In Sicilia sta per arrivare il colpo mortale a un patrimonio in agonia. Il nuovo ddl sui beni culturali


Settis: “è la conseguenza della sciagurata devoluzione dei beni culturali e del paesaggio alla regione”. A Palermo un “tavolo aperto” di discussione per dire “no”.

Sono convinto che la devoluzione dei beni culturali e del paesaggio alla Regione Sicilia sia stata una pessima idea, in contrasto con la Costituzione. Tutto quel che ne è seguito è la conseguenza di quella sciagurata decisione del 1975. Studierò con attenzione questo ddl”. In queste poche parole lapidarie, Salvatore Settis condensa la convinzione cristallina e potente del vulnus arrecato al patrimonio culturale siciliano dal riconoscimento da parte dello Stato della competenza esclusiva in materia di beni culturali, di cui unica gode anche tra quelle a statuto speciale. L’ultimo atto è segnato da un disegno di legge, in esame all’ARS (il parlamento siciliano), che mortifica le Soprintendenze e stravolge le norme sui piani paesistici.

A Settis lo avevamo sottoposto a fine febbraio. A distanza di qualche giorno il paese sarebbe piombato in un’emergenza sanitaria senza precedenti. Di lì la decisione di “congelare” questo articolo nel momento in cui tutta l’attenzione mediatica era concentrata sul covid-19.

Torniamo, dunque, a parlarne oggi che la Sicilia, uscita dal lockdown con il tasso di contagi più basso del Paese, si trova a dover fronteggiare un’altra emergenza, che rischia persino di fare più “vittime” del coronavirus tra i beni del patrimonio culturale e paesaggistico regionale: il ddl 698-500, in apparenza, intende disciplinare “le azioni della Regione in materia di valorizzazione dei beni culturali e di tutela del paesaggio”, nella sostanza, invece, è un tentativo di riforma legislativa scaturita da un sostanziale analfabetismo non solo della normativa nazionale di settore, ma anche di quella regionale, che mira a esautorare le soprintendenze e a mettere fuori gioco la tutela paesaggistica.

Non una legge volta a disciplinare singoli settori (musei, ecomusei, parchi archeologici, ecc.), come in passato, ma una riforma normativa su vasta scala, che come precedente ha solo quella che aveva consentito alla Sicilia di costruire l’architrave di una tutela “parallela” a quella statale attraverso le lungimiranti e fondamentali leggi n. 80/1977 e n. 116/1980.

Freccia tesa nell’arco e mai fatta scoccare, quella della competenza esclusiva in materia di beni culturali, è la storia di quasi mezzo secolo di premesse e promesse che non si è saputo e voluto sviluppare nella loro carica non di rado innovativa. Eppure, non siamo così certi, però, che, se anche la si abrogasse l’autonomia, la Sicilia si ritroverebbe d’un colpo una classe politica migliore.

Basta leggere i 56 articoli di questo assurdo e anticostituzionale ddl, presentato da deputati di tutti gli schieramenti (con la sola eccezione dei 5S e Claudio Fava, leader del movimento Cento Passi per la Sicilia, che ha ritirato la firma), per nutrire qualche dubbio in merito. Primo firmatario è Luca Sammartino (Italia Viva), presidente della stessa Commissione Cultura. Evidentemente è venuto a mancare il polso dell’insofferenza montante di chi opera nel sistema dei beni culturali siciliani, o anche solo ci gravita intorno. Non si sono fatte attendere, infatti, le aspre critiche delle associazioni in difesa del patrimonio culturale e paesaggistico, degli Ordini degli Architetti, dei docenti universitari, ma anche dei soprintendenti e direttori dei musei regionali. Tutti chiedono la stessa cosa: che il ddl sia ritirato, e non solo rappezzato con un numero impressionante di emendamenti (quasi 500).

Il tempio E di Selinunte
Il tempio E di Selinunte

Le criticità dei beni culturali in Sicilia

Una pessima normativa, insomma, incapace di affrontare la complessità dei problemi che rischiano a breve termine di paralizzare il Dipartimento dei Beni culturali e dell’Identità Siciliana, che sconta un capitale umano ridotto a “riserva indiana”, mentre sono in atto massicci pensionamenti, senza che sia previsto un turn over. Impera la mortificazione delle competenze specialistiche, a vantaggio di figure generiche che indeboliscono o persino contraddicono la mission di ciascun istituto, come un geologo a capo di un’Unità beni archeologici di una Soprintendenza o di un architetto alla direzione di un Parco archeologico. Stiamo parlando anche della cronica mancanza di risorse finanziarie; dell’indebolimento dell’azione di tutela per un’incongrua riorganizzazione delle Soprintendenze; delle irrazionali misure di contrazione della spesa, lasciate in eredità dal precedente Governo, che non intaccano gli sprechi ma paralizzano gli uffici, già a corto di strumentazioni, mezzi tecnologici, connessioni internet veloci, ecc.; della mancata revisione e aggiornamento normativo di settore, che è cosa ben diversa dal pasticciato tentativo proposto da questo ddl. E ancora, della politica dei prestiti delle opere d’arte che più che una regione autonoma fa della Sicilia una colonia dei musei internazionali; della necessità di accelerare e completare la pianificazione paesaggistica. Ma anche della necessità di creare e attuare un coordinamento inter-assessoriale, perché le politiche culturali non possono che avere una portata di sistema e i beni culturali andrebbero sempre raccordati in un quadro unitario di progetto, intersecati con gli orientamenti programmatici di altre politiche (infrastrutture, pianificazione, lavori pubblici, tutela dell’ambiente, turismo, formazione e economia, perché ogni politica culturale implica una politica economica). Sembra, infine, un tecnicismo e, invece, è la chiave di tutto: serve implementare e sistematizzare le tre banche dati esistenti (quelle realizzate da Cricd e Crpr, insieme a quelle prodotte nella redazione dei Piani Territoriali Paesistici). Perché la conoscenza della consistenza del patrimonio è premessa di qualsiasi azione, dal suo studio alla conservazione alla valorizzazione. E l’elenco è ancora per difetto.

Veduta di Noto
Veduta di Noto

Le voci critiche che bocciano il ddl

E invece di tutto questo, cosa si legge in questo disegno di legge? La delega ai Comuni della concessione delle autorizzazioni paesaggistiche, in contrasto col Codice. A Enti, cioè, non in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche.

È evidente, anche, un tentativo di accentrare tutto nelle mani del dirigente generale (dg) del Dipartimento Beni Culturali, figura, come noto, fortemente condizionata da un’eccessiva prossimità alla politica. A quest’ultimo si vorrebbe demandare l’autorizzazione di interventi sui beni culturali che il Codice riconosce solo alle Soprintendenze. Private queste ultime anche dei compiti di conservazione, studio e restauro, trasferiti, osserva la CIA, Confederazione Italiana Archeologi, al Centro Regionale Progettazione e Restauro. Al quale Centro, aggiungiamo, già il DA n. 6 del 29 gennaio 2019, che disciplina le procedure per le autorizzazioni ai prestiti dei beni culturali regionali, attribuisce l’espressione del parere sullo stato di conservazione del bene, al posto delle soprintendenze.

La CIA solleva dubbi anche sul metodo, oltre che nel merito: la competenza legislativa della Regione Siciliana in materia fatta discendere direttamente dallo Statuto, invece che dai decreti delega del Presidente della Repubblica del 1975; e il mancato riferimento alle leggi fondamentali del 1977 e 1980 di cui si è già detto. Nel merito, osserva, tra l’altro, che “l’art. 7 del ddl assegna la tutela dei beni culturali e paesaggistici ad accordi tra amministrazioni, scavalcando il ruolo tecnico-scientifico delle istituzioni di tutela”. Andando, peraltro, nella stessa direzione di un recente legge regionale: la legge Armao-Grasso (“Disposizioni per i procedimenti amministrativi e le funzionalità dell’azione amministrativa”, che recepisce la Legge Madia del 2015), che stabilisce che se “un’amministrazione regionale o locale in materia di tutela ambientale, paesaggistico territoriale, del patrimonio storico-artistico” (per esempio una Soprintendenza) esprime dissenso, in sede di conferenza dei servizi, nei confronti di un progetto, si può proporre opposizione dinnanzi alla Giunta. In altre parole, viene introdotta una sorta di giudizio finale da parte dell’organo politico.

Sulle Soprintendenze, Legambiente, non usa mezzi termini nel riconoscere che “non sempre hanno assolto al meglio al loro compito, avendo subito quasi sempre intromissioni dalla politica e da lobbies […] Tuttavia, e lo si è riscontrato con i piani paesaggistici, sono state un argine al saccheggio ed alla predazione. In tal senso sono state viste come lacci e lacciuoli alle iniziative private”. Per questo auspica che vengano anzi “riformate, rendendole più autonome e libere dai condizionamenti della politica”. E dotate di maggiori “risorse umane e finanziarie”.

Di svilimento delle soprintendenze parla anche il “cartello” del no al ddl che unisce, oltre alla stessa Legambiente, il Forum siciliano dei movimenti per l’Acqua ed i Beni Comuni Zero Waste Sicilia, WWF Sicilia Italia Nostra Sicilia; Comitato Rodotà Beni Pubblici e Comuni Sicilia Centro Consumatori Italia: “dietro il paravento dello snellimento della burocrazia”, denunciano “la prassi che privilegia la via degli incarichi di natura di derivazione fiduciaria, piuttosto che potenziare l’organico qualificato”.

Per SiciliAntica il ddl elude del tutto questioni centrali: “il rispetto delle competenze tecniche nell’affidamento degli incarichi direttivi all’interno degli enti di tutela costituisce la premessa indispensabile a qualsiasi azione che voglia promuovere attività di ricerca, valorizzazione e gestione di un patrimonio culturale e ambientale vasto e capillarmente diffuso”.

L’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli e Italia Nostra hanno firmato un documento congiunto in cui sottolineano come il ddl contenga “norme che confliggono con la legislazione nazionale di tutela che dà attuazione al dettato costituzionale dell’art. 9”. Altro che recepimento del Codice. ll fine quello “di “liberare” dai vincoli di tutela dettati dalla Costituzione la pianificazione territoriale e renderla assoggettabile agli interessi speculativi”. E poi, “la crisi del sistema regionale di tutela si evidenzia in tutta la sua gravità oggi nel confronto con l’attuale sistema nazionale che ha preso a modello proprio le Soprintendenze uniche siciliane per una riforma delle strutture periferiche del MiBACT, con la finalità dichiarata di realizzare una tutela multidisciplinare e contestuale del patrimonio culturale della Nazione. La tutela olistica dei beni culturali, obiettivo dichiarato della innovativa normativa regionale, prodotta quarant’anni fa in forte anticipo con il quadro legislativo nazionale, è, oggi, proprio in Sicilia, impossibile da realizzare da parte delle soprintendenze a causa del caos organizzativo prodotto da successive leggi e atti amministrativi che hanno distrutto l’assetto multidisciplinare degli Istituti siciliani di tutela”.

Grossolani accavallamenti tra competenze regionali e statali, spia della fretta con cui è stato redatto il testo normativo, sono state evidenziate dall’ANAI, Associazione Nazionale Archivistica Italiana, che ricorda che la Soprintendenza archivistica della Sicilia è un “fossile” delle soprintendenze statali presenti nella Regione prima del passaggio delle competenze nel 1975: “unica soprintendenza statale sul territorio regionale”, non può essere inquadrata gerarchicamente nella struttura amministrativa della Regione, né tanto meno essere scavalcata dal dg in materia di autorizzazioni riguardanti gli archivi.

Più morbida, infine, la posizione dell’ANA, Associazione Nazionale Archeologi, che considera il ddl “integrativo” del Codice, proponendo, però, una serie di puntuali emendamenti. Come quelli di considerare l’apporto del volontariato come una risorsa non “integrativa”, ma “ausiliaria” dei professionisti; o di rimettere al soprintendente, e non al dg, l’autorizzazione su qualunque intervento sui beni culturali.

La Cattedrale di Palermo
La Cattedrale di Palermo

La Sicilia, da “laboratorio politico” a “laboratorio legislativo”

La Sicilia, già “laboratorio politico” di esperienze da trasferire poi a livello nazionale, diventa così anche “laboratorio legislativo” di leggi che non ancora approvate, attecchiscono già altrove. A Firenze, per esempio. Dove il sindaco Dario Nardella ha chiesto al Governo che nel decreto semplificazione sia data ai sindaci delle città d’arte la possibilità di superare i vincoli sul patrimonio storico-artistico. “Per spostare una piccola parete”, ha detto, “ho bisogno di autorizzazioni delle soprintendenze. Per rifare una facciata ho bisogno dell’autorizzazione paesaggistica”.

Non c’è troppo da sorprendersi di questo allineamento proprio qui del col passaggio più discusso del ddl del renziano Sammartino: come altri esponenti del PD toscano, Nardella è cresciuto politicamente nel renzismo. Non ci si accontenta più nemmeno del silenzio-assenso introdotto dalla Legge Madia di Riforma della PA (L. 124/2015) nei procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, su cui si esprimono le soprintendenze. Meccanismo non recepito, va detto (talvolta l’autonomia non equivale a dolori…), dalla recente legge siciliana Armao-Grasso sulla “sburocratizzazione”.

Come riformare le soprintendenze

L’economia non può essere tenuta in ostaggio dell’inefficienza! È vero, ma i soprintendenti non sono agenti con licenza di bloccare lo sviluppo. Bisogna metterli nelle condizioni di rispondere entro le tempistiche sia che si tratti di un privato che del sindaco Nardella.

Come? Torniamo alle soprintendenze siciliane sotto assedio. Primo, tenendo conto delle competenze tecniche, invece che assegnare incarichi a prescinderne. Valutando il peso reale di curricula, drogati invece da decenni di incarichi ottenuti garantendo fedeltà al politico di turno piuttosto che all’art. 9 della Costituzione. Una macchina che si alimenta in modo circolare: si impilano titoli e incarichi con cui si gonfiano curricula da spendere per ottenere nuovi incarichi. Chi si farebbe mai operare al cuore da un dentista? E perché, allora, a esprimersi sulla demolizione di un edificio storico dovrebbe essere un agronomo? Secondo, ripristinando le singole unità operative contro gli incongrui accorpamenti di alcuni ambiti settoriali voluti dal Governo Crocetta, per cui i beni architettonici fanno coppia con quelli storico-artistici e quelli paesaggistici con quelli demo-etnoantropologici. Non è solo una mal posta questione di spending-review, ma di travisamento storico del modello della soprintendenza siciliana: organizzata in una équipe con competenze multidisciplinari, non può assicurare efficacemente lo svolgimento dei propri compiti istituzionali, se non mantenendo distinti gli ambiti settoriali e garantendo a ciascuna unità operativa lo specialista appropriato. Terzo, tornando ad assumere: tra qualche anno non ci saranno più dirigenti. Quarto, irrorando il capitolo dedicato alle spese del funzionamento delle soprintendenze che garantirebbe “materiali di prima necessità”, come inchiostro e carta per le stampanti, linee internet veloci, consentendo di esprimere pareri in pochi minuti, altro che tre mesi. Quinto, serve velocizzare il processo di dematerializzazione e informatizzazione degli atti, fornendo gli Uffici delle adeguate risorse tecnologiche e introducendo il protocollo informatizzato, di cui sono dotati solo in pochi; e favorire lo scambio di informazioni con gli altri Enti pubblici secondo procedure on-line: per esempio, poter effettuare le visure catastali presso l’Agenzia delle Entrate o consultare l’anagrafe presso i Comuni. Servirebbe ad accelerare i tempi di conclusione dei procedimenti e fornire un miglior servizio all’utenza, che dovrebbe avere la possibilità di accedere ai servizi on-line per richiedere autorizzazioni, informazioni, ecc. Infine, si osi pure battere strade nuove. Come quella di prevedere una parziale autonomia finanziaria. Per esempio, le soprintendenze potrebbero trattenere delle percentuali sulle indennità risarcitorie corrisposte da chi commette un abuso per interventi di riqualificazione paesaggistica. Veri e propri “tesoretti”, sono attualmente versati in un capitolo regionale senza che nulla ritorni alla soprintendenza che li ha ottenuti.

Ma la verità è che le soprintendenze non le si vuole mettere nelle condizioni di rispondere ai sindaci Nardella. Non è ancora legge la “provocazione” di Sammartino (proprio questo il termine che ha usato per cercare di minimizzare), ma rischia di diventarlo a breve giro.

Il Teatro Greco di Taormina
Il Teatro Greco di Taormina

La conferenza di Palermo per dire no al ddl

È per questo, perché in Sicilia rischia di diventare legge una “provocazione”, che chi scrive ha promosso un tavolo aperto di discussione che ha riunito un fronte unico per dire no.

La Conferenza si tiene oggi, 11 giugno, ai Cantieri Culturali alla Zisa a Palermo. Intervengono ANA, Associazione Nazionale Archeologi; CIA, Confederazione Italiana Archeologi; Italia Nostra; ANAI, Associazione Nazionale Archivistica Italiana; Archeoclub d’Italia; Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali; Legambiente Sicilia; Amici dei Musei siciliani; Forum siciliano dei movimenti per l’Acqua e i Beni Comuni; Zero Waste Sicilia; WWF Sicilia; Comitato Rodotà Beni Pubblici e Comuni Sicilia; Centro Consumatori Italia; l’Associazione ‘Un’Altra Storia’; Arci Sicilia; SiciliaAntica; Museo internazionale delle Marionette “Antonio Pasqualino”; Associazione Articolo 9; Fa’ la Cosa Giusta! Sicilia; Associazione BCsicilia; Associazione Culturale “La Civetta di Minerva”; Associazione “Bianchi Bandinelli” di Roma e Associazione nazionale “Assotecnici”, oltre agli Ordini degli Architetti di Palermo e Catania.

E ancora prima di aprire, il tavolo di discussione, incassa un successo: martedì scorso durante l’esame in Commissione Cultura è stato abrogato l’intero Titolo VI sulla pianificazione paesaggistica. Nel 2018 un tentativo di trasferire non ai Comuni, ma addirittura al Governo regionale, la tutela paesaggistica, con una norma in quel caso approvata, fu stoppato da una sentenza della Corte Costituzionale che ne dichiarò l’illegittimità.

Ma resta in piedi tutto il resto di questo ennesimo tentativo di colpire gli strumenti e le norme di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale siciliano. Alla base due sostanziali equivoci. Il legislatore vorrebbe recepire nella Regione, con “un maldestro copia e incolla del Codice Urbani”, come sagacemente osservato da SiciliAntica, la normativa nazionale di tutela del patrimonio culturale. Che verrebbe da chiedersi, allora, sulla base di quale normativa anche nell’isola viene esercitata la tutela, se non appunto il Codice, per effetto del principio giuridico del recepimento dinamico. La Corte Costituzionale, nella sentenza già richiamata, riconosce il Codice come una legge nazionale “di grande riforma economico-sociale che anche le Regioni a statuto speciale debbono osservare” (sentenza 172/2018). Per non dire che abbiamo già visto come molti articoli di questo ddl siano, al contrario, in contrasto col Codice stesso. Un “paradosso giuridico”, osserva la CIA.

Non solo. Il legislatore starebbe recependo la Riforma Franceschini. E qui siamo al paradosso, perché si starebbe copiando il copiatore: “Franceschini ha copiato dai siciliani”, s’intitolava proprio il nostro articolo su “Il Giornale dell’Arte”, nel 2015, in cui per primi sottolineavamo che i due passaggi qualificanti della riforma del Mibact (musei autonomi e soprintendenze uniche) erano mutuati dal “modello” siciliano. Certo, bisogna anche saper copiare. Franceschini ha perfezionato e razionalizzato il sistema di governance “inventato” in Sicilia per gli istituti autonomi. Qui, invece, nei parchi archeologici il direttore è affiancato da un comitato tecnico-scientifico, che dovrebbe essere un organo consultivo esclusivamente tecnico e, invece, il suo parere integra l’efficacia degli atti amministrativi. Funge anche da Cda, organo di gestione (presente solo nel Parco della Valle dei Templi, dove, al contrario, manca il comitato tecnico-scientifico). Negli istituti autonomi dello Stato, invece, Cda, Comitato e Collegio dei revisori dei conti (assente in quelli siciliani), sono tre organi collegiali con compiti distinti. Prevederli anche in Sicilia non basterebbe, però. La sistematizzazione generale richiede diverse correzioni di tiro. Su tutte va rivista la presenza del sindaco (o dei sindaci) nel Comitato, per cui in un istituto della Regione, incardinato nel Dipartimento BBCC, si trova ad avere potere decisionale un altro Ente territoriale, il Comune. Non così nello Stato, dove tra i componenti del Comitato c’è un membro designato dal Comune, che deve individuarlo tra professori universitari o esperti di comprovata qualificazione scientifica in materia di beni culturali. Non siede il sindaco. Niente di tutto questo si legge nel Titolo IV del ddl, sostanzialmente risparmiato dagli emendamenti.

I Cantieri Culturali della Zisa di Palermo. Ph. Credit Vincenzo Miceli
I Cantieri Culturali della Zisa di Palermo. Ph. Credit Vincenzo Miceli

Governance o paralisi negli istituti autonomi?

Conscio della contraddittorietà e carenza della leggere regionale che norma (oltre all’istituzione) l’organizzazione dei parchi archeologici (L.R. 20/2000) lo sfortunato assessore Sebastiano Tusa aveva provato a indicare step e priorità della riforma. Con tre ddl, tra il luglio e ottobre 2018, voleva garantire che l’autonomia gestionale e finanziaria dei parchi non restasse sulla carta. Con una formula, tuttavia, ugualmente, carente: anche se l’uno non esclude l’altro, Tusa voleva fare il contrario di quello che aveva provato a fare Bonisoli: eliminare il Comitato in favore del Cda. Aveva previsto, però, un “fondo di solidarietà”, come quello del Mibac, per cui il 10% (lì elevato al 25%) degli incassi i grandi parchi devono destinarlo ai più piccoli.

Quei ddl, mai convertiti in legge, malgrado gli annunci del Governo all’indomani della tragedia aerea, li ritroviamo incamerati proprio nel disegno di legge Sammartino. Ma se non si dotano i parchi degli imprescindibili organi di governance di cui abbiamo appena detto, altro che autonomia, i bilanci si dovranno continuare ad approvare sempre a Palermo.

Ma c’è dell’altro sempre sul fronte dei parchi archeologici. Viene rispolverata un’idea alquanto singolare di Crocetta: in caso di nomina di un direttore esterno all’amministrazione, il suo trattamento economico sarebbe a carico del bilancio del parco. Immaginiamo, cioè, un direttore che debba promuovere delle attività culturali col pungolo della necessità di assicurarsi uno stipendio! E di banchetti e concerti rock ce ne sono stati già fin troppi nei siti del nostro patrimonio culturale.

C’è poi un comma pericolosissimo in questo ddl, quello che intende trasferire dalla Soprintendenza al Cda, che abbiamo detto essere un organo di gestione, l’autorizzazione sui progetti degli interventi ricadenti all’interno del perimetro del parco. Già nelle Linee Guida dei Parchi archeologici siciliani del 2001 si sottolineava “il carattere eccezionale di quest’ultima disposizione, che costituisce deroga alle normali competenze in tema di tutela dei beni culturali e paesaggistici”, precisando che “questo parere resta pertanto demandato alle Soprintendenze”. E se all’epoca non si riconosceva che il comitato tecnico-scientifico, per la natura della sua composizione, potesse esprimere il “parere tecnico” oggi previsto dagli articoli 21 (rimozione, demolizione, spostamento, etc., dei beni culturali) e 146 (autorizzazione paesaggistica) del Codice, figurarsi se tale parere può esprimerlo un Cda.

Già, il ruolo tecnico. Tutte le Associazioni sono d’accordo nel far salire sul banco degli imputati la legge 10/2000, che lo ha di fatto azzerato. Ma dato che tutti si è altresì d’accordo che il Codice Urbani è legge anche in Sicilia, vale la pena ricordare che l’articolo 9 bis del Codice (che recepisce la Legge 110 del 22 luglio 2014, sul riconoscimento delle professioni culturali) stabilisce che gli interventi di tutela e valorizzazione die beni culturali “sono affidati alla responsabilità e all’attuazione, secondo le rispettive competenze, di archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori […]”. Dunque, in base alla gerarchia delle fonti nel diritto, anche in Sicilia un agronomo non potrebbe sostituire il parere tecnico di uno storico dell’arte, non dovrebbe essere scelto al posto di quest’ultimo nell’assegnazione di un incarico da ricoprire. Sembrano questioni ovvie. E, invece, è drammatica consuetudine nell’isola, con tutte le conseguenze che comporta la carenza di qualità “tecnica” dei pareri espressi.

Il Consiglio Regionale dei Beni culturali, omologo di quello Superiore

Tra quei tre ddl Tusa oggi “incamerati” nel ddl Sammartino c’è pure quello che intendeva riformare il Consiglio Regionale dei Beni Culturali. Un organo strategico per la gestione della tutela e della valorizzazione del patrimonio siciliano. Dovrebbe fornisce pure indicazioni sulla programmazione della Regione ed esprime pareri sulla relativa attuazione. E, invece, sembra proprio che se ne possa fare a meno: dal Governo in carica è stato convocato solo per la frettolosa istituzione dei parchi archeologici. Un organo consultivo del Presidente della Regione, invece che del Ministro dei beni culturali, come lo è, invece, l’omologo Consiglio Superiore. Una singolare architettura ibrida fa sedere insieme tecnici e politici. Aveva una sua ragione storica oggi superata: possiamo immaginare che a distanza di qualche anno da quel 1975 in cui nello Stato nasceva il Ministero Beni Culturali e nello stesso tempo si trasferivano tutte le competenze in materia alla Regione autonoma, la legge regionale del 1977 avesse previsto che alla costruzione di questo nuovo sistema concorressero politici e tecnici insieme. Ma lontani da quella fase di fondazione, scriviamo da anni che è necessario ripensare questo Consiglio come a un puro organo tecnico consultivo, così com’è nello Stato. Lo si intende fare ora con l’art. 43 del ddl in esame. Non fosse altro che ricalca di peso la composizione di quello statale, prevedendo la presenza di eminenti personalità del mondo della cultura, nel rispetto dell’equilibrio di genere (anche se non è stata prevista la presenza di un restauratore o esperto in conservazione del patrimonio culturale). Ma salvare un solo articolo non può bastare a tenere a galla un disegno di legge che fa acqua da tutte le parti.


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).



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