Lorenzo Lotto e quei dipinti antiereticali che forse ispirarono Pellegrino Tibaldi


La critica recente ha preso in esame i probabili rapporti tra Lorenzo Lotto e Pellegrino Tibaldi: il giovane lombardo potrebbe aver guardato all’anziano veneto. In particolare alla Santa Casa di Loreto, dove si trovano alcuni dipinti di Lorenzo Lotto, recentemente letti in chiave antiereticale.

Un braccio candido e quasi lunare tenta di afferrare una mano sotto di lui: è l’arcangelo Michele, avvolto dal chiarore divino di una nube, che sembra nell’ultimo disperato e vano tentativo di salvare la sfrontata stella del mattino, ancora in fattezze umane e armoniose, ormai decadente. La pala di Lorenzo Lotto, datata tra il 1545 e il 1550, rappresenta proprio san Michele Arcangelo dal busto stretto in una corazza che al di sotto imprigiona una veste rosso cremisi mentre caccia, incerto, Lucifero nelle tenebre. “Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello”, ricorda il testo dell’Apocalisse (12:7), “e grazie alla testimonianza del loro martirio; poiché hanno disprezzato la vita fino a morire. Esultate, dunque, o cieli, e voi che abitate in essi. Ma guai a voi, terra e mare, perché il diavolo è precipitato sopra di voi pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo”. In molti tentarono, nel corso delle proprie vite mortali, di descrivere la caduta di Lucifero, ma nessuno lo dipinse con la potente e aggraziata umanità di Lorenzo Lotto nella sua grande opera San Michele caccia Lucifero.

Certo, sicuramente le nostre menti potranno condurci velocemente al ricordo de L’angelo caduto di Alexandre Cabanel del 1847, oppure ancora a Guillaume Geefs con il suo Genio del male del 1848, ma fu certamente il pittore veneto, nato nel 1480, tra i primi a restituire un volto umano ed efebico a quell’angelo decaduto, che tanto ci somiglia e spaventa. Fu nel Libro di spese diverse che Lotto disse di aver consegnato nel settembre 1542, per la chiesa di San Lio a Venezia, una “pala de un San Michele cobatere et caciare Luciffero”, mentre nel 1545 acquistò a Treviso ”un telar per l’altro san Michiel", quello che con tutta probabilità divenne il dipinto esposto, dopo il restauro, alla mostra Lorenzo Lotto e Pellegrino Tibaldi. Capolavori dalla Santa Casa di Loreto (fino al 17 marzo 2024). L’opera, definita dallo stesso Lotto “el quadro de Lucifero”, fu esposta nel 1550 presso la Loggia dei Mercanti di Ancona, ma rimase tristemente invenduta. Senza perdersi d’animo, allora, decise di portarla con sé insieme ad altre opere presso Loreto e farne dono al Santuario della Santa Casa in concomitanza con il suo atto di oblazione dell’8 settembre 1554.

Lorenzo Lotto, San Michele arcangelo caccia Lucifero (1545 circa; olio su tela, 167 x 135 cm; Loreto, Museo Pontificio Santa Casa) © Delegazione Pontificia Santuario della Santa Casa di Loreto e Distori Heritage, UNIVPM
Lorenzo Lotto, San Michele arcangelo caccia Lucifero (1545 circa; olio su tela, 167 x 135 cm; Loreto, Museo Pontificio Santa Casa) © Delegazione Pontificia Santuario della Santa Casa di Loreto e Distori Heritage, UNIVPM

Non conosciamo ancora, con estrema puntualità, ogni soggiorno dell’artista, ma ciò che è certo è che egli fu un girovago. Cresciuto nel contesto veneziano, guardò ai maestri dell’epoca quali Alvise Vivarini e Giovanni Bellini, prendendo dall’uno la cura per i dettagli e la ricchezza cromatica dell’altro: il tutto si amalgamò vivacemente nell’armonia perfetta della tavolozza del giovane artista. Dai soggiorni bergamaschi, invece, Lotto ereditò l’immenso fervore creativo e una profonda sensibilità nella raffigurazione umana che sempre fu rappresentata nelle sue opere con eleganza ed estrema grazia. Ogni sua pennellata sembra guidata dalla psicologia del personaggio che svela, attraverso il colore, i tratti fisionomici, ma soprattutto ogni speranza, paura ed emozione catturando l’intera gamma delle esperienze umane.

Siamo oggi abituati a pensare che Lorenzo Lotto fosse un artista solo e bistrattato poiché la storia lo ha annoverato tra i soccombenti, tra gli sconfitti e gli eterni secondi. “Secondo la vulgata”, afferma il direttore Museo Pontificio Santa Casa di Loreto Vito Punzi, “la scelta di concludere il suo lungo peregrinare d’artista da oblato del Santuario della Santa Casa, sarebbe stato l’inevitabile esito della sua lunga vita da sconfitto. In realtà allora Loreto era tutt’altro”. E infatti sarà proprio il Santuario della Santa Casa a calcare quello che fu uno tra i capitoli più significativi della sua esistenza. Il santuario, dagli ultimi decenni del Quattrocento, divenne un cantiere in cui i papi vollero realizzare grandiose opere chiamando i più stimati architetti, pittori e scultori tra cui Bramante, Luca Signorelli, Melozzo da Forlì, Giuliano da Maiano, Giuliano da Sangallo, Pellegrino Tibaldi e altri. Lorenzo Lotto giunse definitivamente a “Santa Maria de Loreto” portando, come scrisse lui stesso “tute mie robe, per habitar” e, soprattutto, portandosi dietro un buon numero di dipinti rimasti invenduti, nella speranza di dar loro una degna collocazione. L’artista riuscì felicemente nel suo intento quando il governatore Gaspare Dotti gli chiese di realizzare alcune opere per la Cappella del Coro della chiesa di Santa Maria e l’artista veneziano riuscì, così, ad adeguare le misure di cinque delle sue opere, portate da Ancona, a cui aggiunse due soli dipinti che realizzò gli ultimi anni della sua vita.

Fra gli artisti con cui Lotto si trovò a intersecare la sua esistenza ci fu sicuramente il più giovane Pellegrino Tibaldi. Un nodo, quello tra i due pittori, che prima della retrospettiva a Cuneo, poco o nulla venne indagato, ma l’incontro tra i due risulta non solo plausibile: l’influenza sembra essere palpabile. Quando Tibaldi non ancora trentenne arrivò a Loreto, l’artista veneziano ormai ultrasettantenne, malato agli occhi, e forse senza voce, stava realizzando le ultime opere per il ciclo del coro con l’Adorazione dei magi e la Presentazione al tempio. E proprio per la presenza di entrambi nel medesimo periodo, la studiosa Teresa Pugliatti ipotizzò, per prima, come “i dipinti lauretani di Tibaldi vedono un forte influsso del pennello lottesco manifestando l’uso di una linea più sciolta” e “di un michelangiolismo più personale e meno titanico rispetto alle opere precedenti”. Il giovane valsodano Tibaldi, però, non affinò solamente la tecnica, ma sembra aver preso una consistente ispirazione dell’anziano artista per l’episodio narrante la predicazione di san Giovanni. “Si osservi”, afferma la storica dell’arte Francesca Coltrinari, “soprattutto la figura che spicca in controluce in lontananza, con le braccia spalancate, emergente dalla turba indistinta di volti drammaticamente confusi e semplificati. A lui in particolare sembra rivolto il gesto di chiamata del Battista: è quel gesto a sollevarlo, lui, ultimo e lontano, dalle tenebre e a proiettarlo contro la luce della montagna, dove l’opposizione luce/tenebre assume un chiaro significato simbolico di contrapposizione fra peccato e redenzione”.

L’ipotesi avanzata sembra suggerire che in una lontana figura della Predica del Battista di Tibaldi possa essere identificato il Melchisedech lottesco del 1545 come colui che accolse e benedisse Abramo e fu invitato dal Battista a riconoscerlo come “padre”. Lotto, al tempo, era riconosciuto come il “pittore della Santa Casa” e tale qualifica, come evidenziato da Coltrinari, rimarrà unica nella storia del luogo. Non sembrerà ora assurdo fantasticare e pensare come Tibaldi possa aver cercato ispirazione, apprendendo silenziosamente dall’anziano maestro per dare vita ai suoi affreschi.

Grazie ai pagamenti registrati in alcuni documenti conservati nell’Archivio Storico del santuario possiamo affermare con assoluta certezza che gli affreschi raffiguranti il Battista, fortemente rovinati dal tempo, furono realizzati da Pellegrino Tibaldi tra il 1553 e il 1555.

Giorgio Vasari, nella seconda edizione delle sue Vite de più eccellenti pittori, scultori ed architetti, del 1568, fornì una dettagliata descrizione degli affreschi: nella volta, all’interno di una ricca partitura di stucchi, si trovavano la rappresentazione della Natività e la Presentazione di Cristo al tempio con Simeone, al centro il Salvatore trasfigurato sul Monte Tabor, accompagnato da Mosè, Elia e i discepoli, mentre sopra l’altare Tibaldi dipinse san Giovanni Battista che battezza Cristo, con il cardinale Ottone Truchsess (committente dell’opera) ritratto in ginocchio. Sulle facciate, da un lato dipinse san Giovanni che predica alle turbe, mentre sull’altro lato raffigurò la decollazione del santo e sotto la chiesa, Tibaldi diede corpo alle storie del Giudizio, utilizzando alcune figure in chiaroscuro per rendere le scene più vivide e coinvolgenti. Nella Predica del Battista, il santo parla con enfasi a una folla gremita e interessata, che si avvicina sempre più per ascoltare al meglio, mentre in fondo si staglia la figura dell’uomo tanto somigliante a Melchisedec: il re sacerdote dell’Antico Testamento.

È quindi particolarmente intrigante constatare l’impiego di una medesima formula in due opere collocate all’interno dello stesso contesto. Una formula patetica che vede due figure a braccia levate e prepotentemente spalancate che esprimono una violenta emozione.

Quello di Melchisedec è un episodio tratto dal racconto della Genesi (14:17-19), in cui il sacerdote di Salem offrì pane, vino e un agnello sacrificale ad Abramo e alle sue truppe e l’uomo, in segno di riconoscenza, restituì la benedizione donandogli la decima parte del bottino di guerra. La composizione di Lorenzo Lotto, adattata al coro dei Canonici di Loreto nel 1552, segue uno schema già utilizzato dall’artista, con un altare centrale e due gruppi di personaggi affrontati ai lati. Nella scena si distinguono Abramo, indicato dal bastone del comando, Melchisedech seguito da un corteo di sacerdoti vestiti secondo lo stile del Cinquecento e quattro pani e un’anfora di bronzo sulla tavola bianca che simboleggiano l’offerta eucaristica e identificano Melchisedech con il Messia.

Lorenzo Lotto, Il sacrificio di Melchisedec (1545-1550 circa; olio su tela, 172 x 248 cm; Loreto, Museo Pontificio della Santa Casa)
Lorenzo Lotto, Il sacrificio di Melchisedec (1545-1550 circa; olio su tela, 172 x 248 cm; Loreto, Museo Pontificio della Santa Casa)
Pellegrino Tibaldi, Predica del Battista (1553-1555; affresco strappato, 250 x 302 cm; Loreto, Museo Pontificio Santa Casa) © Delegazione Pontificia Santuario della Santa Casa di Loreto.
Pellegrino Tibaldi, Predica del Battista (1553-1555; affresco strappato, 250 x 302 cm; Loreto, Museo Pontificio Santa Casa) © Delegazione Pontificia Santuario della Santa Casa di Loreto.

Nel teso periodo della Controriforma, il Santuario della Santa Casa di Loreto si trovava sotto il cardinale Rodolfo Pio da Carpi e l’opera di Lotto pare suggerire una lettura di Melchisedech come il sacerdote perfetto, senza ascendenza, discendenza o dinastia e per questo eterno, come eterno è il sacerdozio di Cristo e quindi leggibile in chiave antiebraica e antiereticale. Moltissimi furono i restauri e uno di questi, quello del 2011, rivelò la firma di Lorenzo Lotto sul tronco spezzato in primo piano.

Ancor più recente è stato proprio il restauro dell’opera con San Michele arcangelo che caccia Lucifero affidato ad Alberto Sangalli che ha avuto un ruolo significativo non solo per aver eliminato un pezzo di fascina-torcia aggiunto da una mano non in sintonia con lo stile artistico originale, ma anche per aver ripristinato la freschezza e la brillantezza dei colori tipici della pittura veneziana. Il restauro ha consentito di ritrovare, oltre alla coda, un secondo elemento mostruoso: gli artigli neri che spuntano dalle dita dei piedi che prima risultavano invisibili.

Gli svariati studi condotti hanno persino scoperto come la spada, sollevata dietro la schiena di San Michele, non fosse altro che un ripensamento dell’artista che originariamente la posizionò davanti al busto dell’arcangelo, cogliendolo così nell’atto di spezzare la fascina-torcia dell’eterno decaduto. Questo tornare sui propri passi e riposizionare l’arma, descrivendo una scena di poco antecedente, permise a Lorenzo Lotto di caricare la scena di un’emotività struggente in cui il santo sembra impegnarsi in un gesto estremo di carità cercando di attirare a sé Lucifero. Ma egli, cadendo, quasi a voler compiere diniego, tenta l’ultimo disperato atto d’orgoglio e insubordinazione a chi si fece messaggero della volontà di Dio. Un’interpretazione estremamente interessante, suggerita da Francesca Coltrinari, è ispirata agli eretici raffigurati capovolti nell’oratorio Suardi di Trescore e potrebbe considerare l’esilio di Lucifero come una metafora della lotta della Chiesa cattolica contro i protestanti. Questo forse il nesso ideologico che lega il San Michele arcangelo al Sacrificio di Melchisedec.

Nel combattimento di Michele Arcangelo contro Lucifero è possibile ammirare le ali dei due protagonisti di un blu ultraterreno ed evanescente che afferrano e catturano ogni sguardo, mentre solo in un secondo momento si noterà un Lucifero dalle sembianze ancora angeliche ad eccezione della coda da demone e le unghie dei piedi affilatissime e nere che sono visibili quasi nitidamente proprio grazie al prezioso e recente restauro. È un Satana, quello di Lotto, colto nell’infinito atto di precipitare. Un Satana che non è ancora caduto, ma sta cadendo verso quell’inferno che da molte religioni è considerato un luogo di perdizione, disperazione assoluta e punizione, dove le anime più malvagie sono destinate a scontare tremende punizioni per l’eternità. Un angelo caduto che non è ancora quel comune diavolo dai tratti mostruosi, ma è semplicemente la stella del mattino che ebbe l’ardire di sfidare Dio.

Lucifero, convinto arrogantemente del suo piano, sfida infatti il divino, perdendo, e Lotto sembra predire rabdomanticamente il percorso che intraprese lo scrittore John Milton nel 1667 con il suo Paradise Lost: “Me miserevole! per quale varco potrò mai fuggire l’ira infinita, e l’infinita disperazione? Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l’inferno; e nell’abisso più fondo un altro abisso ancora più profondo si spalanca, e minaccia di divorarmi, e a confronto l’inferno che subisco mi sembra essere un cielo”.

Trovandosi dinanzi a questa magniloquente pala si potrebbe avere la sensazione che possa parlare di noi poiché l’errore compiuto da Satana è lo stesso che facciamo ogni giorno vagando in questo mondo mentre cerchiamo di rendere irrilevanti le incertezze, le insicurezze, le sofferenze che ci tengono per mano ogni giorno. Mentre proviamo a cancellare l’esistenza del fallimento e della morte incombente. E come sempre, alla resa dei conti, cadiamo davanti a quella granitica certezza che rimarremo sempre noi stessi, nudi davanti alla vita e nudi davanti alla morte. Perché alla fine, alla personale resa dei conti, quel buio abisso in cui cadremo lo avremo dipinto con le nostre mani.


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