Flop 10: i peggiori padiglioni nazionali della Biennale di Venezia 2019


La classifica dei dieci peggiori padiglioni nazionali alla cinquantottesima edizione della Biennale di Venezia secondo Finestre sull'Arte.

Pochi giorni dopo l’inaugurazione della cinquantottesima Biennale di Venezia avevamo pubblicato la nostra top 10 dei migliori padiglioni nazionali (oltre al commento sul vincitore del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale, il padiglione della Lituania). La rassegna sulla Biennale non poteva però essere completa senza la nostra flop 10: com’è lecito attendersi da un evento della portata della Biennale, non tutto è buono e non tutto è ben riuscito, anzi. Ecco dunque di seguito, dopo un’attenta valutazione, e come sempre con la classifica dal decimo al primo posto (ovvero il peggiore), i peggiori padiglioni della Biennale 2019.

10. Italia
Mostra: Né altra né questa: la sfida al labirinto. Artisti: Enrico David, Liliana Moro, Chiara Fumai. Curatore: Milovan Farronato.

In realtà, il padiglione dell’Italia non sarebbe neppure da “flop 10” perché, effettivamente e onestamente, c’è di peggio. Però la mostra curata da Milovan Farronato (il vero artista, diciamoci la verità), per quanto colta, è apparsa a molti forzata e poco coerente. E l’Italia, paese ospitante, non dovrebbe presentarsi con una proposta così fiacca alla Biennale di Venezia. Siamo ben lontani dal padiglione del 2017 (allora sì che la mostra dell’Italia figurava tra le proposte migliori). Avremo però modo di approfondire con un articolo sul tema.

Padiglione Italia
Padiglione Italia. Ph. Credit Italo Rondinella

9. Madagascar
Mostra: I have forgotten the night. Artista: Joël Andrianomearisoa. Curatori: Rina Ralay Ranaivo, Emmanuel Daydé

Assieme a Ghana, Malesia e Pakistan, il Madagascar è una delle quattro nazioni esordienti alla Biennale di Venezia. E certo occorre essere onesti: l’idea di I have forgotten the night non sarebbe neppure male. Artista e curatori si sono inventati un padiglione “immersivo” che porta il pubblico a camminare “nella notte” tra una cascata di carta nera. Nella presentazione dei curatori si legge che “Joël Andrianomearisoa svela l’immateriale del mondo invisibile, girando il mondo altrove, quando il sole di ferro si dimentica nell’azzurro della notte, quando la luce nera non fa più nascere il giorno” (qualunque cosa voglia dire). Peccato che il giorno nasca eccome: se si capita in giornata di cielo sereno e nel primo pomeriggio, la luce che filtra dai portoni dell’Arsenale è abbacinante e manda a monte tutti i buoni propositi di “maestosità dell’oltrenero”, di “erranze tristi”, di esperienze malinconiche. Il tutto si riduce a una passeggiata di un paio di minuti (questo il tempo necessario) tra fogli di carta nera appesi al soffitto.

Padiglione del Madagascar
Padiglione del Madagascar. Ph. Credit Italo Rondinella

8. Canada
Mostra: Isuma. Artista: Isuma (Zacharias Kunuk, Norman Cohn, Paul Apak, Pauloosie Qulitalik). Curatori: Asinnajaq, Catherine Crowston, Josée Drouin-Brisebois, Barbara Fischer, Candice Hopkins.

Probabilmente i canadesi hanno sbagliato mostra: dovevano partecipare a quella del cinema. Il loro padiglione è niente più che un film-documentario sugli Inuit (che peraltro compongono al 75% il collettivo artistico che presenta il progetto): ambientato nel 1961, il film racconta di un gruppo nomade di Inuit, capeggiato da Noah Piugattuk, che viene raggiunto da un incaricato del governo canadese intenzionato a convincerli a spostarsi in un villaggio dove poter mandare i figli a scuola e dove poter vivere in una maniera più conforme agli standard occidentali. Ma, ovviamente, il gruppo è del tutto restio ad accogliere la proposta. Sicuramente interessante ed attuale, ma pretenzioso ed esagerato chiamarla videoarte. E i curatori dovrebbero comprendere che la Biennale d’Arte non è forse il posto più adatto dove costringere il pubblico a vedere un video di ben 112 minuti sugli Inuit dell’isola di Baffin che parlano in lingua madre (ma con sottotitoli in inglese).

Padiglione del Canada
Padiglione del Canada. Ph. Credit Francesco Galli

7. Georgia
Mostra: Rearmirrorview, simulation is simulation, is simulation, is simulation. Artista: Anna K.E. Curatore: Margot Norton.

Una struttura a gradoni ricoperta di piastrelle, rubinetterie ovunque (che riproducono lettere dell’alfabeto georgiano) con qua e là schermi che mostrano l’artista, Anna K.E. (classe 1986, ballerina di danza classica) che si muove in ambienti non meglio precisati a voler suggerire come il corpo si relaziona col contesto (e i rubinetti con l’alfabeto cosa c’entrano?). Nel retro, tutto quello che si vede sul davanti, ma in negativo. Il risultato sembra un incrocio tra Leroy Merlin, Euronics e una piscina comunale. E non si capisce cosa l’artista ci voglia dimostrare.

Padiglione della Georgia
Padiglione della Georgia. Ph. Credit Italo Rondinella

6. Israele
Mostra: Field Hospital X. Artista: Aya Ben Ron. Curatore: Avi Lubin.

Field Hospital X ricrea un ospedale. Si entra in una sala d’attesa e all’ingresso viene consegnato un numero con il quale mettersi in coda per attendere il turno di “visita” (mentre si aspetta, si guarda un video che spiega l’installazione). Una volta chiamati, si entra in una cabina insonorizzata dove si lancia un urlo. Fatto questo si visita un “care-kit”, un’opera video dove c’è un artista che racconta una storia di ingiustizia sociale. Si passa poi ad ascoltare esperti di vari settori che raccontano un punto di vista diverso rispetto a ciò che è stato appena visto. Insomma: aspettare mezz’ora per vedere un video che racconta di un’ingiustizia sociale e ascoltare un punto di vista diverso sullo stesso video, non è proprio la cosa più interessante da fare in Biennale. Per avere la stessa esperienza basta accendere su un talk show di una qualsiasi rete televisiva. E ci si risparmia la coda in un ospedale finto, che non è proprio la cosa più simpatica del mondo.

Padiglione di Israele
Padiglione di Israele. Ph. Credit Francesco Galli

5. Polonia
Mostra: Flight. Artista: Roman Stańczak. Curatori: Łukasz Mojsak, Łukasz Ronduda.

Per il padiglione polacco, l’artista Roman Stańczak si è inventato un “aereo rovesciato” che, secondo le sue intenzioni, dovrebbe essere “un simbolo di forza che ha la possibilità di unire una società divisa mostrando il conflitto tra la modernità e la spiritualità”. Ma qui, più che entrare nel conflitto tra modernità e spiritualità, sembra di essere finiti sul set di Lost. O ancora meglio, di vedere i rottami dell’aereo di Selvaggi, il film degli anni Novanta con Ezio Greggio e Franco Oppini (il velivolo è simile). Manca solo Scatman John a cantare in sottofondo.

Padiglione della Polonia
Padiglione della Polonia. Ph. Credit Francesco Galli

4. Brasile
Mostra: Swinguerra. Artisti: Bárbara Wagner & Bejamin de Burca. Curatore: Gabriel Pérez-Barreiro.

Swinguerra, ci informano i curatori, è una crasi tra la parola “swingueira”, una sorta di danza tipica della città brasiliana di Recife, e “guerra”. Al di là dell’impagabile originalità del gioco di parole, il pubblico, entrando nel padiglione brasiliano, non vedrà altro che video di gente che balla in continuazione. Bárbara Wagner ci spiega che la swingueira è un fenomeno che nasce dall’esigenza di integrazione sociale, “si snoda attraverso l’esperienza dell’identità e arriva sul palco e su Instagram come una forma di spettacolo alimentato dal mainstream, ma che sopravvive assolutamente al di fuori di esso”. Tutto molto bello, ma l’arte dov’è? Basta riprendere un gruppo di abitanti di Recife che ballano per finire alla Biennale di Venezia?

Padiglione del Brasile
Padiglione del Brasile. Ph. Credit Francesco Galli

3. Austria
Mostra: Discordo Ergo Sum. Artista: Renate Bertlmann. Curatore: Felicitas Thun-Hohenstein.

Siamo tutti grati a Renate Bertlmann per il contributo dato al movimento femminista e a quello che ha fatto per la causa delle donne e per farci vivere la nostra sessualità in modo più aperto e sereno. Però la sua proposta per la Biennale di Venezia è davvero una delle mostre peggiori. Vorrebbe essere sovversiva, proposito che già è difficile di per sé nell’apparato più istituzionalizzato del mondo dell’arte. Ma la sua sovversione si sostanzia soprattutto in un’installazione che riproduce rose a forma di genitali femminili trafitte da spunzoni acuminati: kitsch e banale. Per il resto, la mostra è una specie di retrospettiva (molto caotica) di quanto fatto da Bertlmann anni addietro, inclusa la celeberrima Zärtliche Berührung. Al più si può prendere il padiglione austriaco come un momento di ripasso (non ben riuscito però) su una delle più interessanti figure del femminismo degli anni Settanta.

Padiglione dell'Austria
Padiglione dell’Austria. Ph. Credit Francesco Galli

2. Spagna
Mostra: Perforated by. Artisti: Itziar Okariz, Sergio Prego. Curatore: Peio Aguirre.

Scrive il curatore: “il principale gesto e tratto di questa mostra è di aprire, espandere lo spazio attraverso un’occupazione che è in realtà il suo opposto, una non occupazione o uno svuotamento [...]. Perforare significa bucare parzialmente qualcosa, una cosa, un’immagine o uno spazio, attraversandolo ma lasciando intravedere ciò che era in primo luogo, alterandolo nell’atto di perforazione”. E come viene attuata questa perforazione? Itziar Okariz parla con degli oggetti inanimati, esegue esercizi di respirazione davanti a un microfono e si dedica a simpatiche minzioni in spazi pubblici, Sergio Prego appende sacchi della rumenta alle pareti esterne del padiglione. È il padiglione più inutile della Biennale.

Padiglione della Spagna
Padiglione della Spagna. Ph. Credit Francesco Galli

1. Egitto
Mostra: Khnum across times witness. Artisti: Islam Abdullah, Ahmed Chiha, Ahmed Abdel Karim. Curatore: Ahmed Chiha.

Uno degli artisti si auto-cura la mostra e i risultati non sono esattamente brillanti. Anzi: in questa Biennale è davvero difficile immaginare qualcosa di peggio del padiglione dell’Egitto. Una piramide finta, sfingi di plastica con teste a forma di schermo, un cunicolo dove si passa necessariamente chini o inginocchiati. Praticamente il peggio dell’immaginario hollywoodiano dell’antico Egitto tradotto in forma di padiglione veneziano. Neanche un b-movie su Tutankhamon riuscirebbe a far peggio, e di fronte a tutto questo viene meno anche ogni buon proposito di “fondere passato e presente, antico e moderno”, come da nota del curatore. E come se non bastasse, all’ingresso l’Egitto ci introduce alla sua partecipazione alla “BIENNIALE” (sic!) di Venezia. Mancava giusto la ciliegina sulla torta di questa apoteosi del trash.

Padiglione dell'Egitto
Padiglione dell’Egitto. Ph. Credit Francesco Galli


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