La triste realtà dietro le Giornate FAI di Primavera. Quello che le celebrazioni non dicono


Il 24 e il 25 marzo 2018 si terranno le Giornate FAI di Primavera e tutti celebrano con entusiasmo la ricorrenza. Ma dietro alle Giornate si cela una realtà triste. Ecco una riflessione sull'argomento.

Come accade ogni anno dal 1993 a oggi, l’arrivo della bella stagione reca con sé le Giornate FAI di Primavera, e l’approssimarsi dell’evento è accompagnato dal consueto florilegio d’articoli dai toni encomiastici che, su ogni testata, celebrano il lavoro del FAI - Fondo Ambiente Italiano, cui va il merito d’aprir le porte di centinaia di beni culturali altrimenti in gran parte chiusi al pubblico. Un’iniziativa veramente lodevole, anche considerando il fatto che il FAI investe ogni anno fondi importanti per il recupero e la salvaguardia di beni culturali, impiegando somme donate dai cittadini: ed è ammirevole il modo in cui il FAI, in tutti questi anni, è riuscito ad avvicinare i cittadini alla cultura, sia con quei pochi giorni d’apertura che conducono fisicamente il pubblico dentro i luoghi della cultura, sia con l’azione quotidiana che sprona molti a far qualcosa di concreto per il patrimonio.

Vogliamo però sottrarci a tutti quei retorici trionfalismi che fanno apparire l’Italia come fosse imbalsamata in una sorta di grande documentario di Alberto Angela, e opporre qualche obiezione a questa narrazione che, negli anni, s’è sviluppata attorno alla “grande festa di piazza dedicata alla bellezza del nostro Paese” (così sul sito del FAI) che porta migliaia di cittadini e turisti a scoprire il patrimonio di cui sono circondati. Nel 2014, l’allora neoministro Dario Franceschini dichiarava che le Giornate Fai di Primavera “permettono ai cittadini di godere di uno straordinario patrimonio culturale altrimenti celato e ci insegnano a essere italiani”, e che “grazie all’opera di migliaia di volontari, nel prossimo fine settimana oltre 750 luoghi in tutta Italia normalmente inaccessibili saranno aperti e visitabili”. Ancora, due anni dopo il ministro affermava che le Giornate FAI rappresentano la dimostrazione “di come pubblico e privato insieme possono fare un lavoro davvero importante di valorizzazione e tutela del patrimonio culturale, soprattutto quello meno conosciuto, coinvolgendo non solo i turisti ma anche i cittadini. Cosa che il Fai fa da molti anni e che noi vogliamo continuare a sostenere in tutti i modi”. E parole simili ha pronunciato quest’anno Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario del MiBACT nonché ex presidente del FAI: “Non ho mai creduto nelle barriere tra pubblico e privato. La scommessa che il nostro Paese ha davanti, cioè quella di disegnare una strada per uno sviluppo che rispetti l’identità culturale, i contesti, e il nostro paesaggio, è straordinaria e possiamo vincerla tutti insieme”.

Prendendo come punto di partenza le dichiarazioni del ministro, sussistono almeno tre argomenti da eccepire sulle Giornate FAI. Il primo: molti dei beni che vengono aperti durante le Giornate FAI rimangono chiusi tutto il resto dell’anno. Non basta gioire perché quei beni “altrimenti celati” aprono le porte due giorni: occorre chiedersi per quali ragioni siano chiusi nei rimanenti trecentosessantatré, oppure rimangano visitabili su appuntamento. Valga l’esempio della Rocca di Ripafratta, in provincia di Pisa, un sito di proprietà privata che, come denuncia l’Associazione Salviamo la Rocca, “da anni versa in grave stato di abbandono”, e a nulla finora sono valsi i protocolli d’intesa volti al suo recupero e la petizione dei cittadini per chiedere che il castello divenisse di proprietà pubblica: il Comune di San Giuliano Terme ha chiesto formalmente ai proprietarî d’acquisirlo a titolo di donazione, ma la risposta è stata negativa perché la proprietà avrebbe intrapreso un percorso con una fondazione privata, che però al momento appare fermo, e sono al momento allo studio ulteriori proposte. Ci sono poi diversi musei pubblici che, a causa di carenza di personale o di mancanza di fondi, sono costretti ad aprire le loro sale col contagocce, col risultato che le Giornate FAI rappresentano uno dei pochi momenti all’anno in cui è possibile garantire un’apertura senza vincoli. E ancora, ci sono siti che, in queste due giornate, sono aperti esclusivamente a soci FAI, e altri ancora che hanno fasce orarie riservate ai tesserati (per esempio, a Milano, quasi tutti i siti, il sabato dalle 10 alle 14, garantiscono l’ingresso solo ai soci, col risultato che un terzo del periodo d’apertura è precluso a chi non è in possesso della tessera del FAI).

La Galleria degli Arazzi di Palazzo Clerici a Milano
La Galleria degli Arazzi di Palazzo Clerici a Milano, con la volta affrescata da Giovanni Battista Tiepolo: è uno dei beni che aprono per le Giornate FAI e che sabato dalle 10 alle 14 avranno ingresso riservato agli iscritti. Foto rilasciata nel pubblico dominio

Il secondo: le aperture sono garantite da un esercito di migliaia di volontari (che, peraltro, a oggi non sono neppure citati nei ringraziamenti del sito istituzionale), cui s’affiancano, ove previsto, circa 40.000 “apprendisti Ciceroni”, ovvero i ragazzi delle scuole ai quali è demandato il compito di guidare il pubblico alla scoperta dei beni. Pare superfluo sottolineare che affidare a volontari, seppur per due giorni, un compito delicato come l’organizzazione d’una visita guidata e financo la conduzione stessa della visita, è un’aberrazione che rischia di riflettersi sull’esperienza del visitatore che, non potendo giovarsi di figure professionali, dovrà solo sperare d’imbattersi nel ragazzo animato da vera passione e desideroso d’approfondire (se i materiali formativi degli “apprendisti Ciceroni” sono quelli che si possono reperire sul sito del FAI, probabilmente i visitatori dovranno preoccuparsi) e non in quello che ha semplicemente puntato sulla migliore delle opzioni per assolvere ai suoi obblighi relativi all’atroce istituto dell’Alternanza scuola-lavoro. Con questo, sia chiaro, non s’intende puntare il dito contro i volontari: sicuramente la maggior parte di loro crede in ciò che fa, e vuole mettersi al servizio del prossimo perché è convinta che diffondere consapevolezza attorno ai beni culturali sia un modo per crescere e per far crescere. Ciò che s’intende stigmatizzare è l’idea di ricorrere al volontariato per affidare a giovani e meno giovani degni di lode, ma che per la più parte non hanno affrontato adeguati percorsi formativi o professionali, mansioni che richiederebbero le competenze di professionisti.

Infine, il terzo: contrariamente a ciò che Franceschini affermò nel 2016, risulta davvero difficile trovare nelle Giornate FAI di Primavera “la dimostrazione di come pubblico e privato insieme possono fare un lavoro davvero importante di valorizzazione e tutela del patrimonio culturale”. Non è questo il modello di valorizzazione e tutela di cui il patrimonio ha bisogno. Il volontariato può forse andar bene, in mancanza d’alternative migliori, per cucire un raffazzonato e momentaneo rattoppo su situazioni di pressante emergenza, ma se diventa la norma e se addirittura dev’essere oggetto d’interesse da parte d’un ministro, allora significa che qualcosa non funziona. I problemi che costringono certi siti ad accogliere i volontari del FAI, del resto, rischiano d’estendersi a macchia d’olio: sono già in atto casi di musei importanti, di proprietà pubblica, costretti a drastiche riduzioni d’orario a causa di mancanza di personale, perché il Ministero non assume. Addirittura, alcuni istituti devono talvolta ricorrere ai giovani del servizio civile per colmare le lacune. E questo, purtroppo, sembra essere l’effetto più immediato del “modello Giornate FAI”: al di là della superficie patinata, esiste una triste realtà ch’è fatta di sostanziale disinteresse e di sostituzione del lavoro professionale con le prestazioni di quanti svolgono attività nei musei in qualità d’iscritti ad associazioni di volontariato. Un volontariato che, purtroppo, rischia peraltro di diventare il deprimente surrogato cui molti eccellenti giovani che hanno studiato per ottenere un lavoro nel settore dei beni culturali sono obbligati ad affidarsi onde acquisire un minimo d’esperienza sul campo. Un volontariato che dunque li costringe a dequalificare le proprie competenze, ricoprendo mansioni che necessiterebbero d’un vero contratto e di un’adeguata retribuzione.

In definitiva, siamo convinti che l’impegno del FAI rivesta una notevole importanza, e a quanti s’adoperano e si mettono in gioco per rendere le Giornate FAI un evento utile e interessante vanno tutti i complimenti possibili. Ma ritenere che le Giornate FAI possano esser viste come un modello o come una dimostrazione di felice interscambio tra pubblico e privato, forse significa continuare a condannare il nostro patrimonio culturale a una realtà fatta di precarietà, insicurezza e interesse sporadico.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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