Da Kentridge ad Anne-Sophie Mutter, uno sguardo sui vincitori del Praemium Imperiale 2019, il “Nobel” dell'arte


William Kentridge, Mona Hatoum, Williams&Tsien, Anne-Sophie Mutter, Bando Tamasaburo: ecco i vincitori del Praemium Imperiale 2019. Vediamo chi sono.

Come avevamo riportato pochi minuti dopo l’annuncio ufficiale, quest’anno i vincitori del Praemium Imperiale, il “Nobel” delle arti, sono William Kentridge (Johannesburg, 1955), che si aggiudica il premio per la pittura, Mona Hatoum (Beirut, 1952), che vince il premio per la scultura, il duo composto da Tod Williams (Detroit, 1943) e Billie Tsien (Ithaca, New York, 1949) a cui va il premio di architettura, Anne-Sophie Mutter (Rheinfelden, 1963), che ottiene il premio per la musica, e Bandō Tamasaburō (Tokyo, 1950), vittorioso nella categoria teatro/cinema. L’edizione numero XXXI del Praemium Imperiale premia anche per questo 2019 cinque personalità che si sono distinte nel campo delle arti, inoltre riconosce un premio per giovani artisti, il Grant for Young Artists, che per questa edizione va al progetto Démos, che si occupa di educazione musicale.

La premiazione si terrà il 16 ottobre nel complesso architettonico del Meiji Kinenkan di Tokyo alla presenza del Principe Hitachi, zio dell’Imperatore del Giappone e noto per le sue attività filantropiche. Il Principe Hitachi è Patrono onorario della Japan Art Association, l’ente che attribuisce il Praemium Imperale, fondato sull’aspirazione del principe Takamatsu (Tokyo, 1905 - 1987) che il Giappone promuovesse la pace nel mondo attraverso le arti. Ed è proprio l’egida della Casa imperiale giapponese uno dei fattori (insieme al rigore nella selezione dei candidati e della scelta finale dei vincitori) dell’autorevolezza di cui gode in tutto il mondo questo riconoscimento, il cui prestigio internazionale in campo artistico è pari a quello dei Premi Nobel in campo scientifico.

La proposta delle candidature per i riconoscimenti annuali spetta ai Consiglieri internazionali della Japan Art Association, che presiedono, ciascuno nel proprio paese, i Comitati per le nomine. La scelta finale dei vincitori viene invece compiuta da cinque Comitati di selezione della Japan Art Association, uno per ogni categoria del premio: pittura, scultura, architettura, musica, teatro/cinema. Condizione per il conferimento del premio è la presenza degli artisti alla cerimonia di premiazione di Tokyo. Tra i Consiglieri internazionali figurano esponenti di spicco del mondo istituzionale, politico e culturale: Lamberto Dini, Klaus-Dieter Lehmann, Christopher Patten, Jean-Pierre Raffarin e Caroline Kennedy, che ha l’incarico da questa edizione del premio, essendo stata nominata nel 2018 in seguito al ritiro dell’Ambasciatore Luers. Sono Consiglieri onorari Jacques Chirac, William H. Luers, David Rockefeller Jr., François Pinault e Yasuhiro Nakasone, che, compiuti cento anni, ha lasciato l’incarico a fine 2018.

I vincitori di questa trentunesima edizione andranno ad aggiungersi ai 154 artisti già insigniti del premio, tra i quali Claudio Abbado, Gae Aulenti, Ingmar Bergman, Luciano Berio, Cecco Bonanotte, Leonard Bernstein, Peter Brook, Anthony Caro, Enrico Castellani, Christo e Jeanne-Claude, Federico Fellini, Dietrich Fischer-Dieskau, Norman Foster, Frank Gehry, Jean-Luc Godard, David Hockney, Willem de Kooning, Akira Kurosawa, Wolfgang Laib, Sophia Loren, Umberto Mastroianni, Mario Merz, Issey Miyake, Riccardo Muti, Giuseppe Penone, Renzo Piano, Michelangelo Pistoletto, Maya Plisetskaya, Maurizio Pollini, Arnaldo Pomodoro, Robert Rauschenberg, Mstislav Rostropovich, Ravi Shankar, Mitsuko Uchida, Giuliano Vangi.

Vediamo da vicino chi sono i protagonisti di questa edizione del premio, e le motivazioni che hanno portato la giuria internazionale a decretarli vincitori.

William Kentridge (Johannesburg, 1943). Vincitore del premio per la pittura.
Motivazione: William Kentridge ha inventato i “disegni in movimento”, ossia film di animazione realizzati filmando immagini statiche, ridisegnandole e poi filmandole di nuovo, a più riprese, dando così vita a un universo senza eguali. Ha creato nuovi tipi di media artistici basati su disegni, integrando schizzi con video, installazioni, sculture e, successivamente, combinandoli tra loro fino a sviluppare lavori teatrali e operistici. Si è sempre opposto alla tirannia, e la sua ricerca intellettuale per individuare i mali dell’apartheid e del colonialismo attraversa tutte le sue opere. Per questo motivo è assai stimato da molte persone.

William Kentridge è uno straordinario artista visivo che utilizza disegno, cinema, performance, musica e scultura per indagare le idee e le convenzioni del nostro mondo, ricercarne le verità nascoste e smantellarne le false certezze.

L’artista nacque in una famiglia ebrea immigrata in Sudafrica. I suoi genitori erano avvocati, vicini agli attivisti e impegnati a loro volta nella lotta contro l’apartheid. L’ambiente in cui crebbe, anche se poi seguì un percorso diverso rispetto a quello dei genitori e dei nonni, anch’essi avvocati, lo portò a essere, come egli spiega, “capace di comprendere il mondo con argomentazioni diverse da quelle basate sulla legge”, consentendogli di “costruire una relazione etica con la società”.

Dopo avere conseguito la laurea in scienze politiche a Johannesburg, studiò teatro a Parigi e per un po’ di tempo cercò di diventare attore. Alla fine tuttavia, ormai trentenne, tornò in Sudafrica dove cominciò la sua carriera artistica con i “disegni in movimento”. Tale tecnica permette di effettuare parziali aggiunte e cancellature a una serie di disegni a carboncino che vengono filmati, un fotogramma alla volta, e collegati tra loro per formare un video. Questo stile di animazione, pur essendo semplice rispetto a stili più moderni e tecnicamente sofisticati, cattura la profondità del tempo e possiede una espressività colma di significati nascosti. Tra le opere della serie Nine Drawings for Projection (1989 - in corso), che hanno dato a Kentridge il successo mondiale, Felix in Exile può essere considerata della massima importanza. L’opera fu creata nel 1994, anno in cui in Sudafrica si tennero le prime elezioni democratiche. In essa riecheggiano le influenze dell’espressionismo tedesco e del dadaismo, con una scena drammatica di corpi morti che scompaiono nel paesaggio. “Anche se sapevo che le elezioni sarebbero state seguite dai festeggiamenti, non potevo evitare di pensare a come la memoria di coloro che erano morti, del loro sacrificio, sarebbe svanita. Allo stesso modo, il paesaggio non fa che coprire ciò che è accaduto in passato. In questo senso, sentivo che il paesaggio e la memoria sono molto simili”.

Felix in Exile riporta in superficie il dolore di una storia oscura che si è disciolta nel paesaggio fino a non essere più visibile, e tuttavia ci ricorda che la visione e la memoria dell’uomo sono effimere e incerte.

Nella produzione di Kentridge sono ricorrenti temi quali il cambiamento, la memoria, il tempo, e le sue idee migrano da un tipo di opera all’altro. L’artista sta dando vita a un’arte sempre più complessa e multidisciplinare che comporta una fusione su più livelli di suono, musica, danza e cinema, in cui silhouette e figure in processione giocano un ruolo fondamentale. L’opera epica The Head and the Load (2018), che esamina il ruolo dei soldati africani nella Prima Guerra Mondiale, è stata acclamata universalmente. Queste opere rivelano l’opposizione dell’artista ai regimi dittatoriali e al colonialismo e una ricerca intellettuale della patologia che essi sottendono.

Creativo e spiritoso, questo artista che vive a Johannesburg è richiesto in tutto il mondo. La sua produzione variegata ha un’ampia risonanza e, dopo quarant’anni, egli è ancora alla ricerca di un mondo più vero.

Kentridge è stato insignito del Premio Kyoto in Giappone nel 2010, dell’Ordine delle Arti e delle Lettere in Francia nel 2013 e del Premio Principessa delle Asturie in Spagna nel 2017.

William Kentridge nel suo atelier a Johannesburg. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun
William Kentridge nel suo atelier a Johannesburg. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun

 

Mona Hatoum (Beirut, 1952). Vincitrice del premio per la scultura.
Motivazione: Mona Hatoum è un’artista che ha sperimentato in prima persona la condizione di rifugiata e ha spesso mostrato l’agonia e il dolore dei profughi nelle sue opere d’arte, oltre a confrontarsi con contraddizioni sociali quali la repressione politica e le questioni di genere. Esprime la sua consapevolezza radicale e quasi critica dei problemi con grande delicatezza. La sua ricca immaginazione e i suoi risultati artistici meritano attenzione e il senso di urgenza presente nei suoi lavori conferisce loro un forte senso della realtà. Molto apprezzato è anche il modo in cui ha continuato a stimolare la scena artistica contemporanea.

Mona Hatoum è un’artista palestinese britannica la cui produzione poetica e politica è realizzata in una serie di media diversi tra loro e spesso non convenzionali, quali installazioni, sculture, video, fotografie, lavori su carta.

La sua famiglia d’origine era palestinese ma viveva in esilio a Beirut, in Libano. Nel 1975 l’artista si trovava a Londra per un breve soggiorno, quando lo scoppio della guerra civile libanese le impedì di fare ritorno a Beirut.

Stabilitasi a Londra, decise di realizzare un sogno che coltivava da tempo – diventare un’artista – studiando Belle Arti dal 1975 al 1981 alla Byam Shaw School of Art e alla Slade School of Fine Art. Inizialmente lavorò nel campo dei video e delle performance, estendendo in seguito le sue creazioni a installazioni e a opere di grandi dimensioni.

Una delle sue prime opere, Measures of Distance (1988), era un video singolarmente autobiografico contenente una conversazione tra l’artista e sua madre, in cui rivelava il dolore della separazione e l’effetto della distanza. Un’altra delle sue prime opere, Corps étranger (1994), nasceva dalla sua consapevolezza critica del proliferare delle telecamere di sorveglianza a Londra. L’artista proietta i risultati di una endoscopia, che riprende i suoi organi interni, sul fondo di una struttura cilindrica. L’osservatore diventa così un voyeur all’interno del corpo dell’artista.

Utilizzando la cartografia per esplorare l’instabilità e la precarietà nel panorama politico odierno, Hatoum ha realizzato una serie di mappe del mondo, da quella creata con sapone di Nablus e perline, Present Tense (1996), a Map (1999), una mappa realizzata con piccole sfere di vetro, fino a Hot Spot (2006-2013), un enorme globo luminoso con un minaccioso neon rosso.

Nel corso degli anni, Hatoum ha sviluppato un linguaggio in cui oggetti familiari, domestici, della vita quotidiana vengono spesso trasformati in qualcosa di estraneo, minaccioso e pericoloso. “Mi interessa”, spiega “‘il perturbante’. Quando una situazione perfettamente familiare improvvisamente appare strana, perché associata a un qualche tipo di evento traumatico, questo crea sentimenti di ansia, disagio e terrore”.

Nel 2017 si è aggiudicata il 10° Premio d’Arte di Hiroshima e la visita in Giappone che ne è seguita è stata la fonte d’ispirazione per l’importante opera Remains of the Day, in cui resti spettrali di arredi bruciati ricordano l’immensa devastazione causata dalla bomba atomica, facendo riecheggiare allo stesso tempo gli effetti della violenza e della guerra o i disastri ecologici di oggi.

Le sue opere riflettono spesso il suo background ibrido e variegato. “Le mie radici”, afferma, “sono in Medio Oriente. Ho una visione diversa del mondo. Ho avuto un’esperienza culturale molto eclettica ed eterogenea”.

Mona Hatoum è diventata una delle più importanti artiste a livello globale e le sue opere sono presenti in tutte le principali collezioni. Nel 2011 è stata insignita del Premio Joan Miró. Una grande mostra dedicata al suo lavoro si è tenuta al Centre Pompidou a Parigi, alla Tate Modern a Londra e al Kiasma a Helsinki, dal 2015 al 2017.

Attualmente vive a Londra e trascorre i suoi giorni, come lei stessa dice, “lavorando, lavorando, lavorando”.

 

Mona Hatoum nel suo atelier a Londra. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun
Mona Hatoum nel suo atelier a Londra. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun

 

Tod Williams (Detroit, 1943) e Billie Tsien (Ithaca, New York, 1949). Vincitori del premio per l’architettura.
Motivazione: Tod Williams & Billie Tsien si sono dedicati principalmente all’architettura non commerciale, in spazi quali istituti, musei, scuole ecc., descrivendo il loro lavoro di progettazione come “un bebè che cerca di imparare a camminare”. Essi analizzano minuziosamente materiali e forme, prendendosi il tempo sufficiente per consentire alle idee di svilupparsi. Inoltre danno importanza ai “disegni fatti a mano” e alla “lentezza”, contro le metodologie di lavoro troppo veloci. È assai apprezzato il modo in cui creano spazi delicati e rasserenanti con progetti che “sanno di artigianalità”.

Tod Williams e Billie Tsien lavorano insieme dal 1977 e vivono a New York, dove nel 1986 hanno fondato il celebre studio di architettura Tod Williams Billie Tsien Architects, che si rivolge principalmente a clienti pubblici e istituzionali come scuole, musei e associazioni non-profit.

Entrambi sono convinti che l’architettura sia un atto di “profondo ottimismo” e cercano di lavorare per istituzioni che condividano questa opinione. La loro aspirazione come architetti è “mettersi al servizio” dei loro committenti dando vita a progetti che ne incarnino la mission e i valori. “Iniziamo con una approfondita disamina del cliente”, spiega Williams. “Il nostro compito”, continua Tsien, “è tentare di comprendere che cosa forma l’essenza delle cose. Non possiamo lavorare a un progetto se non ne condividiamo i valori”.

Il loro studio esplora attentamente le potenzialità dei materiali, delle strutture, della luce e di altri elementi affinché riflettano l’obiettivo e la collocazione specifici di ciascun progetto. Laddove è possibile inseriscono lavorazioni artigianali, dando così visibilità a tutti coloro che contribuiscono alla nascita di un progetto con il loro lavoro, intellettuale o manuale. “La gente”, spiega Tsien, “dice che le strutture progettate da noi sono ‘come persone’. Cerchiamo di fare in modo che i nostri edifici siano intrisi di un senso di ‘appartenenza’, inoltre vogliamo suscitare in chi vi entra un sentimento di stupore”.

Williams e Tsien hanno personalità e background culturali diversi. Williams è tipicamente del Mid-West: grande lavoratore, con energie illimitate. Tsien, una cinese americana nata a Ithaca, nello Stato di New York, si definisce di cultura americana e di temperamento cinese. Capita spesso di trovarla immersa nella lettura di un romanzo, per ampliare la sua visione del mondo. “Se io porto increspature e tempo agitato, lei porta il sole”, dice Williams. Queste differenze sono bilanciate dal reciproco rispetto, dall’integrità e dallo spirito di collaborazione che si riflettono nel loro approccio alla progettazione. “Ci capita di discutere”, dice Williams sorridendo, “ma lavorare insieme ci piace. Se lavorassimo da soli, la qualità delle nostre opere si dimezzerebbe”.

The Barnes Foundation (2012) costituisce un esempio della filosofia e dell’approccio che caratterizzano il loro studio di progettazione. Fin dal 1925, la collezione d’arte del Dottor Albert Barnes, contenente importanti opere di impressionisti celebri quali Renoir, Cézanne e Matisse, era ospitata nella sua proprietà nei sobborghi di Filadelfia. La Fondazione, limitata da vincoli finanziari, preoccupata per la conservazione delle opere e per la sua situazione di isolamento in un sobborgo ricco, aveva necessità di una struttura più spaziosa e moderna, che consentisse un maggior afflusso di pubblico. Tuttavia Barnes nel suo testamento aveva espresso la volontà che la collezione fosse esposta nella sua collocazione originaria: una richiesta che rappresentava una sfida straordinaria per gli architetti.

Williams e Tsien fusero magistralmente elementi integrali dell’edificio originario con il necessario spazio da destinare al pubblico, allo staff e alla programmazione. Il loro progetto è basato sul concetto “Galleria in un Giardino, Giardino in una Galleria” e riflette la mission della Fondazione, il passato architettonico e l’eredità per il futuro.

Giungendo dalla strada, varcato l’ingresso della Barnes Foundation, si procede attraverso un giardino bucolico, in cui riecheggia il paesaggio preesistente. Le gallerie sono state meticolosamente riprodotte in modo da rispecchiare le condizioni in cui le aveva lasciate il Dottor Barnes. L’inserimento di un atrio centrale inondato dall’alto di luce naturale crea uno spazio flessibile per esibizioni ed eventi. Una apposita galleria per le mostre temporanee, un auditorium e una biblioteca diversificano ulteriormente l’offerta della Fondazione facendone una struttura olistica dedicata alla formazione artistica per il XXI secolo.

Le opere di Williams e Tsien si trovano principalmente negli Stati Uniti. Tra queste vi sono il Neurosciences Institute (1995) in California, l’American Folk Art Museum (2001) e il LeFrak Center at Lakeside (2013) a New York, edifici che hanno ottenuto importanti riconoscimenti.

Nel 2012 la Tod Williams Billie Tsien Architects ha completato il suo primo progetto oltremare, l’Asia Society Hong Kong Center, seguito nel 2014 dal Tata Consultancy Services Banyan Park a Mumbai, in India.

Nel 2016 l’ex-Presidente Barack Obama e Michelle Obama hanno annunciato che Williams e Tsien avranno l’onore di progettare l’Obama Presidential Center a Chicago.

Quale che sia la complessità o la dimensione di un progetto, i loro valori restano intatti e il loro obiettivo di lasciare segni positivi sulla Terra trascendendo le aspettative è più che mai solido.

Tod Williams e Billie Tsien. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun
Tod Williams e Billie Tsien. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun

 

Anne-Sophie Mutter (Rheinfelden, 1963). Vincitrice del premio per la musica.
Motivazione: Anne-Sophie Mutter è tenuta nella massima considerazione perché ha tutte le doti che si richiedono a una musicista: splendidi e variegati toni e colori musicali, tecnica perfetta, espressioni eccellenti e una ricca musicalità. È inoltre famosa per la sua profonda conoscenza della musica contemporanea. Come “Regina del Violino”, le sue recenti attività hanno visto crescere ulteriormente il suo successo. Ha ricevuto quattro volte un Grammy e quest’anno è stata insignita del prestigioso Polar Music Prize. È anche molto apprezzata per il suo impegno nell’aiutare i giovani musicisti di tutto il mondo e per il suo sostegno a diversi tipi di attività benefiche.

La musicista tedesca Anne-Sophie Mutter è considerata una delle più grandi violiniste contemporanee. Le sue competenze musicali e la sua tecnica del vibrato, raffinata e unica, sono indiscutibili, così come la sua eccellente capacità espressiva, la sua conoscenza musicale e il suo amore per la musica ad ampio spettro.

Fin dall’infanzia fu chiaro che il suo era un talento precoce e a soli tredici anni fu invitata dal celeberrimo direttore d’orchestra Herbert von Karajan a suonare con la Filarmonica di Berlino, orchestra con la quale continua a collaborare ancora oggi. “Disse che in effetti io ero stata l’unico violino solista”, ricorda, “con cui avesse lavorato dal 1978 in poi. Ne sono profondamente onorata, lo trovo un complimento meraviglioso”.

Anne-Sophie Mutter ha debuttato in Giappone con il maestro von Karajan nel 1981 e ha continuato a lavorare con molti dei più grandi direttori del mondo, quali Seiji Ozawa, Zubin Mehta e Daniel Barenboim. Può vantare un repertorio vasto e variegato che contiene spesso lavori scritti per lei dai più importanti compositori contemporanei, come Krzysztof Penderecki e Sofia Gubaidulina. Quest’anno sarà impegnata in una tournée ed eseguirà colonne sonore cinematografiche che sono state arrangiate appositamente per lei dal compositore John Williams.

“È il nobile compito di noi musicisti educare il pubblico, condurlo in questo viaggio in un universo differente”, afferma, “perché abbiamo bisogno di ampliare la nostra comprensione della musica, tanto chi suona quanto chi ascolta”. All’età di 34 anni ha dato vita a una fondazione per scoprire e sostenere nuovi talenti. Questa si è poi trasformata nella Fondazione Anne-Sophie Mutter, che mette a disposizione lezioni di musica e borse di studio nonché l’opportunità unica di suonare con la stessa Mutter. Scopo della fondazione è anche aiutare questi giovani musicisti a familiarizzare con la vita di un musicista professionista, facendoli conoscere a un pubblico più ampio. Nella primavera del 2011 ha avviato inoltre il progetto Mutter’s Virtuosi: questo ensemble, sotto la sua direzione artistica, è composto da coloro che hanno o hanno avuto una borsa di studio dalla Fondazione Anne-Sophie Mutter, nonché da altri giovani musicisti selezionati. In questo modo Anne-Sophie Mutter si assicura che ciò che lei stessa ha ricevuto dai grandi mentori continui a essere tramandato alla generazione successiva. “Karajan mi fece comprendere”, ricorda, “l’importanza di trasmettere alle generazioni future ciò che avevamo ricevuto dai nostri grandi maestri”.

Nel corso delle loro tournée in Europa, Nord America e Asia, i Mutter’s Virtuosi presentano sempre al pubblico nuovi lavori; nel programma di ogni tournée sono inoltre presenti concerti di beneficenza. La loro prossima tournée questo autunno li condurrà in Sud America. Anne-Sophie Mutter ha tenuto concerti di beneficenza per aiutare le vittime del grande terremoto e maremoto del 2011 nel Giappone Orientale e per i profughi siriani.

Vincitrice di numerosi premi, nel 2017 è stata insignita del titolo di Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere dal governo francese e nel 2019 ha ricevuto il prestigioso Polar Music Prize.

Anne-Sophie Mutter. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun
Anne-Sophie Mutter. Ph. Credit © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun

 

Bandō Tamasaburō (Tokyo, 1950). Vincitore del premio per il teatro/cinema.
Motivazione: Bandō Tamasaburō, il più importante onnagata (un attore che interpreta ruoli femminili) del teatro kabuki contemporaneo, è celebre per la sua grande bellezza, per la sua capacità di esprimere lo spirito del personaggio che interpreta e per le sue performance raffinate. È famoso anche nel campo della danza, in cui dà vita a mondi di eccezionale eleganza. Bandō ha ispirato artisti d’oltremare e può vantare numerose collaborazioni a livello internazionale. È inoltre un artista dai molteplici talenti, che opera non solo come attore ma anche come regista teatrale e cinematografico. Bandō Tamasaburō è davvero un attore, creatore e artista dal talento eccezionale e fuori dal comune, e gode del massimo prestigio sia in Giappone che all’estero.

Nel mondo della tradizione giapponese del teatro kabuki,Bandō Tamasaburō è già una leggenda ed è considerato uno dei più grandi attori onnagata. Come avviene nel teatro tradizionale di altri paesi, il kabuki è interpretato interamente da uomini e alcuni attori si specializzano nell’interpretazione dei ruoli femminili: gli onnagata. Bandō è celebre e molto ammirato per la sua incredibile capacità di rappresentare la bellezza femminile e di esprimere lo spirito del personaggio che interpreta.

Nel 1957, in linea con la tradizione kabuki, debuttò in scena con il nome Bandō Kinoji, ma nel 1964 diventò Bandō Tamasaburō V, ricevendo il prestigioso nome d’arte dal padre adottivo Morita Kan’ya XIV, che era Bandō Tamasaburō IV.

All’età di 19 anni Bandō si aggiudicò il ruolo della Principessa Shiranui nell’adattamento di Yukio Mishima dell’epopea eroica Chinsetsu Yumiharizuki.

Nel corso degli anni Bandō ha interpretato tutti i principali ruoli onnagata, che incarnano la meraviglia e il fascino del kabuki: personaggi come la bambinaia fedele Masaoka in Meiboku Sendai Hagi (Prezioso incenso e fiori d’autunno di Sendai), la graziosa cortigiana Akoya in Dan no Ura Kabuto Gunki(per molto tempo, Bandō fu l’unico attore che potesse interpretare questo ruolo) eYatsuhashi, una femme fatale in Kagotsurube Sato no Eizame (La spada stregata). È famoso anche per le sue performance di danza, che costituiscono parte integrante di un onnagata del teatro kabuki, ed è rinomata la sua capacità di creare mondi di speciale bellezza attraverso la danza in opere quali Kyoganoko Musume Dojoji (La fanciulla al Tempio Dojoji) e Sagi Musume (La fanciulla Airone).

In Giappone la popolarità di Bandō Tamasaburō e dei suoi partner sulla scena trascende il mondo del kabuki. Negli anni ’70 del secolo scorso, in particolare, Bandō avviò due rapporti di collaborazione artistica celebri e duraturi: uno con Ichikawa Danjuro XII, a quel tempo noto come Ichikawa Ebizo, l’altro con Kataoka Nizaemon, conosciuto all’epoca come Kataoka Takao. Tale era la popolarità di queste coppie artistiche, che divennero famose in tutto il Giappone come Ebi-Tama e Taka-Tama. Le loro interpretazioni vibranti e raffinate le resero molto amate dal pubblico, che fosse appassionato del teatro kabuki o no.

La creatività di Bandō non si ferma al kabuki. Fin da bambino interpretò importanti eroine del teatro non kabuki, vestendo i panni di Desdemona nell’Otello di Shakespeare e quelli di Tomihime nel classico giapponese dell’orrore Tenshu Monogatari di Izumi Kyoka.

Rivelando una mente creativa e costantemente rivolta alla ricerca, ha esteso l’ambito della sua attività includendo lavori internazionali e non kabuki, recitando nel Kumiodori di Okinawa e nell’opera cinese Kunqu come onnagata. Portando il suo interesse per la danza al di fuori del contesto kabuki, ha collaborato con il celebre violoncellista Yo-Yo Ma, combinando la danza con la musica della Suite No. 5 per violoncello solo di Johann Sebastian Bach. Nel 1994 ha lavorato con il famoso coreografo e ballerino Maurice Béjart nella prima del Re Lear - Morte di Cordelia. Ha inoltre dato vita, nel campo della danza, a collaborazioni con Mikhail Baryshnikov e Jorge Donn.

Il famoso regista polacco Andrzej Wajda fu così rapito dalle interpretazioni di Bandō che lo scelse come protagonista maschile e femminile nella versione teatrale e in quella cinematografica del suo Nastasja da Dostoevskij. È stato anche direttore artistico del gruppo di percussionisti Kodo, celebre in tutto il mondo, producendo Amaterasu e Yugen, spettacoli in cui la sua danza era combinata con le percussioni tradizionali giapponesi.

Insignito nel 2012 dal governo giapponese del titolo di Tesoro Nazionale Vivente, concesso a persone detentrici di Importante Patrimonio Culturale Immateriale, Bandō è considerato un maestro della propria arte, un ambasciatore della cultura giapponese e una enorme forza creativa.

Bandō Tamasaburō in Yugen, in uscita dal 27 settembre 2019 nelle sale di tutto il Giappone l’edizione speciale per cinema kabuki. © Takashi Okamoto
Bandō Tamasaburō in Yugen, in uscita dal 27 settembre 2019 nelle sale di tutto il Giappone l’edizione speciale per cinema kabuki. © Takashi Okamoto

 

Démos (Filarmonica di Parigi, Francia). Vincitori della Borsa di Studio del Praemium Imperiale 2019 per Giovani Artisti

Démos è un programma di educazione musicale gestito dalla Filarmonica di Parigi. Fin dalla sua nascita, nel 2010, ha avvicinato alla musica bambini di età compresa tra i sette e i dodici anni che vivono in luoghi caratterizzati da carenza di servizi o in aree rurali: zone in cui la musica classica tradizionalmente non viene promossa.

L’organizzazione non solo presta ai bambini gli strumenti musicali, ma impartisce anche lezioni fino a un massimo di quattro ore alla settimana per tre anni, tutto gratuitamente. Due musicisti professionisti e un assistente sociale lavorano insieme per insegnare a gruppi di quindici bambini. Il loro obiettivo non è solo fornire competenze in campo musicale, ma anche prendersi cura di loro dal punto di vista emotivo e favorirne lo sviluppo personale. Al termine di questo periodo, tutti gli strumenti vengono donati ai bambini che desiderano continuare a studiare musica.

Una volta al mese, sette gruppi si uniscono per formare un’orchestra di 105 elementi e annualmente queste orchestre tengono concerti nelle sale da concerto locali. Si esibiscono inoltre in un concerto annuale, alla fine di giugno, alla Filarmonica di Parigi.

Dando il via a questo progetto, il Direttore generale della Filarmonica di Parigi, Laurent Bayle, desiderava promuovere la presenza di Démos nella comunità dei bambini “ai margini”, meno favoriti degli altri. Ecco perché il programma Démos aspira a coprire gradualmente l’intero territorio.

Attualmente partecipano al programma Démos quasi 4000 bambini in tutto il paese; le orchestre Démos sono 38. L’obiettivo di Démos per il futuro è portare il numero delle orchestre a 60 entro il 2022.

Il programma Démos si basa sulla pedagogia sviluppata, fin dal 1995, dai gruppi docenti della Cité de la musique e arricchita da altri esperimenti condotti in tutto il mondo, come il “Take A Bow” della London Symphony Orchestra o El Sistema in Venezuela.

“Abbiamo istituito Démos”, spiega Laurent Bayle, “perché per noi è importante stabilire una relazione con i bambini che vivono in zone disagiate. Il progetto El Sistema ci ha dimostrato che l’insegnamento della musica può portare miglioramenti di ogni tipo nel campo dell’educazione. Noi pensiamo che sia molto importante il modo in cui la musica viene trasmessa dagli insegnanti ai bambini”.

La popolarità di Démos è cresciuta grazie al suo padrino, Lilian Thuram, il famoso calciatore la cui personalità è in perfetta armonia con il suo spirito. Thuram detiene il record delle convocazioni nella nazionale di calcio francese ed è stato campione del mondo nel 1998. Inoltre, Démos ha ispirato il film La Melodie, diretto da Rachid Hami nel 2017, che ha riscosso un grande successo.

Dopo avere studiato con il programma Démos per tre anni, il 50% dei diplomati continua a studiare musica o a essere in contatto con la musica classica in un modo o nell’altro. Il costo operativo annuale del programma è di circa 8 milioni di euro. Un terzo del budget è fornito dal Governo Francese, un terzo viene dal settore privato e un terzo dalle amministrazioni locali.

Bambini durante le prove all’Opéra de Massy, nei sobborghi di Parigi, 2019 © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun
Bambini durante le prove all’Opéra de Massy, nei sobborghi di Parigi, 2019 © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun

 

Nell’immagine sotto: WIlliam Kentridge, Mona Hatoum, Tod Williams e Billie Tsien, Anne-Sophie Mutter, Bandō Tamasaburō. Ph. Credits © The Japan Art Association / The Sankei Shimbun

Da Kentridge ad Anne-Sophie Mutter, uno sguardo sui vincitori del Praemium Imperiale 2019, il “Nobel” dell'arte
Da Kentridge ad Anne-Sophie Mutter, uno sguardo sui vincitori del Praemium Imperiale 2019, il “Nobel” dell'arte


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