“Vogliamo davvero tornare alla situazione che c'era prima della chiusura?” Parla Eike Schmidt, direttore degli Uffizi


Vogliamo davvero tornare alla situazione che abbiamo lasciato prima della chiusura per emergenza sanitaria? Non ci sono cose da fare diversamente? Se lo chiede Eike D. Schmidt in questa intervista in cui proviamo a parlare di come saranno i musei dopo il coronavirus.

In che modo il più visitato museo d’Italia, ovvero la Galleria degli Uffizi (assieme ai musei del suo polo), sta affrontando l’emergenza sanitaria per il diffondersi della pandemia di Covid-19 da coronavirus? Cosa i musei dovranno fare quando ci sarà da ripartire? Come cambieranno i flussi dei visitatori e come dovranno prepararsi gli Uffizi e i musei in generale? Lo abbiamo chiesto in questa intervista esclusiva ad Eike D. Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi. L’intervista è a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.

Eike Schmidt
Eike Schmidt

FG. Come tutti i musei in Italia, anche gli Uffizi sono stati costretti a chiudere al pubblico, ma in compenso hanno intensificato le attività sui social: siete anche sbarcati su Facebook. Come avete organizzato il lavoro per questi giorni di chiusura forzata? Come stanno procedendo le attività?

ES. Il canale con più successo continua ad essere Instagram, con oramai oltre 445mila followers, ma dall’8 marzo vediamo anche un notevole incremento giornaliero su Twitter, che nel nostro caso è un canale un po’ di nicchia ma con un pubblico molto fedele e impegnato, con un alto grado di engagement. Ma forse più notevole di tutto è stato lo sbarco su Facebook il giorno dopo la chiusura del Paese. Nei primi diciotto giorni abbiamo collezionato oltre 37mila followers, e alcuni dei video sono stati visti da centinaia di migliaia di persone. Sotto la rubrica #UffiziDecameron offriamo video, foto e testi che si ispirano al principio dell’opera di Boccaccio, contrapponendo la forza dell’eros alla minaccia di thanatos, e la narrazione alla noia dell’isolamento. Abbiamo calibrato la comunicazione su Instagram sulla situazione attuale, mentre continuiamo con la formula vincente di offrire ogni giorno una foto, un gruppo di foto o un microvideo di pochi secondi dalle nostre collezioni, abbinato con un testo, sempre bilingue in italiano e inglese. Su Facebook invece pubblichiamo un video di circa tre minuti ogni mattina. È specialmente popolare la serie #lamiasala, in cui i curatori, assistenti, restauratori e così via (le persone che in tempi normali ogni giorno vivono il museo) presentano i loro spazi e le loro opere preferite nelle Gallerie.

In questi giorni abbiamo assistito a un incremento del pubblico sui social: normale, dal momento che siamo tutti costretti in casa. Avete pensato a strategie per “convertire” in pubblico “fisico” quello che adesso vi sta visitando attraverso la rete?

È il pubblico virtuale stesso che frequentemente esprime il desiderio di venire a trovarci dopo la riapertura. Chi ama le nostre collezioni online, le vorrebbe vedere anche on-site.

Il coronavirus sta facendo il giro del mondo e probabilmente, data anche la risposta dei varî paesi e dati i tempi che serviranno per trovare una cura e un vaccino, potrebbe non bastare un anno per tornare alla normalità. Secondo Lei, come si deve organizzare il mondo della cultura in generale e quello dei musei in particolare?

Il ritorno alla normalità è in questo momento un grande sogno per tutti, e questo è comprensibile e condivisibile. Tuttavia questa sospensione delle attività consuete deve indurre a chiederci: vogliamo veramente tornare esattamente alla situazione che abbiamo lasciato l’8 marzo scorso? Non ci sono delle cose da fare diversamente, magari anche qualche abitudine sviluppata nel periodo della quarantena collettiva che vorremmo portare nella nostra normalità futura? In questi giorni leggiamo spesso che niente sarà più com’era, eppure va ricordato che non c’è alcun automatismo nel cambiamento. Le idee, le convinzioni e le utopie che nascono in questo periodo vanno attivamente imposte al mondo quando riapriremo, perché è troppo facile riprendere esattamente lì dove ci siamo interrotti, senza modificare alcunché nei nostri comportamenti. Pensiamo all’inquinamento e alla microcriminalità, ora molto ridotti, ma sul punto di tornare come prima il giorno stesso della riapertura nazionale. Tra le misure tecniche dell’emergenza attuale, mi auguro che la gente d’ora in poi non si vergogni più a mettersi la mascherina ma invece adotti l’abitudine di mettersela quando accusa il minimo sintomo di raffreddore, come in Asia avviene da decenni, risparmiando non solo tanta spesa al sistema sanitario ma anche centinaia di vite umane per l’influenza comune. Come in molti altri settori, anche nel mondo culturale e dei musei l’emergenza del coronavirus sta anzitutto dando un’enorme spinta alla digitalizzazione. La sfida nel futuro immediato sarà quella di riequilibrare e far interagire la sfera digitale e quella reale in maniera produttiva e interessante, congeniale alle condizioni particolari di entrambi questi mondi. Incredibilmente ancora oggi molti vedono la comunicazione online solo come un’occasione per fare pubblicità a visite al museo, a concerti, eccetera. Ciò significa tralasciare il 99% del potenziale che il digitale ci offre.

L’ultimo evento internazionale che ha avuto un impatto sulle nostre vite è stata l’ondata degli attacchi terroristici del 2015: da allora le nostre piazze si sono riempite di barriere di cemento, sono aumentati i metal detector all’ingresso dei musei, c’è stato incremento nella vigilanza. Lei pensa che questa emergenza porterà ulteriori cambiamenti nelle modalità di visita dei musei e, più in generale, dei luoghi del turismo?

È un fatto che negli ultimi decenni siano sempre emerse nuove epidemie, che fino all’emergenza attuale non erano mai diventate pandemie globali: questo dovrebbe innanzitutto renderci consapevoli che ce ne saranno altre in futuro. Dobbiamo pertanto prepararci. Non sono un esperto, ma considerando quello che è successo in questa circostanza e osservando quali sono stati i canali di propagazione del contagio, mi viene in mente che sarebbe ad esempio utile avere dei check-points per effettuare controlli sanitari a tappeto, magari installandoli nei nodi principali dei flussi di persone, ovvero negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie e di pullman, e renderli operativi quando si presentasse la necessità. In alcuni paesi asiatici in tempo di allerta vengono attivati anche protocolli di monitoraggio per tutti gli edifici pubblici, musei e scuole incluse, e le aziende devono misurare la temperatura a tutti i dipendenti due volte al giorno. Per i musei vedo soprattutto la necessità di gestire l’ingresso attraverso un algoritmo (come quello che abbiamo già sviluppato e ampiamento testato agli Uffizi in collaborazione con l’Università dell’Aquila) per eliminare le code e scaglionare gli ingressi secondo criterî che in caso di necessità possono anche recepire misure di social distancing. La gestione informatica degli ingressi garantisce non soltanto una visita più piacevole e umana, ma insieme alle code elimina un potenziale obiettivo per il terrorismo e, come possiamo aggiungere ora, anche un’occasione di contagio microbiologico.

In Italia si è a lungo discusso su come mitigare il turismo di massa e i suoi effetti, dal momento che grandi masse di visitatori trasformano inevitabilmente le nostre città (e Firenze ne è un esempio). Secondo Lei, da questa crisi che ora è sanitaria ma che presto diventerà una crisi economica, potranno uscire delle nuove o delle diverse politiche turistico/culturali?

Per forza devono emergere nuove politiche culturali e per il turismo, ma non può essere un processo spontaneo. Bisogna che ci impegniamo. Nessun altro paese è così ricco di tesori artistici e paesaggistici sparsi per tutto il territorio come l’Italia. Pertanto la natura e la storia hanno già predisposto un’enorme opportunità che altrove completamente manca: quella di ridisegnare i flussi turistici in funzione di una rivalutazione di tutto il territorio nazionale. L’impedimento principale finora è sempre stato il campanilismo eccessivo, e gli interessi particolari più forti del bene comune. E proprio gli interessi particolari hanno purtroppo favorito i fenomeni dell’overtourism e della negligenza dell’ecologia. La digitalizzazione che durante l’attuale periodo della quarantena nazionale sta procedendo con grandi passi, potrà essere di aiuto cruciale anche in questo senso. Un forte potenziamento del lavoro agile, ad esempio, ridurrebbe il pendolarismo e potrebbe far rivivere o aiutare a costruire dei piccoli nuclei sociali e economici nelle periferie. Inoltre va promosso lo slow tourism: invece di dieci viaggi-salto per correre dietro alle mostre e ai festival musicali del momento sarebbe indubbiamente più istruttivo per ognuno, e più sano per il nostro pianeta, fare meno viaggi ma più lunghi.

Nei prossimi mesi potremo aspettarci importanti cali di visitatori: ci vorrà tempo per riprendersi da questa fase. Ha già pensato a come gli Uffizi (e, in generale, tutti i musei del polo) reagiranno di fronte alla necessità di dover funzionare a regime ridotto?

Al regime ridotto siamo preparati molto bene per via dei quattro mesi di bassa stagione che viviamo ogni anno ma che dal 2018, grazie alle varie misure di destagionalizzazione (prezzi dei biglietti ridotti, concentrazione delle mostre nei mesi invernali, eccetera), sono diventati “di mediobassa”. Tuttavia, potrebbe anche succedere l’opposto, dopo un periodo di transizione o anche subito. Perché il messaggio che riceviamo di più tra i commenti sui social media e attraverso la posta elettronica è: “Quando finisce questa crisi, la prima cosa che vorrei fare è tornare agli Uffizi.” E questo non soltanto dai nostri “tifosi” che magari hanno l’abbonamento Passepartout (la cui validità, tra l’altro, sarà aumentata per l’equivalente del non utilizzo dovuto alla chiusura forzata), ma anche da gente che è stata una sola volta nei nostri musei, in gita scolastica o viaggio di nozze, anni fa.

Però sussiste comunque l’eventualità che si verifichino cali nei grandi flussi turistici. E molto probabilmente questa evenienza costringerà i musei a guardare con molta più convinzione alle comunità locali, cercando di coinvolgerle come mai avevano fatto prima d’ora. Pensa che in futuro avremo dunque musei più vicini alle loro città, più capaci di coinvolgere gli abitanti? Magari con aperture straordinarie, orari che consentano visite anche a chi di giorno lavora, nuove politiche tariffarie, nuovi servizi, nuove iniziative?

È vero che le nostre aperture straordinarie serali durante l’estate e in altri momenti di afflusso elevato hanno aiutato molto a riportare i cittadini nel museo, che è un nostro obiettivo strategico di fondamentale importanza. Ma non bastano. La celebrazione di feste identitarie per la cittadinanza, dal Capodanno fiorentino e Dantedì (25 marzo) al giorno di San Giovanni (24 giugno), al Patto di Famiglia di Anna Maria Luisa de’ Medici (31 ottobre), alla Festa della Toscana in onore di Pietro Leopoldo (30 novembre), ha portato un enorme numero di fiorentini e toscani nei nostri musei. L’offerta culturale aggiuntiva, in particolare nella bassa stagione, ha giocato un ruolo non meno importante: dalla programmazione delle mostre nel periodo più difficile ai concerti inclusi nel biglietto del museo, dalle conferenze che ogni mercoledì pomeriggio abbiamo offerto gratuitamente alla cittadinanza (e che non vediamo l’ora di riprendere), ai laboratorî didattici in forte crescita, fino al coinvolgimento anche attraverso i social media. La prova che questa strategia sta funzionando è nei numeri dei nostri abbonamenti annuali “Passepartout”: abbiamo oltre 10mila abbonati, tra cui quasi mille famiglie: tutte persone che evidentemente tornano al museo più volte all’anno. Qualcuno viene così spesso che ho cominciato a riconoscerne la fisionomia. Dobbiamo continuare in questa direzione, favorendo la fruizione multipla, scandita, approfondita, da parte dei cittadini e di chiunque si appassiona veramente all’arte e ai nostri tesori.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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