Io m'aggio posto in core a Dio servire di Jacopo da Lentini

Poesiarte

2010, Terza puntata


Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.

Parafrasi

Io ho fatto proponimento, promessa, di servire Dio,
affinché io possa andare in Paradiso.
A quel santo luogo di cui ho sentito parlare,
dove dura ininterrottamente divertimento, gioco e riso.

Non vorrei andarvi senza la mia donna,
quella dalla chioma bionda ed il volto luminoso, la carnagione chiara
poiché senza di lei non potrei aver gioia,
essendo diviso dalla mia donna.

Ma non lo dico (non sto dicendo tutto questo)
allo scopo di voler peccare con lei,
bensì soltanto perché vorrei vedere il suo comportarsi bene, la sua dignitosa condotta,

e il suo bel viso e il dolce sguardo;
considererei ciò una grande consolazione,
vedere la mia donna nella gloria del paradiso.

Commento

Jacopo da Lentini, detto il notaro da Dante, fu appunto notaio e funzionario della corte palermitana dell’imperatore Federico II di Svevia, definito con l’appellativo di stupor mundi, stupore del mondo, perché uomo di grande cultura.

E proprio Federico, non a caso, si fece promotore di una poesia di corte. Egli stesso scriveva componimenti in rima, ed invitò a questa pratica anche i suoi stessi funzionari, amministratori, cancellieri, tra i quali spicca Jacopo da Lentini, considerato caposcuola di questa prima forma di letteratura italiana, che vide il suo apice tra il tra il 1230 e il 1250.

In questo ventennio, i rappresentanti della poesia siciliana, cantarono in versi l'Amore cortese, riprendendo i temi tipici dalla poesia provenzale. C’è la figura della DONNA, con i suoi caratteri canonici:

- bionda di capelli e chiara di pelle
- lontana e inaccessibile
- raffinata nell’educazione e nel costume
- intelligente.

E c’è poi L’AMANTE – il suo vassallo. Ha con la donna un rapporto di dedizione cavalleresca. Mantiene gelosamente custodito nel suo cuore questo amore come un sentimento prezioso che affina il suo animo.

In questo componimento di Lentini, ovvero il classico sonetto fatto di 14 versi divisi in quartine e terzine, di cui lo stesso Lentini è considerato l’inventore, il sentimento d’amore s’intreccia con il sentimento religioso.

Croce, vi ha visto un forte contrasto. A suo parere, in questa poesia, si esprime il contrasto tra attrazione fisica e virtù morale, tra terra e paradiso. Se riflettiamo tuttavia sul fatto che i poeti come Lentini cantavano un amore impossibile per una donna, oggetto di desiderio irraggiungibile, potremmo affermare che tutti i riferimenti al paradiso, alla gloria celeste, sono utilizzati unicamente come metafora per esaltare la bellezza e le virtù della donna.

Del resto, quando Lentini rappresenta il paradiso, lo fa paragonandolo alla corte terrena, perché lo definisce come il luogo dove in eterno c’è gioco, divertimento, riso, che sono i tratti caratteristici della corte feudale. Ed i richiami alla realtà terrena sono numerosi: dalla fisicità femminile della donna protagonista del sonetto: i suoi capelli biondi, il suo viso chiaro, lo sguardo dolce; alla preoccupazione del poeta che, nel precisare che non vuol commettere alcun peccato con la propria donna, e che quindi il suo desiderio umano non vuol prevalere sulla devozione a Dio, finisce per lasciare intendere esattamente l’opposto.

In sostanza, c’è in questo sonetto una materializzazione del paradiso in funzione della donna, un paradiso terreno che eleva la donna e la rende ancora più irraggiungibile.

Un curiosità linguistica: la lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono scritti, è il Siciliano Illustre, ovvero un siciliano nobilitato dalle lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale. Ma i componimenti dei poeti siciliani, sono arrivati fino a noi perché trascritti da copisti toscani che li raccolsero e li studiarono a fondo, e che, più o meno volontariamente, cercarono di adattare il volgare siciliano a quello toscano. Ne sono testimonianza molti termini latini che sono stati toscanizzati, come ghiora anziché gloria, e il fatto che compaiano nei testi molte rime imperfette, e questo perché il siciliano ha cinque vocali, mentre il toscano ne ha sette, e nel tentativo di adattamento di un volgare all’altro, alcune rime variarono.

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