We can be heroes, just for one day. David Bowie, La Spezia


Recensione della mostra "David Bowie & Masayoshi Sukita: Heroes" a La Spezia, Fondazione Carispezia (via Chiodo).

Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen / I’ve got drama, can’t be stolen / Everybody knows me now. Sono queste le parole con le quali David Bowie ha deciso di aprire Lazarus, il suo ultimo singolo, pubblicato alcuni giorni prima della scomparsa. Una sorta di testamento spirituale, un tormentato lento in cui il grande artista britannico sembra voler tirare le somme di una carriera durata quasi mezzo secolo, che lo ha portato a toccare le vette del successo internazionale con una musica raffinata e in grado, pur senza inventare alcunché, di evolversi in continuazione, di rielaborare suggestioni colte provenienti da fonti diverse, di apportare nuova linfa a quanto già sperimentato. Perché, si sa, l’estro di un artista non si può giudicare esclusivamente dalla capacità di aprire strade nuove: un artista può trovare la propria originalità, e dunque la ragione della propria arte, anche nella rivisitazione. L’arte elegante di David Bowie va letta in questo senso: e fino al 19 giugno questa lettura è facilitata da una mostra di fotografia.

L'ingresso della mostra David Bowie & Masayoshi Sukita: Heroes
L’ingresso della mostra David Bowie & Masayoshi Sukita: Heroes

David Bowie & Masayoshi Sukita: Heroes è infatti l’esposizione che celebra il cantante nei locali della Fondazione Carispezia di via Chiodo (La Spezia). La mostra intende ripercorrere buona parte del percorso artistico di David Bowie, grazie alle immagini di Masayoshi Sukita, uno dei fotografi internazionali più apprezzati in ambito musicale: oltre che con David Bowie, ha lavorato con stelle del calibro di Billy Idol, Iggy Pop, Ray Charles, Chuck Berry, Joe Strummer, Cindy Lauper, Marc Bolan. Sukita e Bowie si incontrano proprio grazie all’aiuto “indiretto” di Marc Bolan, il leggendario cantante dei T-Rex: il gruppo che, possiamo dirlo senza azzardare troppo, inventa quel glam rock che avrebbe avuto una notevole influenza sullo stesso Bowie. Per intenderci, i T-Rex sono quelli di 20th Century Boy, Hot Love, Bang a gong e tanti altri successi scolpiti nel cuore degli amanti del rock. Sukita si reca in Inghilterra nel 1972 proprio per fotografare i T-Rex: la sua attenzione viene però catturata anche dal fenomeno Bowie, cantante di cui il fotografo giapponese non ha mai sentito parlare. Sukita vede un cartellone promozionale di The man who sold the world, il terzo album di David Bowie, pubblicato nel 1970: decide quindi di andarlo a vedere dal vivo. Il concerto a cui assiste non è che l’inizio di un rapporto d’amicizia destinato a durare nei decenni a venire.

È da qui che parte la storia raccontata della Fondazione Carispezia: dagli anni glam, da Ziggy Stardust con i suoi costumi che si ispirano alla fantascienza (ma anche alla tradizione giapponese: l’ispirazione dall’arte orientale è costante nella produzione di David Bowie) e con il suo look androgino che all’epoca suscitò scalpore a non finire e che, a sua volta, era una sorta di riflesso del kabuki, una forma di teatro, nata nel Giappone del Seicento, nella quale anche le parti femminili erano interpretate da uomini. L’ammiccante sensualità di Marc Bolan è, in sostanza (e banalizzando), rivisitata in ottica spaziale, e con un occhio di riguardo all’oriente. Foto-simbolo di questa prima sezione (possiamo dividere, a grandi linee, in quattro aree il percorso dell’esposizione: quella dedicata al glam è la più ampia) è Watch that man III, che campeggia anche nella gigantografia che accoglie i visitatori all’ingresso. Il forte legame tra David Bowie e arte giapponese è qui suggellato dall’ampio e bizzarro vestito confezionato dallo stilista nipponico Kansai Yamamoto, confezionato appositamente per il tour di Ziggy Stardust del 1973.

Masayoshi Sukita, Watch that Man III (1973). © Masayoshi Sukita, 1980
Masayoshi Sukita, Watch that Man III (1973). © Masayoshi Sukita, 1980

Si attraversa quindi il salone centrale, dove campeggiano, oltre a riproduzioni in scala quasi monumentale di alcune delle immagini più importanti della mostra, anche diversi pannelli che riportano frasi di David Bowie e Masayoshi Sukita. Significativa quella in cui il fotografo dice: “È nel 1972 che è iniziato tutto. E ancora oggi continuo a cercare David Bowie”: affermazione che ci testimonia quanto fosse sfuggente ed enigmatico il carattere di David Bowie, malgrado tra lui e Sukita ci fosse un rapporto che andava anche al di là della collaborazione professionale. Vicino, troviamo una frase di David Bowie che può riassumere il senso della sua arte: “Credo che il mio compito, come artista, non consista solo nell’esprimere il mio lavoro. Ho sempre voluto, più di ogni altra cosa, offrire un contributo alla cultura in cui ho vissuto”.

Seguendo il percorso cronologico della mostra, si arriva alla fine degli anni Settanta: una piccola sala, che potremmo identificare come la seconda sezione del percorso, è dedicata dunque alla fine degli anni Settanta. David Bowie era già stato in Giappone nel 1973, per la prima volta, durante l’Aladdin Sane Tour, celebre perché nell’ultima tappa (all’Hammersmith Odeon di Londra, il 3 luglio) l’artista avrebbe definitivamente smesso i panny di Ziggy Stardust, dell’uomo delle stelle (se si esclude il breve ritorno del 1980, ovviamente). Si apre, dunque, una nuova fase della sua carriera. Nel 1977 il cantante britannico è in partenza per il Giappone, per una serie di concerti che avrebbe tenuto insieme a Iggy Pop, all’epoca in piena crisi da abuso di stupefacenti: David Bowie è tra i pochi ad aiutare il collega americano. Bowie chiama Sukita (con un solo giorno di preavviso, tra l’altro) per chiedergli di fotografarlo assieme all’amico durante una breve sessione: il tempo per far posare i due cantanti e scattare le foto (e per ricordarsi di portare i giubbotti di pelle che Bowie ha espressamente richiesto) è di appena un’ora. Qualche tempo dopo, i due cantanti avrebbero chiesto al fotografo il permesso di utilizzare quelle immagini: sarebbero diventate le copertine di due album, Heroes di David Bowie e The Idiot di Iggy Pop.

 Masayoshi Sukita, Heroes (1977). © Risky Folio, Inc. Courtesy of The David Bowie Archive
Masayoshi Sukita, Heroes (1977). © Risky Folio, Inc. Courtesy of The David Bowie Archive

We can be heroes, just for one day: la canzone forse più famosa di David Bowie non ha bisogno di molte presentazioni. Un rock d’avanguardia che ci trasporta nella Berlino del muro, ma con un senso di forte speranza: perché la “vergogna è dall’altra parte”, perché i baci appassionati possono più del rumore dei fucili, perché l’amore non può essere ostacolato da nessuna barriera (e i muri si possono abbattere): basta essere eroi anche per un giorno solo. La fotografia di Sukita affonda le sue radici proprio nell’espressionismo tedesco (Bowie si era trasferito a Berlino nel 1976): il riferimento in particolare (per stessa ammissione di David Bowie) è a Erich Heckel e alla sua opera Roquairol del 1917, il cui titolo porta il nome di un tragico personaggio di un romanzo dello scrittore tedesco Jean Paul (nom de plume di Johann Paul Friedrich Richter). Bowie stesso era un pittore, a sua volta molto influenzato dall’espressionismo tedesco: un bellissimo dipinto di Otto Müller conservato al Brücke-Museum di Berlino, noto come Gli amanti tra le mura del giardino, che raffigura una coppia di amanti che si abbracciano tra le pareti che dividono due giardini, potrebbe aver ispirato molto da vicino la composizione di Heroes. Peccato solo che in questa sezione la mostra si perda un po’, e non permetta al visitatore di cogliere questi riferimenti, malgrado l’apparato didascalico piuttosto completo, quasi esauriente (cosa non molto usuale per una mostra di fotografia).

 Masayoshi Sukita, The same old Kyoto (1980). © Masayoshi Sukita, 1980
Masayoshi Sukita, The same old Kyoto (1980). © Masayoshi Sukita, 1980


L’esposizione prosegue con le immagini del viaggio a Kyoto del 1980. Questa terza sezione documenta la vicenda forse meno nota di quelle narrate durante l’esposizione. E soprattutto, è una sezione che ci restituisce un David Bowie decisamente più vicino al nostro sentire, un David Bowie più “umano” se vogliamo, un David Bowie che, malgrado la fama, non si fa scrupoli di viaggiare senza protezione alcuna e, anzi, premurandosi lui stesso di comperare i biglietti all’amico Sukita in un momento in cui il fotografo si stava portando dietro l’ingombrante attrezzatura: l’aneddoto è riportato su una parete, vicino alla fotografia che ritrae David Bowie alla stazione di Kyoto, nei pressi dei binari, mentre tiene in bocca una sigaretta con un’espressione naturale, incedendo quasi di scatto verso l’osservatore. L’artista, recatosi nella città giapponese per girare lo spot di una bibita, si sarebbe trattenuto dieci giorni a Kyoto. Le foto di Sukita lo ritraggono, qui, mentre compie gesti quotidiani: mentre parla al telefono dentro a una cabina, in piedi nella metropolitana, mentre si aggira tra i banchi di una pescheria, mentre fa

Con un salto di una ventina d’anni si arriva all’ultima sezione, con scatti che coprono un arco di tempo piuttosto lungo (si va dalla fine degli anni Ottanta fino agli anni Duemila). A destare il maggior interesse è, ancora, un David Bowie colto in una dimensione intima e privata. Uno scatto, in particolare, lo ritrae con lo sguardo fisso in avanti, e soprattutto con la barba incolta: il cantante non amava troppo farsi vedere con la barba che non fosse ben rasata (non si sentiva completamente a suo agio), e qui viene ripreso da Sukita durante un momento di relax, quasi di sorpresa. La fotografia però era venuta così bene che non poteva non essere pubblicata.

È su questi ritratti in bianco e nero, in alcuni dei quali David Bowie appare anche elegantemente abbigliato con completi scuri, che la mostra si conclude. Sono tanti gli omaggi che sono stati dedicati, in giro per l’Italia e non solo, a questo grande artista, scomparso a gennaio. La mostra spezzina ha molti validi motivi per distinguersi. Primo: dal momento che in un’esibizione così piccola (sono circa quaranta le fotografie) è impossibile dare un conto esaustivo della carriera di David Bowie, si rende necessario scegliere delle storie interessanti da raccontare, e David Bowie & Masayoshi Sukita: Heroes ha scelto alcuni momenti particolarmente interessanti, ottenendo un risultato che mescola sapientemente due snodi fondamentali della carriera di Bowie (Ziggy Stardust e Heroes, sebbene quest’ultimo appaia trattato in maniera molto più sbrigativa rispetto al periodo glam) a un racconto decisamente più intimo, che ci fa entrare nel vivo del rapporto tra il cantante e il fotografo. Secondo: il punto di vista di Masayoshi Sukita, un fotografo che con David Bowie ha lavorato per oltre quarant’anni (e che quindi lo conosce come pochi altri) è uno dei modi migliori per entrare in confidenza con il genio dell’artista britannico. Terzo: anche se nel finale la mostra perde un po’ di forza, l’impianto è comunque ben strutturato, ed è corredato da buoni apparati, efficaci e di semplice lettura (benché talvolta un po’ evasivi). È dunque una mostra da visitare: sia da chi ha apprezzato e apprezza David Bowie, sia da chi non lo conosce e vuole farsi un’idea. Un’idea che sarà, peraltro, ben confortata dai brani che nelle sale della mostra vengono diffusi come sottofondo, e che costituiscono un plus davvero gradevole.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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