Chi avrà voglia di visitare un museo pieno di divieti e obblighi?


I musei in Italia si avviano a riaprire al pubblico: quali saranno le prescrizioni medico-sanitarie da seguire? Una cosa è certa: dovranno essere davvero indispensabili, altrimenti il rischio degli eccessi di zelo sarà quello di allontanare il pubblico e di far diventare il museo un luogo respingente, il contrario di quello che dovrebbe essere.

In un intervento che abbiamo ospitato nel numero di dicembre della nostra rivista cartacea, la storica dell’arte Elizabeth Ann Macgregor, direttrice del Museum of Contemporary Art di Sydney in Australia e già direttrice del CIMAM - Comitato Internazionale dei Musei d’Arte Moderna e Contemporanea, scriveva che “i musei devono coinvolgere le loro comunità in tutti i modi possibili, ispirando e allo stesso tempo provocando”, e che nel mondo attuale i musei “hanno un ruolo sempre più importante nell’unire le persone, incoraggiare i diversi punti di vista, creare spazî nei quali i visitatori possano imparare, dare al pubblico l’opportunità di immaginare un futuro migliore per tutti”. Probabilmente nessuno, solo pochi mesi fa, avrebbe immaginato l’arrivo di una pandemia a rendere fisicamente impossibile quell’unione auspicata da Macgregor: un po’ perché i musei hanno dovuto chiudere per più di due mesi, un po’ per le condizioni in cui riapriranno.

È dunque interessante valutare le regole per la riapertura suggerite dal Comitato Tecnico Scientifico per farsi un’idea su come, in Italia, saremo costretti a visitare i musei nei prossimi mesi. Ovviamente non stiamo parlando di norme già scritte, ma di semplici indicazioni di carattere generale che, secondo lo stesso Comitato, andranno applicate secondo i principî della gradualità e della progressività in modo da capire quanto siano sostenibili (anche se, nell’introdurre l’elenco, il Comitato parla non di misure che vengono consigliate, ma che “vanno identificate”: ora, un verbale di un Comitato Tecnico Scientifico naturalmente non ha valore vincolante, ma data la perentorietà dell’affermazione sarà interessante vedere come le disposizioni saranno seguite dai musei). È poi altrettanto ovvio attendersi che le regole varieranno sulla base della tipologia del museo: non vogliamo credere che saranno adottate le stesse prescrizioni per gli Uffizi e per un poco frequentato museo di provincia, per un grande sito archeologico all’aperto e per un angusto museo diocesano ricavato nei locali d’una canonica. Nei piccoli musei, il distanziamento tra i visitatori è, praticamente, una condizione rispettata tutto l’anno.

Una visitatrice alla Schirn Kunsthalle di Francoforte, Germania, che ha riaperto la settimana scorsa
Una visitatrice alla Schirn Kunsthalle di Francoforte, Germania, che ha riaperto la settimana scorsa. Ph. Alena Rahmer

Occorre intanto sottolineare che le misure caldeggiate dal Comitato Tecnico Scientifico sono tra le più restrittive in Europa: intanto, siamo al momento l’unico paese dove è obbligatoria la combinata “distanza di sicurezza più mascherina obbligatoria”. In Germania, in Francia, in Svizzera e in Spagna l’utilizzo del dispositivo di protezione del volto è mandatorio soltanto laddove non sia possibile rispettare le metrature del distanziamento fisico (sulle quali però evidentemente i singoli paesi non sono d’accordo, dal momento che in Germania la distanza di sicurezza è di un metro e mezzo, in Francia e in Italia un metro, in Spagna e in Svizzera due metri): viene dunque da domandarsi per quale motivo in Italia tocchi aggirarsi mascherati dentro ai musei (e, in generale, in qualsiasi altro luogo) anche se è possibile rispettare la distanza antivirus ufficiale, ma dato che ormai la mascherina viene indossata dai più anche quando è del tutto inutile (non si contano più le persone che la portano anche da sole all’aperto, ed è in costante salita la curva degli sceriffi da social che non mancano d’aggiornarci sull’andamento della quantità di “gente in giro senza mascherina” e invocano conseguenti spiegamenti di pattuglie), temo dovremo farcene una ragione.

Rischia poi di diventare una nostra specialità la creazione di percorsi a senso unico: finora, l’unico paese che ci ha pensato è stata la Spagna, dal momento che questa precauzione era stata inizialmente suggerita dalle autorità sanitarie, ma non è poi entrata nei provvedimenti ufficiali per i musei elaborati dal Ministero della Salute. Il percorso a senso unico potrebbe avere una remota utilità nei musei molto frequentati, ma dal momento che ci attendiamo crolli dei visitatori (segnatamente negli istituti più gettonati dal turismo), oltre a visite contingentate, c’è da chiedersi se ha davvero senso impedire che i visitatori si aggirino per le sale come meglio credono, con la piena facoltà di tornare indietro quando vogliono, o seguendo un itinerario in libertà sulla base dei proprî interessi. Neanche nei supermercati si è arrivati a tanto, eppure si tratta di luoghi ben più frequentati dei musei, e malgrado ciò non si ha ancora notizia di bombe epidemiologiche scoppiate dentro un’Esselunga. Se dunque percorso a senso unico sarà, non resterà che affidarsi alla clemenza degli addetti alla vigilanza.

Al momento, il Comitato Tecnico Scientifico non si è ancora espresso sul tema delle visite guidate e delle attività didattiche: speriamo che non si decida di seguire il modello spagnolo, che ha previsto la sospensione totale di questo tipo d’esperienze. Vorrebbe dire demolire due pilastri che sono alla base di qualsiasi museo, sospenderne un servizio pubblico di altissimo valore, azzerarne una delle funzioni principali, quella dell’educazione, riconosciuta come uno dei tre maggiori scopi del museo anche dall’attuale definizione ICOM: evidentemente, chi in Spagna ha pensato a una misura simile non ha una gran confidenza con i musei, e se devono essere solo luoghi di passeggio dove ognuno è tenuto a mantenersi a due metri di distanza da chiunque altro, tanto vale tenerli chiusi. Meglio invece in Francia, dove visite guidate e attività didattiche sono consentite a condizione che si rispetti la distanza di sicurezza.

Tuttavia, anche in Italia c’è già chi si è dimostrato più realista del re: per esempio a Pompei, ovvero in un sito enorme dove eventuali ingressi scaglionati ridurrebbero al minimo il rischio di contatti, a fine aprile è stato presentato un piano che prevede l’utilizzo di app, bracciali elettronici e droni per impedire comportamenti scorretti. Ma se per visitare un parco archeologico c’è da esser sorvegliati come detenuti in libertà vigilata, è presumibile che molti rinunceranno. Lo ha scritto ieri Silvia Mazza su La Sicilia, ricordando come anche il “diletto” sia uno degli scopi principali della visita al museo definiti dall’ICOM: e allora “la vera sfida”, ha giustamente osservato Silvia Mazza, “sarà quella di dissimulare le misure di sicurezza per garantire che al visitatore resti il ‘diletto’”. Chi deciderà come scrivere e applicare le regole dovrà conservare qualche barlume di lucidità, e dovrà pertanto domandarsi se, dopo più di due mesi di segregazione forzata, dopo un periodo durante il quale si veniva guardati con sospetto (se non apostrofati) anche se s’andava a fare una passeggiata o una corsa all’aperto, dopo campagne mediatiche che hanno esacerbato gli animi invece che distenderli, gli italiani avranno davvero voglia di mettersi in coda, farsi imporre un limite di tempo per visitare un museo, esser costretti a passare per le sale secondo un percorso obbligato a senso unico, bardarsi con mascherina anche a distanza di sicurezza ed esser sottoposti a continua sorveglianza durante un’attività che dovrebbe in teoria esser piacevole, o se non preferiranno evitare accuratamente i musei e concedersi piuttosto una più libera nuotata in mare o una meno fastidiosa passeggiata in montagna. Se non altro, per esercitare ancora un po’ di quell’umanità che, in un contesto di libertà di visita sacrificata quasi del tutto in nome del securitarismo sanitario, sarebbe quasi del tutto negata.

Si potrà certo obiettare dicendo che queste misure rimarranno in essere solo per il tempo necessario: ma si potrebbe ribattere affermando che per quanto corta possa essere questa fase, gli eccessi di zelo sarebbero solo nocivi, specie se frutto d’un scientismo cieco che non considera le ragioni di chi frequenta e conosce bene i musei, almeno per realizzare, ad esempio, che ha poco senso stabilire norme sulla base del numero assoluto di visitatori e sarebbe semmai più ragionevole dividere i musei secondo il rapporto tra visitatori e superficie (un caso banale: i 445mila visitatori l’anno del Cenacolo Vinciano non equivalgono ai 443mila visitatori l’anno del Parco Archeologico di Paestum). Il pericolo più evidente è, intanto, quello di trasformare la visita al museo in un tour de force dove non si può interagire perché tocca stare a distanza e imbavagliati, dove si è guardati a vista, dove non si è liberi di scegliere il proprio percorso di visita, dove è impossibile avvalersi d’una visita guidata. Il museo, in sostanza, potrebbe diventare un luogo respingente: l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere, con buona pace dei propositi di coinvolgimento della comunità, ispirazione, provocazione, incoraggiamento della diversità dei punti di vista, apprendimento e opportunità di cui si diceva in apertura. E poi c’è il rischio di alterare profondamente il ruolo del museo nei confronti del pubblico, che da istituto al servizio della società, da luogo di studio, formazione, crescita e progresso, da spazio di condivisione e confronto con gli altri, diventa una sorta di giostra triste dove far scorrere via, secondo tabelle di marcia predeterminate, un pubblico composto da consumatori più che da visitatori.

Se questo è quanto ci attende nelle prossime settimane (o addirittura nei prossimi mesi), ci sia concesso di avanzare qualche dubbio. Tanti cominciano già a parlare di “nuova normalità”, in riferimento agli stravolgimenti che modificheranno per qualche tempo le nostre vite. Si abbia almeno la decenza di evitare di parlare di “normalità”, perché tutto questo non ha niente di normale.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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