Uno scrigno di gioielli di regine e principesse di cui si favoleggia una bellezza abbagliante, opere d’arte degli artigiani orafi di mezza Europa, che dal 1946 è stato ammirato solo una volta. Stiamo parlando dei gioielli della corona di Casa Savoia: qualcosa come duemila perle e 6732 diamanti per duemila carati, zaffiri, smeraldi e rubini montati su collane, diademi, tiare, spille ed anelli, custoditi nel caveau della Banca d’Italia sulla cui sorte pende il giudizio della Storia. A ottant’anni di distanza, gli eredi dell’ultimo re d’Italia Umberto II ne chiedono la restituzione.
Erano le cinque del pomeriggio del 5 giugno 1946, le ore che seguirono la proclamazione dei risultati sul referendum del 2 giugno 1946 con il quale gli italiani scelsero di chiudere con la monarchia (e la famiglia Savoia, che sarà esiliata) e diventare una Repubblica. La famiglia reale sta facendo le valigie, c’è incertezza per una indecifrabile sorte che potrebbe toccare loro, ma c’è fretta. Non si può portare tutto quanto si vorrebbe, il re incarica il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, di prendere i gioielli della Corona e portarli al sicuro consegnandoli al governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi. Nel verbale di consegna che fu redatto su carta da bollo da 12 lire c’è scritto: “L’anno del 1946, il 5 giugno, alle ore 17 nei locali della Banca d’Italia, via Nazionale n.91, si è presentato il signor avvocato Falcone Lucifero, nella sua qualità di reggente il Ministero della Real Casa con l’assistenza del Grand’Ufficiale Livio Annesi direttore capo della Ragioneria del Ministero suddetto. L’avvocato Falcone Lucifero dichiara di aver ricevuto incarico da sua maestà re Umberto II di affidare in custodia alla cassa centrale della Banca d’Italia per essere tenuti a disposizione di chi di diritto gli oggetti preziosi che rappresentano le cosiddette ‘gioie di dotazione della Corona del Regno’, che risultano descritti nell’inventario tenuto presso il ministero della Real Casa e che qui di seguito si trascrivono”. Il re li volle consegnare al governatore della Banca d’Italia motivando l’intendimento con il desidero che “non vadano immediatamente in mano ad un commissario che potrebbe prendere dei provvedimenti affrettati e magari fare una distribuzione e un’assegnazione non conforme al valore storico”. E grande sarebbe effettivamente il valore storico che ha accompagnato questi preziosi oggetti.
Luigi Einaudi, che poi diventerà il primo Presidente della Repubblica, nei suoi diari (Paolo Soddu, Luigi Einaudi, diario 1945-1947, in Collana storica della Banca d’Italia, p. 23), ricorda il momento della consegna così: sono “racchiuse in un cofano a tre piani. Trattasi delle gioie (...) portate dalle regine e dalle principesse di casa Savoia. Vi è il celebre diadema della regina Margherita, accresciuto e portato poi dalla regina Elena (...). Trattasi in ogni caso di gioie le quali hanno avuto una storia particolare nelle vicende della Casa. Egli (re Umberto II, ndr) desidera che esse siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto. La mia impressione è che egli dia dimostrazione di molto scrupolo, in quanto che potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale”.
La questione è aperta a distanza di decenni, nonostante sul destino delle ricchezze della casa reale parrebbe non ci siano dubbi visto quanto previsto dalla tredicesima disposizione finale e transitoria della Costituzione, entrata in vigore nel 1948: “I beni, esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli”. Una vera e propria confisca si abbatté sull’intero patrimonio della famiglia sabauda (il palazzo del Quirinale oggi sede della Presidenza della Repubblica era il palazzo reale) ma su quel forziere nessuno ha mai messo mano, nessun Governo ha mai dato disposizione alla Banca d’Italia circa l’apertura o l’utilizzo di quanto ivi contenuto e nel 2022 gli eredi del re si sono rivolti a un tribunale per farselo restituire (gli eredi di re Umberto II hanno depositato un ricorso presso il Tribunale civile di Roma contro la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Economia e la Banca d’Italia per ottenere la restituzione dei gioielli). “I gioielli depositati non sono gioielli della Corona, ma personali che appartengono agli eredi di Umberto II e che non sono mai stati avocati / confiscati dallo Stato Italiano. Il governatore della Banca d’Italia, poi il presidente della Repubblica Luigi Einaudi afferma e sostiene che le gioie ‘spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale’”: così afferma lo studio Legale di Sergio Orlandi, con sede a Roma, che assiste la Famiglia, ovvero “gli eredi di S.M. il Re d’Italia Umberto II, Principe Emanuele Filiberto di Savoia, Principessa Maria Gabriella di Savoia, Principessa Maria Pia di Savoia e Principessa Maria Beatrice di Savoia”.
Emanuele Filiberto, il primo in linea diretta nella successione al trono, e la sua famiglia ne rivendicano la proprietà personale in quanto, sostengono, non facenti parte del tesoro del regno. Lo Statuto Albertino del 1848, infatti, definiva l’esistenza della ‘dotazione’ alla famiglia regnante per l’adempimento delle loro funzioni come sovrani del Regno d’Italia. Dei beni non disponibili dello Stato, appartenenti quindi allo Stato e assegnati al re per l’adempimento delle sue funzioni, posti cioè al servizio dell’ufficio del sovrano, non della sua persona (il 16 marzo 1850 fu emanata la Regia legge n. 1004, concernente: “Dotazione del Re e condizioni di godimento dei beni costituenti la dotazione della Corona”).
I gioielli della corona d’Italia raggruppano pezzi d’alta gioielleria italiana e straniera fatti realizzare in gran parte sotto il regno di Umberto I, e vi sono confluiti molti pezzi provenienti dalla collezione reale del Regno di Sardegna (di cui Vittorio Emanuele II di Savoia era originariamente re) e altri precedenti. Il valore è difficile da quantificare ma una stima fatta da una casa d’asta importante come Sotheby’s su richiesta proprio di Vittorio Emanuele nel 2007 (dove evidentemente il principe ha descritto il contenuto in base a quanto si tramanda in famiglia) ne farebbe arrivare il valore a 260 milioni di euro in una ipotetica vendita (basti pensare che qualche anno fa a Ginevra fu battuto all’asta una piccola tiara appartenuta alla moglie di Amedeo I di Savoia per 1,6 milioni di dollari).
Questa valutazione si scontra con l’affermazione fatta qualche anno fa da uno dei pochi che quel forziere l’avrebbe visto: Gianni Bulgari, l’amministratore delegato della maison di gioielli, nel 1976 fu infatti incaricato di assistere all’unica apertura avvenuta in ottant’anni (il settimanale Il Borghese aveva parlato della scomparsa di alcuni gioielli e la Procura di Roma quindi dispose l’ispezione) e ne avrebbe ridimensionato il valore a qualche milione di euro. Dopo un articolo di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera nel quale si dava conto dell’ispezione del 1976 e in cui si ricostruiva che in quell’occasione fu fatta una stima, Gianni Bulgari scrisse alla giornalista negando che vi fosse stata una quantificazione del valore, anzi: “Gentile Signora Gabanelli, Leggo sul Dataroom del Corriere della Sera di oggi 24 Novembre, un articolo sul tesoro dei Savoia valutato oggi 300 milioni di Euro. Negli anni ’60 ero stato convocato alla Banca d’Italia per visionare quello che era considerato il tesoro di casa Savoia. Non fu fatta alcuna valutazione o catalogazione, ma l’impressione che ebbi da quella visita fu quella di oggetti di qualità e valore sorprendentemente modesti. Non c’era alcuna pietra di colore, smeraldi, rubini, zaffiri e neppure brillanti di qualche valore. Non mi risulta che Bulgari abbia fatto alcuna valutazione nel ’76. Non sono in grado di dare alcuna cifra ma, a memoria le posso confermare che il loro valore attuale non potrebbe superare tuttalpiù qualche milione di euro. La saluto cordialmente”.
Eppure per decenni si è parlato dei gioielli contenuti in quel cofanetto protetto da 11 sigilli (5 del Ministero della Real Casa, 6 della Banca d’Italia). Anche se in questi casi oltre al valore economico intrinseco c’è quello storico e simbolico e, se facesse fede la memoria di Vittorio Emanuele, quella collezione dovrebbe essere un viaggio nella storia del gusto e della diplomazia tra Ottocento e Novecento dal momento che questi oggetti venivano usati per suggellare patti, fidanzamenti politici e alleanze militari tra le case regnanti. Per averne idea basta sfogliare le foto delle 187 pagine del libro Gioielli di Casa Savoia di Maria Gabriella di Savoia e Stefano Papi del 2002 (Leonardo Arte editore, 62 euro) dove vengono presentati in questo volume le immagini dei gioielli affiancati da documenti d’archivio, ritratti ufficiali e fotografie private di Casa Savoia.
Tra i pezzi più significativi a spiccare su tutti ci sarebbe il diadema della regina Margherita, commissionato nel 1883 da Umberto I per celebrare i 15 anni di matrimonio. Creato dalla gioielleria torinese Musy Padre e Figli, il diadema è un trionfo di diamanti, ben 541, montati su una struttura in platino a motivi floreali e volute, arricchito da undici perle a goccia. Fu indossato per decenni da regine e principesse, simbolo della continuità della dinastia con i suoi 292 carati.
Altro pezzo iconico è la collana da 1849 perle a quattro fili appartenuta a Maria José del Belgio, l’ultima regina d’Italia, famosa per il suo gusto raffinato e per l’amore per l’arte. Il diadema della Duchessa d’Aosta fu disegnato per celebrare le nozze tra Elena d’Orléans e il Duca Emanuele Filiberto, intrecciando i nodi di Savoia con motivi floreali tipici dell’Art Nouveau, incarnando l’eleganza Belle Époque. Suggestiva anche la spilla a forma di fiocco con un raro diamante rosa, formata da centinaia di brillanti e dominata dal diamante rosa centrale: secondo alcune fonti, fu un dono di corte proveniente dall’Impero Austro-Ungarico. Non meno rilevante il bracciale di Maria Adelaide d’Austria, passato poi a Margherita di Savoia, che fonde oro, argento e diamanti in una struttura rigida e solenne, come usava nelle cerimonie ufficiali del tardo Ottocento.
E proprio per la storia che li ha accompagnati lo Stato italiano alla richiesta ribatte sostenendo che le “Gioie della Corona” non erano un possesso personale del sovrano, ma strumento di rappresentanza istituzionale, appartenenti dunque alla Corona come istituzione, e quindi divenute automaticamente patrimonio della Repubblica.
I gioielli di Casa Savoia non sono soltanto oggetti preziosi: sono frammenti di memoria, specchi di un’epoca in cui l’Italia si affacciava alla modernità. Non è in gioco solo una questione ereditaria. Sicuramente una valorizzazione che potrebbe farne lo Stato sarebbe l’esposizione pubblica sulla scorta di quanto avviene nel Regno Unito: i famosi gioielli della Corona britannica custoditi ed esposti nella Torre di Londra sono meta turistica molto importante: fino al 2019 erano circa 3 milioni di visitatori paganti all’anno. Non da meno sarebbero i gioielli dei Savoia.
L'autore di questo articolo: Andrea Laratta
Giornalista. Amante della politica (militante), si interessa dei fenomeni generati dal turismo, dell’arte e della poesia. “Tutta la vita è teatro”.