Supercult. Anna Banti su Artemisia Gentileschi


Intanto un’immensa fierezza le gonfia il petto, un’orribile fierezza di donna vendicata in cui trova luogo, malgrado la vergogna, la soddisfazione dell’artista che ha superato tutti i problemi dell’arte e parla il linguaggio di suo padre, dei puri, degli eletti. 

Mi par d’esser nel vero, un vero indicibile, formando sulle labbra di Artemisia queste parole. Almeno una volta le avrà dette, con quell’albagia spagnolesca che imparò, dopo i trenta, a Napoli. Alzava il mento duro di biondina testarda e spacciava con toscana precipitazione quelle sillabe scorrevoli: Oloferne. Sillabe che solo oggi, decantate da estranee lontanissime vicende, liberano il succo di un sorriso bizzarro, insieme timido e insolente, proprio il fondo di un carattere e di un costume. “Vi dà l’animo, signora Artemisia, di dipingere questa gran tela per la Serenissima? Un soggetto eroico, da par vostra”. Era, forse, una proposta ironica, da uomo beffardo a donna superba. E già nella mente di Artemisia tutto era pronto. Oloferne, Giuditta e Oloferne. La testa ravvolta in un panno. No, la testa nuda e sanguinosa. E perché non il corpo, il grosso corpo del tiranno? Vedano, questi toscani, se so disegnare.

Non può essere che Artemisia non dicesse alle amiche: ho un impegno d’importanza per la Serenissima. Ma già tutte sapevano e coglievano ogni pretesto, imperiose, insinuanti, stordite, per curiosare. Trovavano la pittrice chiusa nel suo casaccone da lavoro, i flosci capelli spioventi, il viso tirato dalla fatica: in piedi o seduta su un alto trespolo, davanti alla gran tela. Rimanevano interdette e inoperose dinanzi a gesti che non conoscevano e che essa abbandonava alla loro avidità, dimentica di comporsi, di apparire come voleva che la vedessero: a volte miserella, quasi schiacciata dall’opera; a volte maestosa, arditissima. [...]

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (1620 circa; olio su tela, 146,5 x 108 cm; Firenze, Uffizi)
Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (1620 circa; olio su tela, 146,5 x 108 cm; Firenze, Uffizi)

Ormai le amiche, pur continuando quella specie di assedio, s’intrattenevano fra loro con una disinvoltura che la rassicurava, sul suo trespolo, e quasi la dichiarava assente. Ma dai guanti, dai profumi, non c’era giorno che, sul motivo ricorrente degli impegni domestici, il discorso non si fermasse sugli uomini di casa, gli uomini di fuori: e subito le voci si scaldavano. Si cominciava, magari, dall’alto. Il Granduca attuale, il Granduca buonanima, i Principi forestieri e quelli nostrani: ognuno veduto da occhi acuti e guardinghi, non all’aperto, con l’arme e il cavallo, ma seduti fra quattro mura, nell’atto del bere, del mangiare; soprattutto dell’andare in collera: e gli esempi le riportano in casa. Quello urla, l’altro bestemmia, che occhi fa Tommaso, la grinta di Vieri. Dominavano le voci represse e concitate delle due Torrigiani che finivano per dire più di quel che non volessero e, gettata la freccia, eran pronte a coprirsi con lo scudo dell’amor coniugale. Ma intanto ognuna aveva fatto il nome del marito dell’altra, offesa o servizio che si rendessero a vicenda. All’aperta beffa si lanciava Violante, la più libera, impareggiabile nel rappresentare la brutalità virile unita alla balordaggine e la facilità con cui si rabboniscono i sospettosi e gli iracondi: colla malizia, colle carezze, colla paura. E quando tutte avevan riso, ultima la povera Caterina: “Anche l’Orsini che ammazzò la moglie aveva paura” citava Violante, un tantino stridula. Allo scherno succedevano racconti di sevizie segrete e leggendarie con fantasmi di mogli claustrate, avvelenate, fatte sparire senza lasciar traccia, fantasmi che parevano mescolarsi al gruppo delle viventi e insinuarvi uno stimolo di vendetta che eccitava le narici insieme all’odor della trementina. Di tratto in tratto, occhiate rapidissime e taglienti sfioravano il modello e lo oltrepassavano luccicando. Poi le donne gli volgevano le spalle, mostravano ricordarsi all’improvviso affettuosamente della pittrice e della pittura, si accalcavano a constatarne i progressi, ad ammirare a loro modo: “Come di seta il lenzuolo: Oloferne era principe?”. “Il sangue della gola è più nero.” “Così si tiene il pugnale?” “Io non saprei colpire.” “Io sì.” “Io, vorrei provarmici.” “Tutto quel sangue...” Ritornavano sempre al sangue che Artemisia dipingeva, una carneficina tessuta, rivo per rivo, come un ricamo, sul bianco lino. La luce calava, il crepuscolo scendeva sull’Arno, un crepuscolo verde, e Artemisia stirava le braccia come se fosse sola. Ristretta ai quesiti della sua pittura, incomunicabili alle donne, divideva tuttavia con esse una noncuranza del contegno che la famigliarità non giustificava e che era il frutto dei discorsi raccolti a sbalzi, distrattamente, ma non senza un oscuro senso di complicità. Le sciocche dame non s’accorgevano di chi fosse la truculenza che, sulla tela, Giuditta aveva principiato a scoprire: di buon’ora e sola Artemisia aveva cercato nello specchio i tratti dell’eroina e le aveva risposto un ghigno che ormai antichi motivi ispiravano. Non più nobili, non più puri di quelli che la vedova Violante coltivava e nutriva intorno a sé, e la ragione la sapeva lei sola. Agostino, il pugnale, la miseranda scena del letto a colonne avevan trovato la via di esprimersi non a parole o con interiore compianto, ma con mezzi che la mente avrebbe dovuto difendere e mantenere inviolati.

[...] Intanto un’immensa fierezza le gonfia il petto, un’orribile fierezza di donna vendicata in cui trova luogo, malgrado la vergogna, la soddisfazione dell’artista che ha superato tutti i problemi dell’arte e parla il linguaggio di suo padre, dei puri, degli eletti. Ma suo padre non torna da Pisa, lontano è il suo amico fratello e con quei signori di via Larga, i garruli pittori di Firenze, il puro linguaggio d’intesa si convertirebbe in servo galante e ruffiano. Soltanto con sé stessa, sulla tela, può parlarlo e le risponde, insieme con l’artista, la giovane Artemisia avida di giustificazione, di rivincita, di comando. Comandare almeno a queste donne, trasmetter loro il proprio rancore è una gran tentazione e la facile riuscita è pure un trionfo. Un trionfo solitario: con tante amiche, introdotta in Corte, Artemisia passa le lunghe sere di giugno sola, sul balcone che quasi tocca il fiume, incantata dell’acqua verde, dei ponti su cui la gente cammina e chiacchiera, delle tante campane. Sbadiglia, respira, sospira. Un anno fa non osava aprir la finestra a San Spirito, oggi, dietro Giuditta e Oloferne, prende corpo la figura di una donna eccezionale, né sposa né fanciulla, senza paura: in cui le piace riconoscersi, accarezzarsi, spronarsi.

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Anna Banti, Artemisia, Rizzoli, Milano, 1989 [prima edizione Sansoni, Firenze, 1947], pp. 58-60

Per ulteriori informazioni sull’opera di Artemisia Gentileschi


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