninfee (1916-1919 circa; olio su tela, 130x152 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5098) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Ninfee (1916-1919 circa; olio su tela, 130x152 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5098) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi (1905; olio su tela, 81,5x92 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5007) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi (1905; olio su tela, 81,5x92 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5007) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Vétheuil nella nebbia (1879; olio su tela, 60x71 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5024) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Vétheuil nella nebbia (1879; olio su tela, 60x71 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5024) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Passeggiata vicino ad Argenteuil (1875; olio su tela, 61x81,4 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, dono Nelly Sergeant-Duhem, 1985 Inv. 5332 ©) Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Passeggiata vicino ad Argenteuil (1875; olio su tela, 61x81,4 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, dono Nelly Sergeant-Duhem, 1985 Inv. 5332 ©) Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Ninfee (1916-1919 circa; olio su tela, 200x180 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5119) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Ninfee (1916-1919 circa; olio su tela, 200x180 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5119) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Il ponte giapponese (1918-1919 circa; olio su tela, 74x92 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5177) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Il ponte giapponese (1918-1919 circa; olio su tela, 74x92 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5177) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Le rose (1925-1926; olio su tela, 130x200 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5096) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Le rose (1925-1926; olio su tela, 130x200 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5096) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Lo stagno delle ninfee (1917-1919 circa; olio su tela, 130x120 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5165) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Lo stagno delle ninfee (1917-1919 circa; olio su tela, 130x120 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5165) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Barche nel porto di Honfleur (1917; olio su tela, 50x61 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5022) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Barche nel porto di Honfleur (1917; olio su tela, 50x61 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5022) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Barca a vela. Effetto sera (1885; olio su tela, 54x65 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5171) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Barca a vela. Effetto sera (1885; olio su tela, 54x65 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Michel Monet, 1966 Inv. 5171) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Veduta della Voorzaan (1871; olio su tela, 18x38 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Roger Hauser, 1990 Inv. 5239) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
Claude Monet, Veduta della Voorzaan (1871; olio su tela, 18x38 cm; Parigi, Musée Marmottan Monet, lascito Roger Hauser, 1990 Inv. 5239) © Musée Marmottan Monet, Académie des beaux-arts, Paris
La tavolozza e gli occhiali di Monet
La tavolozza e gli occhiali di Monet

La mostra milanese espone anche qualche nuova, affascinante ipotesi, con il confronto almeno di una delle mostre precedenti, in particolare con quella del 2010, Claude Monet 1840-1926 al Grand Palais, in cui si sosteneva quanto un ulteriore changement de pas per l’evoluzione astratta dell’ultimo Monet, s’intravede prima di quando perde nel 1912 e poi (con un’operazione dieci anni dopo) recupera la vista. C’è già “un effetto immateriale […] molto diverso della resa naturalistica dei colori del luogo e dei riflessi di luce caratteristica delle stesse vedute dipinte vent’anni prima” (Emmanuelle Amiot-Saulnier, in catalogo). E c’è sempre da tener presente che se è vero che Claude Monet cambia sempre linguaggio, per completezza, più o meno negli stessi anni, tra il 1910 e il 1912, viene realizzato il primo acquerello astratto di Kandinskij. Un’altra grande rivoluzione dell’arte. Dopo Monet.

Sul resto, per avere idea delle grandi decorazioni presenti anche al Marmottan ma la cui massima espressione è il Musée dell’Orangerie, ci sono altre monumentali Ninfee che rievocano gli ultimi quarantatré anni della sua vita e carriera, a Giverny.

Da quando si stabilisce con la moglie Alice in questa regione della Marna, Monet, forte dei suoi successi, anche economici, realizza il suo Giardino acquatico, le serre e il suo studio, e inventa alcuni motivi floreali che userà o stilizzerà nei suoi dipinti. Qui, fa anche scavare un piccolo stagno e costruisce un ponticello nello stile giapponese. Acquista altri terreni, e ha pure l’autorizzazione a deviare il corso di un fiume, così ingrandisce lo stagno e inserisce molte varietà di fiori, sceglie tutti quelli che favoriscono la bellezza degli scorci – salici, ontani, rododendri, giunchi e bamboo. Non manca il nenufaro bianco (cioè, la ninfea bianca) e quello giallo, e diversi ibridi, fa ricoprire il ponte di archetti di glicine: una reminiscenza delle stampe giapponesi che colleziona. Vivrà qui fino alla fine tra i sussurri delle sue nenufar


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