Statue antiche su lastre di zinco e inserti di catrame: Luca Pignatelli in mostra a Carrara


Recensione della mostra di Luca Pignatelli a Carrara, Palazzo Cucchiari, dal 22 aprile al 28 giugno 2017.

Luca Pignatelli (Milano, 1962) è un artista piuttosto riluttante a discettare con la critica del significato che le sue opere implicano e celano. Lo ha ricordato lui stesso alla presentazione della sua personale a Carrara, a Palazzo Cucchiari, e lo ribadisce nel suo saggio a catalogo anche l’ex direttore degli Uffizi, Antonio Natali, che assieme a Massimo Bertozzi riveste il ruolo di curatore dell’esposizione apuana. Non ama molto parlare delle sue opere perché preferisce che sia l’osservatore a farsi un’idea di ciò che ha davanti. Ma che sia un artista colto e appassionato lo si comprende tanto dai suoi riferimenti culturali, che spaziano da Wölfflin a Leonardo da Vinci passando, ovviamente, per la statuaria antica, quanto dai racconti circa la genesi di certe sue opere, spesso scaturite da fortuiti incontri con materiali reperiti in via del tutto incidentale. S’intravede, nel modo di lavorare di questo raffinato artista che modella, plasma, rovescia e rilegge, un rimando simbolico a quella memoria che è motivo centrale della sua attenta e originale riflessione.

Luca Pignatelli Luca Pignatelli davanti a una sua opera
Luca Pignatelli davanti a una sua opera

Nannucci, con le sue scritte al neon, diceva che tutta l’arte è stata contemporanea. L’evidenza può portarci ad affermare che, per Pignatelli, tutta l’arte è contemporanea. Il passato in Pignatelli torna come ombra sbiadita e corrosa dal tempo, ma non per questo meno suggestivo e potente, anzi: il carico dei secoli rende forse le immagini ancor più forti e comunicative. Inutile cercare di contestualizzare: reminiscenze manualistiche ci portano a riconoscere, nei busti degli imperatori romani che emergono da squarci neri aperti su fondi ossidati, un Caligola, un Settimio Severo, un Pertinace, ma l’assenza di apparati che aiutino con certezza a identificare nomi, periodi, momenti storici, è una precisa scelta dell’artista (si arriva persino, con estrema ma meditata semplificazione, a intitolare Imperatore pressoché tutte le opere del ciclo), che vuole evitare di condizionare l’osservatore, di far sì che la sua visione sia legata ad acquisizioni pregresse, che la sua attenzione si soffermi sul significante più che sul significato. La storia, in altri termini, non è data da eventi che si susseguono in linea retta: è un circolo che scorre all’infinito, come molti degli antichi pensatori (vengono in mente Erodoto e Polibio) hanno cercato di dimostrare.

Le effigî degli imperatori ci appaiono immote, fisse nella loro austera solennità, ma hanno attraversato secoli di storia per giungere sino a noi: la riscoperta da parte degli artisti del Rinascimento (e Natali avanza un paragone con Donatello e Brunelleschi che a inizio Quattrocento percorrevano le rovine dell’antica Roma alla ricerca di veri tesori su cui avrebbero fondato la loro poetica), l’assunzione a inarrivabile modello di suprema bellezza per i neoclassici (sublimazione, questa, richiamata nei busti di Pignatelli dalle viti inserite sullo zinco: le testine rievocano i fori lasciati dalle repere con cui Canova e colleghi tenevano traccia delle proporzioni delle loro sculture) e il momentaneo arrivo alla società industriale, con le sue abrasioni, le lastre e le lamiere, il ferro zincato. Accade, dunque, che l’immagine antica scivoli indenne (o quasi) lungo il corso degli eventi e, per tramite della necessaria stratificazione a cui va incontro, si carichi di nuovi significati: quanto s’è verificato in passato rimane come un ricordo non più legato a un preciso accadimento, ma che riemerge ogni volta con nuove connotazioni per raccontarci una storia, rafforzare una convizione o, viceversa, metterla in dubbio, provare a suscitare ogni volta sensazioni diverse. Sensazioni che, peraltro, osservando le opere di Luca Pignatelli spesso si tramutano in vive emozioni, come quando s’ammira un ritratto femminile la cui classica bellezza è in parte offuscata dagli accumuli plumbei che ne sporcano l’immagine, e in parte intaccata dagli inserti che, quasi volessero cominciare un’azione distruttiva, comunicano un senso di dolore, di malinconia, di perdita. L’immagine rimane la stessa, ma sembra gravata, sembra voler comunicare qualcosa di nuovo, un sentimento recente, esperito nel corso della storia. Del resto il passato è, per usare le parole dello stesso Pignatelli, una citazione che si fa “ripetizione esatta”, ma “in un contesto diverso”. Approccio simile a quello di Adolf Loos, secondo cui “il presente si costruisce sul passato così come il passato si è costruito sui tempi che lo hanno preceduto”, e che a Vienna citava il portico della chiesa di San Michele nella Looshaus o inseriva direttamente riproduzioni del fregio del Partenone nella Haus Rufer.

La sala con gli imperatori
La sala con gli imperatori


Luca Pignatelli, Imperatore
Luca Pignatelli, Imperatore (2016; tecnica mista su ferro zincato, 100 x 100 cm; Collezione Privata)


Luca Pignatelli, Imperatore
Luca Pignatelli, Imperatore (2016; tecnica mista su ferro zincato, 99 x 100 cm; Collezione Privata)


Luca Pignatelli, Imperatore, particolare
Luca Pignatelli, Imperatore, particolare


Luca Pignatelli, Testa femminile
Luca Pignatelli, Testa femminile (2016; tecnica mista su ferro zincato, 285 x 191 cm; Collezione Privata)

Non mancano, poi, aperture probabiliste: il caso, ha spesso modo di ribadire Pignatelli, ricopre un ruolo fondamentale nella sua ricerca. Natali chiama in causa, in un efficace raffronto, Leonardo da Vinci, che “consigliava agli artisti d’osservare le nubi nel cielo per cavarne invenzioni compositive. E suggeriva, ancora, d’intridere di colori uno straccio e poi di gettarlo bagnato su un muro: l’impronta che ne sarebbe venuta, ovviamente casuale, avrebbe suggerito scene di battaglie o visioni di paesi o tutto ciò che l’estro concedesse al cuore”. Sembra che in Pignatelli si palesi il ricordo dei suggerimenti del genio di Vinci. Punto di partenza è sempre un’immagine colta da un preciso punto di vista: è quanto Heinrich Wölfflin insegnava nel suo Wie man Skulpturen aufnehmen soll (“Come si deve fotografare la scultura”). Si rende necessario secondare i propositi dello scultore, ragion per cui il fotografo deve irrimediabilmente ottenere il suo scatto posizionandosi in modo tale da cogliere il punto di vista principale che l’artista ha concepito per la sua opera (Hauptansicht, lo chiamava lo studioso svizzero, e per la statuaria classica si trattava sempre di un Vorderansicht, ovvero di una veduta frontale): uscire da questa logica sottende, per Wölfflin, un travisamento della volontà dell’autore. Del resto, fotografare la scultura significa ridurre in due dimensioni ciò che nasce tridimensionale. Pignatelli parte dunque dalla fotografia di un’opera antica (quasi sempre scattata da altri) e la riproduce sui suoi supporti, che spesso altro non sono che scarti industriali (o comunque atti a rievocare i rimasugli della produzione di fabbriche e cantieri) e financo brandelli di edifici demoliti, “tutti melanconicamente marcati dalle tracce d’un passato di funzionalità talora perfino gloriosa”, come giustamente nota Natali, e sui quali il tempo e il caso compiono, o hanno già compiuto, il loro decorso: ferro che si corrode, sporcizia che si sedimenta, teloni lacerati, metalli bruciati. Materiali che la società industriale abbandona ma ai quali viene donata nuova linfa e che, pertanto, mutano la loro funzione: “possiamo essere solo quello che non buttiamo”, chiosa Massimo Bertozzi. Tutto ciò, ovviamente, sotto il serrato controllo dell’artista, metafora dell’uomo che comunque riesce, magari a fatica o tra varie sofferenze, a governare il caso.

Sovvengono parimenti gli esempî di Alberto Burri, di Robert Rauschenberg (e dei suoi black paintings), di Mimmo Rotella e di tutti quegli artisti che, dagli anni Cinquanta in avanti, avrebbero lasciato che fossero tempo, materia, casualità e agenti esterni ad avere un ruolo da protagonisti nella creazione delle opere: è a tali artisti che si pensa quando si osservano i grandi pannelli neri di Pignatelli, appositamente realizzati per la mostra di Palazzo Cucchiari, sui quali s’addensano ridde di simboli, per lo più inventati dall’estro dell’artista milanese, formati da inserti in catrame, altro materiale copiosamente adoperato. Par quasi di scorgere i profili di quegli aerei che tornano spesso nella produzione di Pignatelli, o ancora cornici di quadri, attrezzi da lavoro, tronchi d’alberi, che sembrano emergere dal fondo nero su cui si stagliano le loro silhouette, per poi forse rituffarsi nell’oscurità da cui sono arrivati: questo senso di sospensione, di indefinito, e anche, se vogliamo, di incombenza, è del tutto connaturato a quella riflessione sulla storia e sulla memoria che sorregge il raffinato impianto filosofico dell’opera di Luca Pignatelli.

Un’incombenza che ritroviamo nelle vedute di Roma, frammenti dell’Urbe anch’essi solcati da foschie tenebrose che in parte nascondono piazze, edificî e monumenti, in parte ci costringono, di nuovo, a fare i conti con la transitorietà, con l’azione deformante dello scorrere del tempo, e sui quali, a guisa di minacciosi nembi, pendono sempre pesanti pannelli di ferro. Pignatelli sembra particolarmente affascinato dalle rovine della Roma antica: non ha fatto mistero del fatto che “dipingere” le rovine abbia per lui un elevato valore morale e filosofico, che si fa quasi spirituale. E non è complicato comprendere la ragione di ciò: un edificio, quando diventa rovina, s’ammanta d’una rinnovata grandiosità: tutti i grandi artisti del Settecento, a seguito della riscoperta di Paestum, di Ercolano, di Pompei (città, quest’ultima, alla quale Pignatelli ha peraltro dedicato un’opera) si precipitarono in Campania per ammirare le vestigia del passato riaffiorato. L’approccio di Pignatelli non è dissimile rispetto a quello di un Giovanni Battista Piranesi (altro punto di riferimento di considerevole importanza) che si commuove di fronte alle rovine e, al contrario di un Winckelmann, dinnanzi ai resti dell’antichità finisce col provare emozioni forti dalle quali poi nasceranno le sue celebri, grandiose vedute, oppure le sinistre tavole con le carceri immaginarie. Rovine che, beninteso, appartengono a un passato remoto, ma anche a un passato molto più vicino: cos’altro sono quei materiali di scarto di cui s’è a lungo detto (oppure quegli aerei e quelle vecchie locomotive, che pur assenti dalla mostra carrarese compaiono in gran parte della produzione di Pignatelli), se non rovine a noi più prossime?

La sala con le vedute di Roma
La sala con le vedute di Roma


Luca Pignatelli, Roma
Luca Pignatelli, Roma (2016; tecnica mista su ferro zincato, 277 x 208 cm; Collezione Privata)


Luca Pignatelli, Roma
Luca Pignatelli, Roma (2016; tecnica mista su ferro zincato, 370 x 293 cm; Collezione Privata)


Luca Pignatelli, Roma, particolare
Luca Pignatelli, Roma, particolare


I black paintings di Luca Pignatelli
I “black paintings” di Luca Pignatelli

Nel panorama dei figurativi contemporanei, Luca Pignatelli è sicuramente uno degli artisti più acculturati e originali, in grado di esprimere al meglio il proprio immaginario tanto nelle opere di piccolo formato quanto nei lavori di più grandi dimensioni, e che sa far arrivare all’osservatore in modo puntuale la propria riflessione sulla storia: l’elegante sobrietà di Palazzo Cucchiari fa il resto, proponendosi come una sede particolarmente adatta a far risaltare il messaggio che Pignatelli intende rivolgere al pubblico, non foss’altro che per le alterne fortune che questa dimora ottocentesca ha conosciuto nel corso degli anni. Un messaggio forte, che s’avvale d’un repertorio figurativo potente ed evocativo che fonde felicemente antico e contemporaneo, che mescola l’azione della natura (e quella dell’uomo) ai riferimenti ai grandi del passato, che trova in queste commistioni, nuove sì, ma frutto di una lunga tradizione, e nel modo in cui l’artista le esprime, la propria peculiare originalità.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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