Un Dante intimo e umano. La mostra “La mirabile visione” al Museo del Bargello di Firenze


Recensione della mostra “La mirabile visione. Dante e la Commedia nell'immaginario simbolista”, a Firenze, Museo Nazionale del Bargello, dal 23 settembre 2021 al 9 gennaio 2022.

Un ritratto colmo di “sensibilità, gentilezza, amore, e un contegno che respira lo spirito della Vita Nova”. Sono le parole che Mary Shelley, nel 1844, adoperò per commentare l’affresco col ritratto di Dante Alighieri ch’era stato da poco ritrovato nella cappella del Podestà nel Palazzo del Bargello a Firenze. All’epoca non c’erano dubbi: l’affresco rinvenuto solo pochi anni prima, nel 1840, era opera di Giotto. Il dibattito critico sugli affreschi della cappella del Podestà è poi proseguito a lungo, arrivando fino alla nuova, convinta affermazione della paternità giottesca dell’opera in occasione del recente restauro, ma quel che contava al tempo era il ritrovamento d’un Dante del tutto inedito, d’un ritratto ch’era capace, scriveva ancora Mary Shelley, di “cancellare tutte le nozioni preconcette sull’arcigna severità della sua fisionomia, scaturite dai ritratti che gli furono fatti quand’era avanti negli anni. Qui vediamo l’amante di Beatrice”. Scopritore del ritratto fu un artista inglese, Seymour Stoker Kirkup, appassionato di Dante, che coinvolse nella sua impresa il piemontese (ma emigrato in Inghilterra) Giovanni Aubrey Bezzi e il poeta americano Richard Henry Wilde: i tre finanziarono i saggi per la rimozione delle scialbature dalle pareti della cappella, eseguiti dal restauratore Antonio Marini e cominciati nel 1839, e finalmente nel luglio del 1840 poté emergere il ritratto di Dante. Kirkup, Bezzi e Wilde si disputarono poi il primato dell’idea, ma fu indiscutibilmente Kirkup a diffondere ovunque l’immagine del giovane Dante che Giotto aveva dipinto sulle pareti del Bargello.

Era il principio d’un sentimento dantesco che si fece ben più pervasivo in tutto il continente. Certo, l’interesse per Dante era già rinato in epoca romantica: basti pensare alle visionarie illustrazioni di William Blake. Ma la possibilità di dare un volto al Dante della Vita Nova accese gli animi e le fantasie d’artisti e letterati d’ogni parte d’Europa: era come se si fosse scoperto per la prima volta un lato meno rigido del carattere di Dante. È, insomma, l’inizio d’una nuova storia: quella che vien raccontata dalla mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista, curata da Carlo Sisi e Ilaria Ciseri, e in corso al Museo del Bargello di Firenze nell’anno del settecentenario: una rassegna che va così ad allargare d’un nuovo capitolo il racconto della cappella del Podestà, perché se con l’esposizione estiva Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante l’attenzione s’era focalizzata sulle vicende iniziali degli affreschi giotteschi, quella autunnale fissa il termine di partenza nella riscoperta ottocentesca, dopo secoli d’oblio, per avventurarsi poi in un itinerario lungo quasi cent’anni d’arte dantesca. Due le sale, una cinquantina le opere: ne soffre l’allestimento, quasi da quadreria antica, ma l’appassionante percorso immaginato dai due curatori è coerente con l’obiettivo della mostra, ovvero ripercorrere alcuni dei momenti fondamentali della fortuna di Dante tra Otto e Novecento per offrire al pubblico un’idea delle passioni che il Sommo Poeta aveva suscitato nei circoli artistici e letterari del tempo, specie in quelli più legati all’estetica decadente.

Uno degli eventi scatenanti di tale fortuna fu proprio il ritrovamento del ritratto di Giotto, che ebbe effetti diffusi e numerosi. Il più immediato fu l’insorgere di nuove pulsioni dantesche in quell’Inghilterra che per prima aveva riscoperto Dante già nel Settecento, con Joshua Reynolds, nel quale è possibile individuare una sorta di padre dell’odierno culto del poeta. Kirkup si curò di condividere la scoperta coi suoi connazionali inviando oltre Manica copie del ritratto appena riemerso: ne derivarono incisioni a non finire, ispirazioni per nuove iconografie legate alla vita di Dante, interesse per l’intera produzione dantesca e in particolare per le opere giovanili (prima, al contrario, l’attenzione era pressoché interamente catturata dalla Commedia). Si trattò d’una “percezione del poeta del tutto inedita”, scrive Ilaria Ciseri in catalogo, poiché centrata su di un “Dante giovane, diverso dalla formula più eroica del vate coronato d’alloro consolidatasi nei secoli”. Un Dante più umano insomma, un Dante uomo del suo tempo. Una percezione che si diffuse anche in Italia.

Sala della mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell'immaginario simbolista
Sala della mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista
Sala della mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell'immaginario simbolista
Sala della mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista
Sala della mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell'immaginario simbolista
Sala della mostra La mirabile visione. Dante e la Commedia nell’immaginario simbolista

La prima delle sei sezioni della mostra è interamente votata alla nuova immagine di Dante: l’avvio è affidato proprio a un disegno su pergamena di Kirkup, conservato nelle collezioni del Bargello, che riproduce il Dante di Giotto, cui vengono affiancate ulteriori copie dell’affresco della Cappella del Podestà, e una tela attribuita a Gabriele Castagnola che raffigura il profilo di Dante aggiornato sulla nuova scoperta, ma comunque ancora in linea con l’immagine corrucciata del poeta divulgata dalla cosiddetta “maschera Torrigiani” (anch’essa esposta in mostra), l’immagine, di difficile datazione, che si riteneva tratta dalla maschera funebre di Dante (in realtà derivante con tutta probabilità da un busto o comunque da una scultura: la pratica di ricavare maschere funerarie non era un uso del primo Trecento). La seconda sezione, intitolata Incipit Vita Nova, prende in esame la fortuna dell’immagine del Dante giovane osservata secondo una precisa inclinazione, quella del rapporto tra il poeta e le donne, e capace d’attraversare varie stagioni dell’arte ottocentesca, tra visioni simboliste, sogni preraffaelliti, afflati romantici. A introdurre il pubblico è un dipinto giovanile di Raffaello Sorbi del 1863, da collezione privata, che ha per tema l’incontro di Dante e Beatrice: è dell’epoca in cui Sorbi era uso frequentare argomenti storici, in parte declinati secondo le conquiste della pittura naturalista toscana del tempo, e affronta uno di quei soggetti che, scrive Carlo Sisi, “potevano incontrare il gusto degli stranieri attratti dal fascino d’una città dove era ancora possibile ricomporre, con la mediazione di fantasiosi restauri o di cordiali imitazioni artigianali, una inaspettata e consonante armonia di arte e vita”. La Firenze vagheggiata dagli stranieri è quella che si vede in una delle più note opere dantesche del tempo, l’Incontro fra Dante e Beatrice di Henry Holiday, tra i più vivi testimoni dell’entusiasmo per Dante che s’andò diffondendo in Inghilterra, e proposto in mostra in una copia inedita di Gustav Meisel (sono diversi gli inediti in mostra).

Il Dante che abita questi dipinti è un poeta fiero e gentile, ma è anche un uomo che vien colto, con vivo realismo, nel pieno delle sue emozioni: è la stessa immagine ch’è trasmessa dalle due belle sculture di Giovanni Duprè esposte a fianco, repliche (tra le tante) del Dante e della Beatrice che gli vennero commissionate dal granduca Leopoldo II. Sono opere dei primi anni Quaranta e son tra le prime attestazioni della fortuna iconografica di questo “nuovo” Dante, rappresentata in mostra da diversi, significativi vessilli. Tra i più osservanti figurano quelli dei preraffaelliti e, più in generale, degli artisti che sognavano atmosfere medievali: ecco dunque la Beata Beatrix di Dante Gabriele Rossetti, richiamata in mostra da una copia della Vita Nova con le illustrazioni dello stesso Rossetti pubblicata da Roux e Viarengo nel 1902, ma forse ancor più eloquente è L’amore del poeta d’un devoto ammiratore di Dante quale fu Federico Faruffini, che con fervida partecipazione, quasi al limite della commozione, immagina l’incontro tra Sordello e Cunizza, con la lunetta che rievoca, forse in maniera ancor più toccante malgrado le dimensioni, l’incontro tra Sordello e Virgilio nel VI canto del Purgatorio. Sul fronte simbolista, nella prima sala del Bargello ecco comparire una “visione improvvisa ed evanescente” (così Sisi) di Daniele Ranzoni che trasfigura in un sogno misterioso e dai toni smeraldini l’immagine di Dante che incontra una Beatrice che si fa presenza quasi mistica. Gli stessi accenti onirici sono quelli sui quali Henri-Jean-Guillaume Martin, uno dei primi artisti che aderirono ai Salon de la Rose+Croix di Sâr Péladan, intona il suo dipinto, sullo stesso soggetto di quello di Ranzoni, ambientando l’incontro in un paesaggio rischiarato dalla luna, dove Beatrice, che guida Dante, risplende di luce propria. Meno spirituale, ma anche lei luminosa immagine da rêverie, è infine la Beatrice di Giulio Aristide Sartorio, che si può considerare un tramite verso la sezione seguente, dedicata alle suggestioni che l’Inferno dantesco esercitò sull’immaginario naturalista e simbolista.

Seymour Kirkup, Ritratto di Dante dall'affresco nella cappella del Bargello (1840; matita e penna su pergamena, 160 x 112 mm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)
Seymour Kirkup, Ritratto di Dante dall’affresco nella cappella del Bargello (1840; matita e penna su pergamena, 160 x 112 mm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello)
Gabriele Castagnola, Ritratto di Dante (1858 circa; olio su tela, 36 x 27 cm; Collezione privata)
Gabriele Castagnola, Ritratto di Dante (1858 circa; olio su tela, 36 x 27 cm; Collezione privata)
Raffaello Sorbi, Dante che incontra Beatrice (1863; olio su tela, 98,5 x 76,3 cm; Collezione privata)
Raffaello Sorbi, Dante incontra Beatrice (1863; olio su tela, 98,5 x 76,3 cm; Collezione privata)
Giovanni Duprè, Dante (1845; marmo, 70 x 22 x 24 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, Fondazione Accademia Musicale)
Giovanni Duprè, Dante (1845; marmo, 70 x 22 x 24 cm; Siena, Collezione Chigi Saracini, Fondazione Accademia Musicale)
Gustav Meisel, Incontro di Dante e Beatrice (fine XIX secolo; piastra di porcellana dipinta, 48 x 54 x 8 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria d'Arte Moderna, collezione Laguzzi)
Gustav Meisel, Incontro di Dante e Beatrice (fine XIX secolo; piastra di porcellana dipinta, 48 x 54 x 8 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria d’Arte Moderna, collezione Laguzzi)
Daniele Ranzoni, Dante e Beatrice (1864-1867; olio su cartone, 26 x 15,3 cm; Collezione privata)
Daniele Ranzoni, Dante e Beatrice (1864-1867; olio su cartone, 26 x 15,3 cm; Collezione privata)
Henri-Jean-Guillaume Martin, Dante incontra Beatrice (1898; litografia a colori, 255 x 310 mm; Collezione privata)
Henri-Jean-Guillaume Martin, Dante incontra Beatrice (1898; litografia a colori, 255 x 310 mm; Collezione privata)
Giulio Aristide Sartorio, Dante e Beatrice (1896; olio su tela su cartone, 50 x 73 cm; Archivio Sartorio)
Giulio Aristide Sartorio, Dante e Beatrice (1896; olio su tela su cartone, 50 x 73 cm; Archivio Sartorio)

“Per i romantici e i decadenti”, scrive Silvio Balloni in catalogo inquadrando con precisione il senso di questo capitolo della rassegna, “l’Inferno è la vita, perché la poesia e l’arte hanno abbracciato la drammaticità dell’esperienza umana, transitando da una visione estetica, quella del Neoclassicismo, intesa come astratta fiction intellettiva scollegata dalla realtà, verso una pittura e una scultura contenutistiche e aperte al mondo, progressivamente estese, evolvendosi il progresso delle scienze e l’individualismo delle coscienze, a comprendere tutto lo spettro del Vero”. Dante è, in altri termini, poeta che rende umano l’Inferno caricandolo di emozioni, incluso l’amore, quello di Paolo e Francesca, evocato in apertura di sezione da Gustave Doré, che tuttavia non è presente con le ben note illustrazioni della Commedia, ma con una grande carta in arrivo dal Musée d’Art Moderne di Strasburgo. Per i letterati decadenti, l’Inferno di Dante è una sorta di sintesi delle inquietudini che avvolgono il mondo reale: Leconte de Lisle, recensendo entusiasticamente i Fleurs du mal di Baudelaire nel 1861, si trovò a lodare “le torture della passione, gli aspri singhiozzi di disperazione, l’ironia e il disprezzo” che si mescolano “con forza e armonia” in quell’“incubo dantesco” che era la raccolta del poeta parigino (che, del resto, ben conosceva Dante). Alla forza ammaliante dei versi di Baudelaire si potrebbe avvicinare il marmo di Auguste Rodin che coglie Paolo e Francesca leggeri nel turbine infernale, esattamente come fa Gaetano Previati in quel capolavoro ch’è il Paolo e Francesca del Museo dell’Ottocento di Ferrara (purtroppo un po’ sacrificato dall’allestimento), stretti in un abbraccio d’amore che sfida la cupezza di quel luogo che, tra tutti, è proprio il più lontano dall’amore. Tutta l’umanità dei personaggi più noti dell’Inferno dantesco traspare anche dalla posa dell’Ugolino di Jean-Baptiste Carpeaux, roso da dubbi e rimorsi mentre s’arrovella sul suo atroce destino, abbracciato dai figli piccoli.

La quarta sezione della mostra è dedicata alle illustrazioni della Commedia e in particolare a quelle risultanti dal Concorso Alinari, bandito il 9 maggio del 1900 dalla celebre azienda fotografica, che intendeva coinvolgere i migliori artisti d’Italia nella realizzazione d’una sontuosa edizione illustrata del poema dantesco, che basava i suoi presupposti sulla riscoperta dei valori simbolici della Commedia. Alla sfida parteciparono trentun artisti, tra pittori e disegnatori, tenuti a inviare alla commissione giudicatrice due prove d’illustrazione d’altrettanti canti, oltre a due testate e due finali. Le proporzioni dell’impresa e la qualità delle opere che arrivarono alla Alinari, non in linea con quanto i committenti s’aspettavano, indussero l’azienda ad accantonare l’iniziale proposito d’affidare tutto a un unico artista risultato vincitore dal concorso, e ad aprirsi semmai a un lavoro corale, al quale poi peraltro la Alinari stessa invitò anche artisti che non presero parte alla tenzone. Il vincitore fu Alberto Zardo, seguito sul podio da Armando Spadini, secondo, e da Duilio Cambellotti, terzo. Al concorso parteciparono anche nomi oggi meglio noti: tra gli altri, Galileo Chini, Giorgio Kienerk, Adolfo De Carolis, Giovanni Costetti, e anche un riluttante Giovanni Fattori, a fine carriera, inizialmente poco propenso a partecipare al concorso e poi convinto da Anna Franchi. La mostra del Bargello espone molte tra le più interessanti prove per questo concorso, che compongono una sorta d’affascinante campionario delle tendenze dell’arte italiana all’aprirsi del nuovo secolo (tanto più che le opere furono tutte esposte in una mostra): si spazia dalle visioni potenti, misteriose e inquietanti di Cambellotti alla crudezza del vecchio Fattori, dalle realistiche raffigurazioni di De Carolis ai tormenti di Alberto Martini che partecipò fuori concorso. In mostra anche due illustrazioni d’altrettanti artisti chiamati ex post a partecipare all’impresa Alinari: la sinuosa Ninfa Elice cacciata da Diana per il canto XXV del Purgatorio, opera di Plinio Nomellini, e il commovente San Francesco di Giuseppe Mentessi, per l’XI del Paradiso.

Meritano poi attenzione le tre acqueforti (L’incontro di Dante e Beatrice, La morte di Beatrice e Dante nel suo cabinet) appartenenti alla serie sulla Vita Nova eseguita dal versatile livornese Alfredo Müller su incarico dell’editore parigino Ambroise Vollard, esperienza che si colloca nel clima del revival dantesco francese del tempo (Müller s’era trasferito a Parigi) e che, scrive Emanuele Bardazzi, "costituisce un capitolo diverso, che contrasta con le più morbide e suadenti immagini, soprattutto femminili in abiti contemporanei e à la page, che [Müller] va incidendo e che lo consacreranno tra i maestri più significativi e apprezzati nella Belle Époque dell’acquaforte e acquatinta a colori".

Gustave Doré, Paolo e Francesca da Rimini all'Inferno (prima del 1861; inchiostro di china acquerellato e tempera bianca su carta tinta di marrone; Strasburgo, Musée d'Art Moderne et Contemporain)
Gustave Doré, Paolo e Francesca da Rimini all’Inferno (prima del 1861; inchiostro di china acquerellato e tempera bianca su carta tinta di marrone; Strasburgo, Musée d’Art Moderne et Contemporain)
Auguste Rodin, Paolo Malatesta e Francesca da Rimini (1905; marmo, 80 x 108 x 69 cm; Parigi, Musée Rodin)
Auguste Rodin, Paolo Malatesta e Francesca da Rimini (1905; marmo, 80 x 108 x 69 cm; Parigi, Musée Rodin)
Gaetano Previati, Paolo e Francesca (1909; olio su tela, 230 x 260 cm; Ferrara, Gallerie d'Arte Moderna e Contemporanea, Museo dell'Ottocento)
Gaetano Previati, Paolo e Francesca (1909; olio su tela, 230 x 260 cm; Ferrara, Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, Museo dell’Ottocento)
Jean-Baptiste Carpeaux, Ugolino e i suoi figli (1860 circa; terracotta, 56 x 41 x 28 cm; Parigi, Musée d'Orsay)
Jean-Baptiste Carpeaux, Ugolino e i suoi figli (1860 circa; terracotta, 56 x 41 x 28 cm; Parigi, Musée d’Orsay)
Duilio Cambellotti, I giganti, Inferno, Canto XXXI (1901; carboncino con lumeggiature a pastello bianco su carta, 503 x 808 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Duilio Cambellotti, I giganti, Inferno, Canto XXXI (1901; carboncino con lumeggiature a pastello bianco su carta, 503 x 808 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Otto Vermehren, L'isola dei morti (1886-1900; olio su tela, 71,5 x 135,3 cm; Collezione privata)
Otto Vermehren, L’isola dei morti (1886-1900; olio su tela, 71,5 x 135,3 cm; Collezione privata)

Si prosegue con una breve divagazione letteraria sullo scontro a distanza tra Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio sulle letture di Dante: Pascoli (il titolo della mostra si riferisce giusto al suo saggio La mirabile visione) riteneva d’essere il più sensibile interprete del verbo dantesco e mal sopportava il successo del rivale in qualità di commentatore di Dante, folgorato dal grande poeta dopo averlo riletto, passati i trentacinque anni, durante un soggiorno di piacere a Corfù. La rassegna espone alcuni oggetti che palesano il legame che univa Pascoli e d’Annunzio a Dante: edizioni della Francesca da Rimini di Gabriele d’Annunzio, il saggio Sotto il vemale di Pascoli, la Commedia pubblicata da Olschki con introduzione del Vate s’alternano in una vetrina che conduce il pubblico verso la conclusione, demandata a un unico dipinto, una copia dell’Isola dei morti di Böcklin eseguita da Otto Vermehren, posta a chiusura per tornare là dove il sogno era nato, ovvero a quella Firenze che ispirò al pittore svizzero la visione della sua isola, una sorta di traduzione fantastica della collinetta del Cimitero degli inglesi a Firenze, con un traghettatore che la avvicina, a richiamare alla mente il Caronte del poema.

Se dunque è ben noto il Dante che ispirò, in epoca risorgimentale, sentimenti patriottici e battaglieri (si pensi al canto VI del Purgatorio, giusto a titolo d’esempio, ma si pensi anche ai trascorsi da esule del Sommo Poeta), il Dante considerato una sorta di profeta dell’Italia libera e indipendente, il Dante dei grandi monumenti post-unitari (a partire da quello che a Firenze s’ammira in Santa Croce), forse non lo è altrettanto quel Dante più umano e meno eroico, capace d’assecondare una sensibilità più moderna, che mosse gli animi di artisti e letterati romantici, decadenti, simbolisti: e non poteva che partire dal Bargello una mostra che indagasse questo aspetto della ricezione dell’opera dantesca, dato che parte del merito è dovuta al ritratto giottesco di Dante e alla sua riscoperta da parte di Kirkup. Non è ovviamente una mostra completa o esaustiva (nella sezione sull’Inferno, ad esempio, i curatori si son concentrati solo sulle figure di Paolo e Francesca e di Ugolino), poiché non è questo il suo intento, ma è una piccola e preziosa rassegna, forse un po’ troppo sintetica negli apparati illustrativi, ma comunque raffinata e chiara nella scansione del suo percorso. Ne vien fuori un Dante intimo: quel Dante orgoglioso ma al contempo sensibile, gentile e pieno d’amore che tanto aveva affascinato Mary Shelley.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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