Animali e luoghi fantastici nei musei d'Italia: Liguria


Quattordicesima tappa del viaggio nei musei italiani alla scoperta di animali e creature fantastiche: scopriamo oggi cosa si nasconde in Liguria.

Una terra meravigliosa stretta tra il mare e i monti subito dietro: è la Liguria, e anche tra i musei di questa regione è possibile imbattersi nelle presenze di animali e creature fantastiche. Dalle coste della riviera di Levante al Ponente vicino al confine francese fino ad arrivare a Genova, ecco quali sono gli animali che abbiamo trovato in Liguria. Il progetto è condotto da Finestre sull’Arte in collaborazione con il Ministero della Cultura e si pone l’obiettivo di far conoscere i musei a tutti attraverso punti di vista inediti sulle opere, ricordando che i musei sono luoghi sicuri e adatti a chiunque, famiglie, coppie, amici, colleghi, singoli visitatori. Ecco allora un altro viaggio!

1. L’Idra nella tela di Gregorio de Ferrari alle Gallerie Nazionali di Palazzo Spinola

L’Idra di Lerna, secondo la mitologia greca, era un mostro somigliante a un grande rettile marino con nove teste: estremamente velenoso, era in grado di uccidere col solo respiro, inoltre era anche dotato di una grande intelligenza. Le sue teste potevano ricrescere se recise. Venne affrontata da Ercole (Eracle in greco) nella seconda delle sue dodici fatiche: l’eroe venne aiutato dall’amico Iolao che cauterizzava le teste una volta tagliate in modo che non ricrescessero, e alla fine Ercole riuscì ad avere la meglio schiacciando la testa centrale. La tela realizzata da Gregorio de Ferrari (Porto Maurizio, 1647 – Genova, 1726), uno dei più importanti pittori del tardo Seicento ligure, nonché uno dei grandi nomi della decorazione barocca genovese, fa parte di una serie di dipinti dedicata al celebre eroe mitologico che un tempo adornava le sale di Palazzo Cattaneo Adorno. Le quattro opere del ciclo delle Fatiche di Ercole sono state acquisite da Palazzo Spinola nel 2014, assieme ad altre tre tele, sempre di Gregorio de Ferrari, con temi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio. Nel dipinto di De Ferrari, Ercole è raffigurato mentre si avventa sul temibile mostro, dipinto ai suoi piedi in procinto di essere sconfitto, in una composizione piuttosto convulsa ma attraverso la quale è possibile intravedere un grande equilibrio formale.

Gregorio de Ferrari, Ercole e l’idra di Lerna (fine del XVII secolo; olio su tela; Genova; Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola)
Gregorio de Ferrari, Ercole e l’idra di Lerna (fine del XVII secolo; olio su tela; Genova, Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola)

2. Le creature fantastiche delle tentazioni di sant’Antonio di Jan Verbeeck alle Gallerie Nazionali di Palazzo Spinola

Questo problematico dipinto, un tempo attribuito a Pieter Bruegel il giovane e oggi riferito al pittore fiammingo Jan Verbeeck (Mechelen, 1520 circa - 1569 circa), raffigura l’episodio delle tentazioni di sant’Antonio abate: le mostruose apparizioni demoniache avrebbero tormentato il santo cercando di minacciare la sua fede, ma il santo seppe resistere. Come da tipica iconografia nordica, le tentazioni sono raffigurate non solo come giovani bellissime e provocanti (sono quelle che vediamo di fianco al santo), ma anche come bizzarre creature fantastiche risultanti dagli incroci tra più animali, mostriciattoli singolari frutto di una grande fantasia che si rifà ai più celebri precedenti di Jheronimus Bosch, altro artista noto per le creature che popolano i suoi dipinti. Una curiosità: si narra che questo dipinto affascinò moltissimo Gustave Flaubert, che vide l’opera visitando nel 1845 Palazzo Balbi, dove si trovava anticamente. Dalla visione di quest’opera sarebbe scaturita l’opera La Tentation de Saint Antoine, scritta in ben tre versioni.

Jan Verbeeck, Le tentazioni di sant’Antonio Abate (XVI secolo; olio su tavola, 61,8 x 86,8 cm; Genova, Gallerie Nazionali della Liguria)
Jan Verbeeck, Le tentazioni di sant’Antonio Abate (XVI secolo; olio su tavola, 61,8 x 86,8 cm; Genova, Gallerie Nazionali della Liguria)

3. Il cerbero nell’affresco di Giovanni Battista Carlone al Palazzo Reale di Genova

Tra le sale di Palazzo Reale a Genova, e per la precisione nella Galleria della Cappella, sulla parete ovest, se si alza lo sguardo si noterà un affresco il cui protagonista è ancora Ercole, alle prese con un altro mostro mitologico: è Cerbero, il cane con tre teste che stava di guardia all’ingresso dell’oltretomba. La lotta con Cerbero rappresenta l’ultima delle dodici fatiche, le imprese a cui Ercole era stato costretto per aver ucciso la moglie e i figli in un accesso d’ira provocato dalla dea Era. L’ultima fatica consisteva proprio nel portare vivo Cerbero a Micene. E in questo affresco di Giovanni Battista Carlone (Genova, 1603 - 1684 circa), altro grande protagonista del barocco genovese, Ercole, con indosso la pelle del leone di Nemea sconfitto nella prima fatica, è colto nell’atto di catturare Cerbero, sconfitto con la sua sola forza. Carlone raffigura Ercole mentre stringe il corpo dell’animale infernale con una possente catena che lo immobilizzerà. La Galleria include altre rappresentazioni del mito di Ercole e si presenta con immagini di grande effetto scenografico, con figure a grandezza naturale che incombono sul visitatore (la scena dell’ultima fatica è dipinta sopra una porta) per coinvolgerlo negli eventi con una teatralità forte e che ha pochi altri riscontri nei palazzi genovesi del tempo.

Giovanni Battista Carlone, Ercole incatena Cerbero (1655 circa; affresco; Genova, Palazzo Reale)
Giovanni Battista Carlone, Ercole incatena Cerbero (1655 circa; affresco; Genova, Palazzo Reale)

4. Marsia nell’affresco di Domenico Parodi al Palazzo Reale di Genova

Marsia, nei racconti della mitologia greca, era un satiro, ovvero una creatura per metà uomo e per metà capra. Come gli altri satiri eccelleva nella musica, e in particolare era uno straordinario suonatore di aulos, il tipico flauto a una o due canne dell’antica Grecia. Era così bravo che le genti dell’Anatolia, dove viveva, ritenevano fosse migliore di Apollo, il dio della musica: la voce giunse allo stesso Apollo che decise di sfidarlo. I due stabilirono che il vincitore avrebbe guadagnato il diritto di fare del perdente ciò che volesse: Apollo alla fine prevalse, anche se con metodi poco “sportivi” (secondo una versione del mito, dopo un primo pareggio decretato dalle muse, impose a Marsia di suonare col flauto rovesciato, secondo altre versioni propose di cantare e suonare in contemporanea: in ambedue i casi lo strumento di Marsia non gli avrebbe consentito di battere il dio), e decise di punire la superbia di Marsia scorticandolo. Domenico Parodi (Genova, 1672 - 1742) decide però di raffigurare non il momento più cruento, bensì la contesa, nell’affresco che orna la Galleria degli Specchi di Palazzo Reale, uno degli ambienti più celebri e celebrati dell’edificio. La Galleria, nel 1650, era decorata solo dai quadri e dalle statue che facevano parte della raccolta di Giovanni Battista Balbi, figlio di Stefano, primo proprietario dell’edificio. L’aspetto attuale si deve a proprio Domenico Parodi che, intorno al 1725, per il nuovo proprietario Gerolamo Ignazio Durazzo immaginò la scenografica Galleria con stucchi, ori, specchi e pitture che dovevano avvolgere il visitatore per catturarlo e affascinarlo il più possibile. Anche la scena con Apollo e Marsia sfonda illusionisticamente il soffitto: è come se la volta della Galleria si aprisse sul cielo (addirittura le nuvole coprono gli stucchi per dare un effetto di maggior realismo) per farci assistere alla contesa. A fianco di Apollo ecco alcune delle muse: Melpomene, musa della tragedia, con la spada, dietro vediamo invece Urania, musa dell’Astronomia con il globo, e in piedi, alla sinistra di Apollo, Euterpe, la musica, raffigurata con la tromba.

Domenico Parodi, Apollo e Marsia (1725; affresco; Genova, Palazzo Reale)
Domenico Parodi, Apollo e Marsia (1725; affresco; Genova, Palazzo Reale)

5. La Medusa nella lotta tra Perseo e Fineo di Luca Giordano al Palazzo Reale a Genova

A Palazzo Reale si conserva un’importante opera del tardo Seicento, la Lotta tra Perseo e Fineo di Luca Giordano (Napoli, 1634 - 1705): raffigura un episodio del mito di Perseo, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. È quello che segue la liberazione di Andromeda, che Perseo salva dalle grinfie del mostro marino che la insidiava: la bellissima giovane era stata infatti promessa in sposa a Fineo, figlio della ninfa Anchinoe e dunque discendente di Poseidone, il dio del mare che aveva mandato il mostro contro Andromeda per punire la superbia della madre, che riteneva che la figlia fosse più bella di tutte le Nereidi, le ninfe del mare. Per aver salvato Andromeda, Perseo la ottenne in sposa: ciò scatenò l’ira di Fineo, che si presentò al banchetto nuziale assieme ai suoi guerrieri. Perseo ebbe la meglio sui nemici mostrando la testa di Medusa, la temibile creatura dal volto di donna e dai capelli di serpente che era in grado di pietrificare con lo sguardo. La testa recisa aveva conservato questo potere, e nel dipinto Perseo la utilizza come arma contro gli avversari: Fineo lo sa, e cerca di proteggersi con lo scudo (curiosamente il carapace di una tartaruga). È un altro dipinto simbolo del barocco, caratterizzato da grande teatralità ed espedienti scenografici, come l’idea di inserire la figura di Fineo sopra un gruppo di guerrieri sopraffatti, e quella di inserire le due alte colonne con attorno il drappo rosso per dividere nettamente la scena in due parti.

Luca Giordano, Lotta tra Perseo e Fineo (1680 circa; olio su tela; Genova, Palazzo Reale)
Luca Giordano, Lotta tra Perseo e Fineo (1680 circa; olio su tela; Genova, Palazzo Reale)

6. L’elephas antiquus del Museo Preistorico dei Balzi Rossi di Ventimiglia

Sì, lo sappiamo, non stiamo parlando propriamente di un animale fantastico, dato che l’elephas antiquus del Museo Preistorico dei Balzi Rossi di Ventimiglia è davvero esistito, ma si tratta comunque di un animale preistorico che ha... tanti lati fantastici, a cominciare dal fatto che in antico ritrovamenti di resti come quelli conservati a Ventimiglia (nel cranio i fori nasali sono fusi in un’unica apertura al centro della fronte e lo scheletro è caratterizzato da zampe molto lunghe), nelle grotte della Sicilia e della Grecia, alimentò nei tempi passati la nascita di miti e leggende. Per spiegare la scoperta di resti come questi addirittura nacque il mito dei ciclopi! Quello di Ventimiglia invece ha una storia molto meno mitologica: era il 1899 quando l’antropologo francese René Vernau segnalò la scoperta di un elefante europeo o elefante antico (animale della grandezza dell’odierno elefante africano, e che nella preistoria era diffuso in tutta Europa: si estinse circa 30.000 anni fa, a causa dell’irrigidimento del clima nel nostro continente) rinvenuto nel 1894 da un operaio della cava alla grotta della Barma Grande. È un animale di 10 anni, di grossa taglia, probabilmente maschio. Alcuni elementi di questo giovane animale, probabilmente abbattuto nel fondo della grotta, si presentano in connessione anatomica, come avevano già suggerito gli scopritori. Si tratta essenzialmente delle zampe (anteriori e posteriori) che sono state abbandonate sul posto, preferendo altre parti più ricche dal punto di vista alimentare. Alcune tracce di bruciatura e di riscaldamento hanno prodotto delle variazioni nel colore delle ossa, così come sono visibili tracce degli strumenti usati dall’uomo di Neanderthal per scarnificare l’animale. Sono inoltre documentate tracce di modellatura su frammenti di avorio che non trovano corrispondenza nel resto del materiale che proviene dai Balzi Rossi. Questi oggetti, peraltro, parlano di complessità tecnologiche insospettabili per l’uomo di Neanderthal. I resti dell’elephas antiquus dunque raccontano uno scenario complesso, in cui la Barma Grande costituì un’area di rifugio per l’elefante antico, durante il periodo di raffreddamento climatico. Gli uomini di Neanderthal affrontarono questo periodo e si stabilirono a più riprese ai Balzi Rossi: erano in grado di sfruttare la particolare conformazione del sito, riuscendo a spingere le prede nella trappola naturale costituita dalla Barma Grande, in modo da poter abbattere questi proboscidati per poi tagliarli e consumarli direttamente in loco.

Allestimento dei resti dell'elephas antiquus al Museo Preistorico dei Balzi Rossi di Ventimiglia
Allestimento dei resti dell’elephas antiquus al Museo Preistorico dei Balzi Rossi di Ventimiglia

7. Il cigno dei liguri nei pendagli della necropoli di Chiavari

Gli antichi liguri sono conosciuti anche come il popolo del cigno: il riferimento è alla leggenda del mitico re dei liguri Cicno, grande amico di Fetonte, figlio del dio del Sole, che ottenne dal padre il permesso di poter guidare il carro solare. Non fu però in grado di governarlo, e si avvicinò troppo alla Terra correndo il rischio di incendiarla: per evitare che distruggesse il pianeta, il dio Zeus fulminò il giovane facendolo cadere nelle acque del fiume Eridano (il Po), dove annegò. Cicno fu sconvolto dalla morte dell’amico e gli dèi, mossi a compassione, lo trasformarono in un cigno. Secondo un’altra versione del mito, Cicno sarebbe stato invece trasformato in cigno da Apollo dopo la sua scomparsa. Ad ogni modo, lo splendido animale è simbolo dei liguri e lo si ritrova pertanto in molte rappresentazioni, come in questo pendaglio in bronzo, rinvenuto nella tomba di una donna appartenente alla tribù dei Liguri Tigullii dell’Età del Ferro, che è oggi esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Chiavari. L’oggetto presenta, sui due lati, sporgenze con forma di volatile, con il becco rivolto verso il basso e la testa collegata all’anello di sospensione. Pendagli con la stessa forma erano prodotti in Italia centrale per essere applicati in genere a uno scudo; i due esemplari rinvenuti a Chiavari invece facevano parte di un corredo femminile ed erano collegati tramite una catenella a qualche oggetto d’ornamento, forse una collana.

Pendaglio a doppia protome ornitomorfa (a forma di uccello), con terminazione triangolare, dalla tomba 5A di Chiavari, Corso Millo, scavo della necropoli dell’Età del Ferro (bronzo, lunghezza 6 cm; Chiavari, Museo Archeologico Nazionale)
Pendaglio a doppia protome ornitomorfa (a forma di uccello), con terminazione triangolare, dalla tomba 5A di Chiavari, Corso Millo, scavo della necropoli dell’Età del Ferro (bronzo, lunghezza 6 cm; Chiavari, Museo Archeologico Nazionale)

8. Le sfingi dell’Antiquarium di Albintimilium (Ventimiglia)

L’Antiquarium della città romana di Albintimilium, corrispondente all’odierna Ventimiglia, conserva un monumento funerario rinvenuto dall’archeologo Girolamo Rossi (Ventimiglia, 1831 - 1914) negli scavi da lui seguiti nel 1886, composto da un’arula (ovvero un piccolo altare votivo) con fronte a timpano smussato, che reca sulla faccia anteriore l’iscrizione relativa alla sepoltura voluta da un certo Lucius Allius Ligus per sé, per la moglie Valeria Thallusa e per il loro figlio Lucius Allius Allianus, deceduto a soli vent’anni. Il monumento era affiancato da due sfingi in pietra grigia. La prima, completa della base e ben conservata, si presenta con un corpo femminile grande ed allungato, mentre la testa e le ali sono piccole e sproporzionate. L’acconciatura a pettinatura ondulata con boccoli laterali e crocchia sulla nuca riproduce una tipologia attestata in età tiberio-claudia (dal 14 al 54 d.C.). La seconda invece, ampiamente restaurata in antico e priva di appoggio, ha corpo molto grande e allungato, le ali piccolissime e malamente rifatte nella parte superiore in cemento, così come le zampe. La testa, che ha il collo in cemento, non pare pertinente. La sfinge, mitico animale con il corpo di leone e il volto di donna, era spesso adoperata nei monumenti funerari antichi: era infatti considerata guardiana delle aree sepolcrali. È proprio questa la valenza che la sfinge ricopre nel monumento sepolcrale di Albintimilium dove interpreta, con un linguaggio estremamente rigido e schematico, un’iconografia ampiamente diffusa nei contesti funerari della Cisalpina.

Arte romana, Sfinge di Albintimilium (I secolo d.C.; marmo, 53 x 55 x 23 cm; Ventimiglia, Antiquarium di Albintimilium)
Arte romana, Sfinge di Albintimilium (I secolo d.C.; marmo, 53 x 55 x 23 cm; Ventimiglia, Antiquarium di Albintimilium)

9. Il toro Api nella moneta della Villa romana del Varignano

Nella Villa Romana del Varignano, che si trova poco prima di Porto Venere in una delle zone paesaggisticamente più belle d’Italia, è stata rinvenuta una moneta in bronzo coniata al tempo dell’imperatore Giuliano e prodotta nella zecca di Lugdunum (l’odierna Lione, in Francia) nel 362-363 d.C. che reca sul retro l’immagine del toro Api, venerato dagli Egizi come araldo del dio Ptah, ma anche come divinità propria. Si tratta quindi non solo dell’immagine di un animale fantastico, ma addirittura di un animale divino: gli egizi infatti attribuivano ad Api grande importanza, simbolo di forza e di spirito coraggioso, e dunque legato al concetto di regalità.

Moneta in bronzo di Giuliano con il toro Api dalla Villa romana del Varignano
Moneta in bronzo di Giuliano con il toro Api dalla Villa romana del Varignano

10. La Medusa nel mosaico del Museo Archeologico Nazionale di Luni

Risalente a un periodo compreso tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C., questo mosaico proviene dalla Domus di Oceano a Luni, una residenza così detta perché aveva anche un più grande mosaico, tuttora visibile al Museo Archeologico Nazionale di Luni, raffigurante il volto del dio Oceano con due amorini a cavallo di delfini colti a pescare in un mare popolato di pesci, molluschi e crostacei. Il mosaico con il gorgoneion, ovvero la testa di Medusa, si trovava nel corridoio che dava accesso all’ambiente con il tessellato di Oceano. Su uno sfondo bianco è tracciato un rettangolo diviso in quattro riquadri che ospitano altrettanti distinti elementi; nel primo è rappresentato il gorgoneion. La testa di Medusa è dotata anche di due ali, mentre la chioma, come da tipica iconografia, è fatta di serpenti. Un grande fiore la divide dal riquadro che ospita invece la raffigurazione di un Sileno che ha due punti di vista: entrando nel corridoio ha l’aspetto consueto “senile” con lunga barba, dall’altra parte si legge invece il volto di un giovane la cui barba del vecchio funge da capigliatura. Chiude il sistema figurativo un altro fiore a più petali. Il mosaico è policromo, con tessere marmoree nere, grigie, azzurre, bianche, gialle, ocra, rosse, marroni, verdi; i particolari sono resi con tessere in pasta vitrea.

Arte romana, Gorgoneion (fine del III-inizio del IV secolo d.C.; mosaico; Luni, Museo Archeologico Nazionale)
Arte romana, Gorgoneion (fine del III-inizio del IV secolo d.C.; mosaico; Luni, Museo Archeologico Nazionale)

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