Quel papa disastroso che amava le arti. Com'è la mostra su Urbano VIII a Palazzo Barberini


Recensione della mostra “L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini”, a cura di Flaminia Gennari Santori, Maurizia Cicconi e Sebastian Schütze (Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini, dal 18 marzo al 30 luglio 2023).

I romani del Seicento non avevano una gran stima di Urbano VIII, nonostante ancor oggi si trovino sparse per tutta Roma le tracce del suo pontificato, e nonostante i ventun anni del suo regno, dal 1623 al 1644, vengano presentati come un periodo di “straordinario fermento culturale” dalla mostra che le Gallerie Nazionali d’Arte Antica riservano a Maffeo Barberini nel quattrocentesimo anniversario della sua elezione al soglio di Pietro (L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini, a cura di Flaminia Gennari Santori, Maurizia Cicconi e Sebastian Schütze). È vero che si trattò d’un periodo incredibilmente vivido per le arti, per le lettere e per le scienze, che si trovarono al centro del progetto propagandistico del più longevo papa del XVII secolo. Ma è anche vero che, sotto il profilo schiettamente politico, il ventennio barberiniano rappresentò un disastro per lo Stato Pontificio. Per capire quanto i romani amassero Urbano VIII, si potrebbero riprendere le parole del letterato fiammingo Dirk van Ameyden, che riferì, testimone oculare, di quanto occorse la mattina del 29 luglio 1644, il giorno in cui Urbano morì: l’annuncio della dipartita del pontefice venne dato alle undici e un quarto, e a mezzogiorno non esisteva già più la sua statua (il riferimento è a quella, in gesso, che era presente dal 1639 nel cortile del Collegio Romano). Ma ancor più efficace è un’invettiva satirica, naturalmente anonima, ritrovata nel 1928 dallo storico Ludwig von Pastor: l’autore dei mordaci versi, un contemporaneo del papa, proponeva di mettere come epitaffio al suo monumento funebre il distico “Quam bene pavit apes, tam male pavit oves”, ovvero “Tanto bene nutrì le api, quanto male nutrì le pecore”. Ecco, in questi due mirabili versi c’è tutto quel che serve sapere su come i contemporanei vedessero il pontificato di Urbano VIII.

“Tanto bene nutrì le api”: ci si possono leggere, anzitutto, riferimenti allo smodato nepotismo di Urbano VIII, capace di mettere a punto un sistema di nomine familistiche esteso e ramificato (per dare un’idea della portata del fenomeno basterà pensare che il termine “nepotismo” venne inventato proprio durante il suo pontificato, anche se era un malcostume in vigore da tempo). Le api, giova ricordarlo, erano quelle dello stemma della famiglia Barberini. Undici i membri della sua famiglia da lui nominati cardinali, tre dei quali parenti stretti (il fratello Antonio e i nipoti Francesco e Antonio), e stime riportate dallo storico Georg Lutz, uno dei massimi esperti del pontificato Barberini, calcolano in circa 30 milioni di scudi il valore, in rendite e capitali, delle concessioni di Urbano VIII ai suoi parenti: per dare un’idea basterà pensare che nello stesso periodo un artista come Francesco Borromini prendeva uno stipendio di 30 scudi al mese, e che il grande affresco del salone di Palazzo Barberini, capolavoro di Pietro da Cortona (i cui collaboratori prendevano 10 scudi al mese), una delle opere più care dell’epoca, venne a costare duemila scudi. Tornando al primo verso del distico, ci si può leggere anche la propensione del pontefice a marcare l’intera città con le imprese artistiche che alimentavano la macchina capillare della sua propaganda, malgrado i magri risultati in termini di Realpolitik. “Quanto male nutrì le pecore”, appunto. Il pontificato s’era aperto subito con una delusione cocente, col fallimento della mediazione tra Francia e Spagna nella complicata questione della guerra in Valtellina, e con le truppe dello Stato Pontificio che, inviate in missione di peacekeeping come diremmo oggi, furono cacciate dai francesi. L’accordo tra francesi e spagnoli venne raggiunto tre anni dopo, nel 1626, ma senza che Roma venisse coinvolta: un’evidente perdita di prestigio internazionale. Meglio andò con la guerra di successione di Mantova e del Monferrato, che si risolse con la vittoria di Carlo Gonzaga di Nevers, supportato dai francesi e dallo stesso Urbano VIII, col risultato che l’alleanza tra Stato Pontificio e Francia si rese più stretta. Ne avevano però risentito le casse dello Stato: il papa aveva speso somme ingenti per difendere Roma, nel timore (infondato secondo Lutz) che nel caso la guerra si fosse messa male si sarebbe potuto ripetere un sacco di Roma come quello del 1527. E se Roma riuscì a uscire sostanzialmente indenne dalla peste manzoniana del 1630 grazie a efficacissime misure di salute pubblica, probabilmente le più evolute d’Europa, il pontificato, già provato dal costoso mantenimento delle velleità diplomatiche di Urbano VIII (per finanziare le sue imprese belliche s’erano rese necessarie imposizioni fiscali straordinarie: nei vent’anni del pontificato di Maffeo Barberini, furono varate 63 nuove tasse e il debito pubblico raddoppiò), s’imbarcò nella fallimentare impresa della guerra di Castro, cercata e ottenuta dal papa che, vantando crediti dai Farnese che reggevano il ducato di Castro, fece occupare lo Stato rivale nel 1641, ma subì a sua volta l’invasione dei Farnese che occuparono Acquapendente e minacciarono di spingersi fino a Roma. La pace, siglata il 31 marzo nel 1644, riportò la situazione a com’era tre anni prima, ma la guerra aveva ormai dissestato l’erario pontificio. E come ha sottolineato Lutz, “rimangono difficilmente calcolabili le perdite di prestigio politico, militare e morale che la Sede apostolica subì in Italia e in Europa in questo conflitto iniziato con esorbitante leggerezza e irresponsabilità”.

La guerra sarebbe poi ripresa col successore di Urbano VIII, Innocenzo X, che riaprì le ostilità nel 1646 e vinse la guerra tre anni più tardi, ordinando peraltro di radere al suolo la città rinascimentale di Castro, della quale oggi non rimangono che poche rovine. Il prestigio del papato, complice anche il nepotismo senza ritegno, era stato “totalmente rovinato” (così lo storico Alexander Koller) da Urbano VIII. E, come se non bastasse, ancora oggi associamo il suo pontificato alla macchia indelebile del processo contro Galileo, ma anche alla devastazione del Pantheon, la cui trabeazione bronzea antica venne fusa nel 1625 per ricavarne i cannoni di Castel Sant’Angelo (“Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini”): ecco che allora, prima del fortissimo malcontento per le imposizioni fiscali dirette e indirette, l’episodio del Pantheon aveva segnato “la prima, a dire il vero precoce, condanna da parte dei romani per un gesto considerato sacrilego della memoria dell’Urbe”, come scrive Maurizia Cicconi nel catalogo de L’immagine sovrana. Tutto ciò malgrado nel 1623 la sua elezione fosse stata accolta coi migliori auspici: all’epoca Maffeo Barberini era una sorta di outsider, forte d’una vasta cultura e d’una formazione umanistica, molto più giovane rispetto ai cardinali che di solito venivano eletti al soglio pontificio, e desideroso di mostrare vicinanza alla città, all’Urbe, fin dalla scelta del nome. Di segno completamente diverso furono invece i risultati ottenuti nel campo della promozione delle arti. In questo senso, il pontificato di Urbano VIII, come riassume efficacemente Sebastian Schütze nel catalogo della mostra, “segnò la fase risolutiva dell’arte barocca con progetti chiave, come la decorazione della nuova basilica di San Pietro e l’erezione del Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, e con l’ascesa di Gian Lorenzo Bernini e di Pietro da Cortona”, oltre che di numerosi altri artisti, letterati, collezionisti, antiquarî, poeti, scienzati e intellettuali che “contribuirono all’affermazione della Roma barberina come gran teatro del Barocco e modello assoluto per l’ultimo grande stile universale”.

Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli
Allestimenti della mostra. Foto: Alberto Novelli

Ci si è dilungati sulla premessa storico-politica perché questo aspetto viene trascurato dalla mostra, che si concentra soprattutto sui temi connessi all’“immagine sovrana”, anche se la curiosa presentazione di Flaminia Gennari Santori specifica fin da subito che la mostra “celebra lo splendore, le complessità e le molte ombre del pontificato” (una mostra deve necessariamente “celebrare” un periodo storico? E soprattutto, com’è possibile “celebrare le ombre”?!). Le dodici sezioni della mostra, divise tra le sale espositive al pianterreno di Palazzo Barberini (difficile trovare mostre che, più di questa, siano legate al luogo che la ospita) e i saloni monumentali del piano nobile, che a loro volta costituiscono parte integrante della rassegna, compongono un racconto che parla quasi esclusivamente della politica culturale del pontefice toscano. Nel primo capitolo si fa la conoscenza d’un Maffeo Barberini giovane, rampollo d’una famiglia di mercanti originarî di Barberino Val d’Elsa in Toscana (in origine il cognome era “Tafani”: poi però gli ascendenti di Maffeo cambiarono il cognome, omaggiando il borgo natio, e lo stemma di famiglia, convertendo la fastidiosa mosca cavallina nella più nobile e operosa ape), già spregiudicato e perfettamente consapevole del ruolo delle immagini come forma di autopromozione e di affermazione del prestigio personale: la mostra s’apre così con alcuni prodotti del primissimo mecenatismo di Maffeo, a cominciare dal ritratto suo e di suo zio Francesco. Il primo è invero un ritratto piuttosto celebre, attribuito dalla più parte della critica a Caravaggio, mentre il suo pendant, perfettamente equivalente nelle dimensioni ed estremamente simile per qualità, non ha ancora trovato un nome che metta tutti d’accordo perché, spiega Schütze in catalogo, la qualità del modellato delle vesti e nella presenza fisica appare inferiore. Lo stesso però non si direbbe del volto dell’effigiato, che per qualità non si discosta da quello di Maffeo, e risulta difficile, almeno ad avviso di chi scrive, immaginare un artista diverso: non potrebbe anche questo esser tranquillamente opera del Merisi? Un Caravaggio che invece mette d’accordo tutti, e che testimonia ulteriormente il rapporto tra Maffeo e il pittore lombardo (un rapporto probabilmente mediato dal cardinale Francesco Maria del Monte) è il Sacrificio di Isacco, registrato già in antico, al pari dei due ritratti soprammenzionati, nelle raccolte di Maffeo. Accanto, il visitatore trova una fedele riproduzione, eseguita in resina dalla fondazione Factum, del San Sebastiano di Gian Lorenzo Bernini oggi al Thyssen-Bornemisza di Madrid: l’opera è inserita a inizio percorso per dimostrare la precocità del rapporto tra il futuro papa e lo scultore, fondato, oltre che sulla solidità del legame “lavorativo”, potremmo dire, anche su quelle che Michele Di Monte nel catalogo non stenta a definire “affinità elettive”, dacché il San Sebastiano riesce a coniugare reminiscenze classiche, neoattiche, a esigenze di “apologia sacra”. Altro esempio significativo del gusto aggiornato di Maffeo Barberini è il San Sebastiano gettato nella Cloaca Maxima di Ludovico Carracci, non solo per il fatto d’aver scelto uno dei pittori più moderni sulla piazza, ma anche per avergli fatto dipingere un episodio decisamente raro.

È una lunga teoria di ritratti la seconda sezione della mostra, “Immaginare la dinastia”: i pannelli di sala non fanno cenno alle pratiche nepotistiche di Urbano VIII, ma il suo smisurato familismo si riflette nelle immagini che il pubblico trova sulle pareti. Sfilano il busto del cardinale Francesco Barberini (opera di Lorenzo Ottoni che restituisce l’effigie postuma del figlio del fratello di Urbano, creato cardinale già nel 1623 dallo zio), il ritratto di Antonio Barberini (anche lui creato cardinale dallo zio: l’opera è di Simone Cantarini), e il grande ritratto di Andrea Sacchi che raffigura il borioso Taddeo Barberini, altro nipote di Maffeo, da lui nominato Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa (ovvero comandante dell’esercito papale), e poi ancora uno dei vertici della mostra, il bronzetto della statua equestre di Carlo Barberini, fratello di Urbano: il piccolo monumento equestre, caratterizzato da un movimento straordinario e quasi senza eguali, venne definito da Jennifer Montagu come “il bronzetto più emozionante di tutto il barocco”. Esposto raramente, è collocato dinnanzi a un altro dei momenti più alti della rassegna, il confronto tra il ritratto di Urbano VIII eseguito da Bernini in bronzo tra il 1656 e il 1658, e quello, risalente a una ventina d’anni prima, di Giovanni Gonnelli, detto “il cieco di Gambassi”, sorprendente e poco noto scultore non vedente ch’era in grado di eseguire somigliantissimi ritratti in terracotta semplicemente toccando il suo modello (in questo caso, non potendo immaginare che l’artista potesse toccare il papa, dobbiamo figurarcelo al lavoro su di un’altra scultura, forse proprio su uno dei ritratti di Urbano VIII eseguiti da Bernini).

La propaganda barberiniana fondata sull’uso delle immagini toccò anche il culto dei santi, come dimostra la terza sezione della mostra: Urbano VIII promosse alcune riforme per far rientrare sotto lo stretto controllo pontificio ogni decisione riguardante la proclamazione dei santi e la diffusione di nuovi culti, dal momento che all’epoca non era infrequente che si diffondessero fenomeni, anche estesi, di devozione nei riguardi di figure ancora non canonizzate né beatificate. Quella che potrebbe apparire come una questione squisitamente dottrinale aveva in realtà rilevanti risvolti politici, dal momento che le riforme di Urbano VIII intendevano da un lato riaffermare il primato del pontefice nello stabilire le forme della diffusione del culto dei santi, e dall’altro porsi come strumento diplomatico, poiché la riforma stabiliva che le istituzioni secolari, anche straniere, dovevano obbligatoriamente inoltrare alla Santa Sede una richiesta formale qualora volessero avviare processi di canonizzazione per loro santi. Tra i santi canonizzati da Maffeo Barberini figurano i martiri di Nagasaki, la cui crocifissione è narrata in un noto dipinto di Tanzio da Varallo prestato dalla Pinacoteca di Brera, e Maria Maddalena de’ Pazzi, che si vede invece nelle Tre Maddalene di Andrea Sacchi, uno dei massimi pittori della Roma barberina. Il modello bronzeo del monumento a Matilde di Canossa commissionato a Bernini per la basilica di San Pietro ricorda come la propaganda di Urbano VIII non disdegnasse neppure azioni rocambolesche, come la traslazione delle spoglie di Matilde dal monastero di Polirone di San Benedetto Po a Castel Sant’Angelo, per rimarcare l’importanza della sua figura: la contessa fu infatti un’accesa sostenitrice del papato durante la lotta per le investiture ed era vista come fulgido esempio di fede militante. Il suo, del resto, è l’unico monumento dedicato a un personaggio laico che si trovi in San Pietro. E legato a San Pietro è anche il dinamicissimo modello della Santa Veronica di Francesco Mochi, che si direbbe quasi mosso da una sensibilità futurista se si volesse avanzare un’iperbole anacronistica.

Caravaggio, Ritratto di Maffeo Barberini (1595 circa; olio su tela, 122 x 95 cm; Firenze, Collezione privata)
Caravaggio, Ritratto di Maffeo Barberini (1595 circa; olio su tela, 122 x 95 cm; Firenze, Collezione privata)
Anonimo del XVII secolo, Ritratto di Francesco Barberini in veste di protonotario apostolico (1595 circa; olio su tela, 122 x 95 cm; Collezione privata)
Anonimo del XVII secolo, Ritratto di Francesco Barberini in veste di protonotario apostolico (1595 circa; olio su tela, 122 x 95 cm; Collezione privata)
Caravaggio, Sacrificio di Isacco (olio su tela, 104 x 135 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Caravaggio, Sacrificio di Isacco (olio su tela, 104 x 135 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Ludovico Carracci, San Sebastiano nella cloaca Maxima (1612; olio su tela, 167 x 233 cm; Los Angeles, The J. Paul Getty Museum)
Ludovico Carracci, San Sebastiano nella cloaca Maxima (1612; olio su tela, 167 x 233 cm; Los Angeles, The J. Paul Getty Museum)
Gian Lorenzo Bernini, Busto di Urbano VIII (1658; bronzo, 101,5 x 78 cm; Firenze; Collezione Principe Corsini). Foto Antonio Quattrone
Gian Lorenzo Bernini, Busto di Urbano VIII (1658; bronzo, 101,5 x 78 cm; Firenze; Collezione Principe Corsini). Foto Antonio Quattrone
Giovanni Gonnelli detto Cieco da Gambassi, Ritratto di Urbano VIII (1637; terracotta, 80 x 40 x 50 cm; Collezione privata)
Giovanni Gonnelli detto Cieco da Gambassi, Ritratto di Urbano VIII (1637; terracotta, 80 x 40 x 50 cm; Collezione privata)
Lorenzo Ottoni, Busto del cardinale Francesco Barberini (1681-1682; marmo, altezza 67 cm; Roma, Gallerie Nazionali Arte di Antica - Palazzo Barberini)
Lorenzo Ottoni, Busto del cardinale Francesco Barberini (1681-1682; marmo, altezza 67 cm; Roma, Gallerie Nazionali Arte di Antica - Palazzo Barberini)
Simone Cantarini, Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior (1631; olio su carta applicata su tela, 48 x 36 cm; Roma, Gallerie Nazionali Arte di Antica - Palazzo Barberini)
Simone Cantarini, Ritratto del cardinale Antonio Barberini junior (1631; olio su carta applicata su tela, 48 x 36 cm; Roma, Gallerie Nazionali Arte di Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Sacchi, Ritratto di Taddeo Barberini come Prefetto di Roma (1631-1633; olio su tela, 250 x 150 cm; Roma, Collezione Istituto Nazionale di Previdenza Sociale)
Andrea Sacchi, Ritratto di Taddeo Barberini come Prefetto di Roma (1631-1633; olio su tela, 250 x 150 cm; Roma, Collezione Istituto Nazionale di Previdenza Sociale)
Francesco Mochi, Statuetta equestre di Carlo Barberini (1630 circa; bronzo, altezza 58 cm - base in legno h 36 cm; Collezione privata). Foto: Alberto Novelli
Francesco Mochi, Statuetta equestre di Carlo Barberini (1630 circa; bronzo, altezza 58 cm - base in legno h 36 cm; Collezione privata). Foto: Alberto Novelli
Tanzio da Varallo, Il martirio dei santi francescani a Nagasaki (post 1627; olio su tela, 115 x 80 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Tanzio da Varallo, Il martirio dei santi francescani a Nagasaki (post 1627; olio su tela, 115 x 80 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Andrea Sacchi, Le tre Maddalene (1633-1634; olio su tela, 68 x 51 cm; Roma, Gallerie Nazionali Arte di Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Sacchi, Le tre Maddalene (1633-1634; olio su tela, 68 x 51 cm; Roma, Gallerie Nazionali Arte di Antica - Palazzo Barberini)

“Hic domus”: questo è il motto barberiniano, tratto dall’Eneide, che dà il titolo alla quarta sezione, dedicata al collezionismo di famiglia: quantità e qualità delle opere erano al tempo un modo efficace e immediato per misurare la reputazione familiare. E ovviamente i dipinti qui esposti riflettono scelte e gusti dei Barberini, a cominciare da uno dei più importanti quadri esposti, la Morte di Germanico di Nicolas Poussin, commissionata da Francesco Barberini per il palazzo alle Quattro Fontane e prestata dal Minneapolis Museum of Art, che fa dunque tornare il dipinto nel luogo per cui era nato (si possono smorzare perentoriamente le polemiche, circolate soprattutto via social, sullo scambio col museo americano, a cui Palazzo Barberini ha mandato la Giuditta e Oloferne di Caravaggio: è vero che siamo affezionati al caposaldo della produzione caravaggesca, ma per le vicende dell’arte secentesca il quadro di Poussin ebbe un ruolo molto più decisivo, e continuò a fornire suggestioni anche sulla lunga distanza: basti pensare al Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David). Dal classicismo moderno di Poussin si passa a quello rinascimentale della Fornarina di Raffaello, acquistata da Antonio Barberini, il cui favorito Marcantonio Pasqualini viene raffigurato da Andrea Sacchi in un singolare ritratto mitologico assieme al dio Apollo. Sempre legata ad Antonio Barberini è la Venere che suona l’arpa di Giovanni Lanfranco: la dea è infatti intenta a suonare l’arpa Barberini, lo strumento musicale (esposto al centro della sala) commissionato dallo stesso Antonio Barberini per il musicista e arpista Marco Marazzoli (destinatario del dipinto di Lanfranco, poi lasciato ad Antonio). Si deve invece alla committenza di Francesco il capolavoro di Valentin de Boulogne, l’Allegoria dell’Italia destinata a Palazzo Barberini, dove l’Italia è raffigurata come una sorta di Minerva che sovrasta le personificazioni dell’Arno e del Tevere, a loro volta fiumi delle terre cui Urbano VIII era legato. Notevole, infine, la presenza del cinquecentesco Pan Barberini, che gli organizzatori della mostra hanno riportato nel palazzo dov’era in antico, ottenendolo in prestito dal Saint Louis Museum of Art.

Le api dei Barberini sono protagoniste della quinta sezione: conscio delle implicazioni di un’accorta politica di branding, Urbano VIII, forte del fatto di poter puntare su di un animale a cui venivano associate caratteristiche tipicamente positive (l’operosità, la dolcezza del miele, lo spirito solidale, la tenuta sociale, l’intelligenza e così via), disseminò le sue api per tutta la città, come nessun altro papa aveva fatto prima e avrebbe fatto in seguito col proprio stemma. Ancor oggi Roma è colma delle api, così da ricordarci, come sottolinea nel catalogo Louise Rice, “ogni qual volta le vediamo che siamo in territorio Barberini”. Nella sala, una serie d’incisioni che hanno per soggetti temi mitologici che hanno a che fare con le api e ne mettono in evidenza le qualità (le incisioni erano all’epoca le opere che godevano della maggior facilità di circolazione: i Barberini seppero, del resto, essere molto efficaci nell’organizzare la loro propaganda) circondano un grande arazzo del fiammingo Giacomo della Riviera (Jacob van den Vliete) eseguito su disegno di Francesco Mignucci, in cui si vede lo stemma con le api e la pianta d’alloro, accompagnati dal motto “Hic Domus” e da una veduta del feudo di Palestrina, acquistato nel 1629. Gli elementi iconografici fanno riferimento alla leggenda dell’arrivo di Enea nel Lazio: Virgilio narra che un giorno, alla corte del re Latino, uno sciame d’api si posò su di una pianta di alloro, e gli indovini della sua corte interpretarono l’evento come segno premonitore dell’arrivo d’uno straniero. Si trattava di Enea, che da Troia giungeva sul litorale laziale pronunciando la frase “Hic domus, haec patria est”. Maffeo Barberini si paragonava a Enea per aver lascito la natia Firenze ed essersi trasferito a Roma. Sulla parete attigua campeggia la grande tela di Charles Mellin raffigurante l’Allegoria della Pace e delle Arti sotto il pontificato Barberino, eseguita prima del 1627: mai intento d’un papa fu più disatteso.

Con la sesta sezione si fa la conoscenza della cultura antiquaria dei Barberini e della loro passione per l’antico (che però niente poté per risparmiare la trabeazione del Pantheon: un grosso chiodo di bronzo, prestato dalla Antikensammlung di Berlino, testimonia il devastante reimpiego delle spoglie del monumento), mentre la settima, con la quale termina il percorso al pianterreno di Palazzo Barberini introduce al tema della scienza sotto il pontificato di Urbano VIII: il papa non poté non disinteressarsi ai progressi spettacolari che le scienze stavano compiendo in quegli anni. Nella sala sono dunque esposti testi che testimoniano l’avanzamento delle conoscenze in tutti i campi: dalla botanica (con il De Florum cultura del senese Giovanni Battista Ferrari) all’entomologia (la Melissographia di Francesco Stelluti, trattato sulle api con cui i Lincei resero omaggio a Urbano VIII al momento dell’elezione, e col quale venivano promosse le ricerche dell’Accademia dei Lincei e l’uso del microscopio, strumento nato da poco) passando naturalmente per l’astronomia, con le opere di Galileo Galilei. È interessante notare, come rileva Filippo Camerota nel suo saggio in catalogo, che “gli emblemi Urbani divennero esplicitamente anche icone emblematiche della ricerca scientifica: il Sole come oggetto di studio della nuova astronomia telescopica inaugurata da Galileo [...] e le Api come emblema del nuovo corso degli studi naturalistici promossi dai Lincei e favoriti dall’invenzione galileiana del microscopio”.

Nicolas Poussin, Morte di Germanico (1627; olio su tela, 148 x 198,1 cm; Minneapolis, Minneapolis Institute of Art, The William Hood Dunwoody Fund)
Nicolas Poussin, Morte di Germanico (1627; olio su tela, 148 x 198,1 cm; Minneapolis, Minneapolis Institute of Art, The William Hood Dunwoody Fund)
Raffaello Sanzio, La Fornarina (1520 circa; olio su tavola, 87 x 63 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Raffaello Sanzio, La Fornarina (1520 circa; olio su tavola, 87 x 63 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Valentin de Boulogne, Allegoria di Roma (1626-1627; olio su tela, 345 x 333 cm; Roma, Institutum Romanum Finlandiae)
Valentin de Boulogne, Allegoria di Roma (1626-1627; olio su tela, 345 x 333 cm; Roma, Institutum Romanum Finlandiae)
Giovanni Gaspare Lanfranco, Venere che suona l’arpa (1633 circa; olio su tela, 214 x 150 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Giovanni Gaspare Lanfranco, Venere che suona l’arpa (1633 circa; olio su tela, 214 x 150 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Girolamo Acciari (costruttore), Giovanni Tubi (intagliatore), Arpa Barberini (1633; legno sagomato, intagliato, dipinto, dorato, metallo, corde in budello non originali, 205 x 87 x 45 cm; Roma, Museo Nazionale degli Strumenti Musicali)
Girolamo Acciari (costruttore), Giovanni Tubi (intagliatore), Arpa Barberini (1633; legno sagomato, intagliato, dipinto, dorato, metallo, corde in budello non originali, 205 x 87 x 45 cm; Roma, Museo Nazionale degli Strumenti Musicali)
Andrea Sacchi, Ritratto di Marc'Antonio Pasqualini con Apollo e Marsia (1641; olio su tela, 243,8 x 194,3 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Andrea Sacchi, Ritratto di Marc’Antonio Pasqualini con Apollo e Marsia (1641; olio su tela, 243,8 x 194,3 cm; New York, The Metropolitan Museum of Art)
Charles Mellin e Francesco Muti Papazzurri detto Fratello del Cavalier Muti (attribuito), Allegoria della Pace e delle Arti sotto il Pontificato Barberino (ante 1627; olio su tela, 350 x 254 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Charles Mellin e Francesco Muti Papazzurri detto Fratello del Cavalier Muti (attribuito), Allegoria della Pace e delle Arti sotto il Pontificato Barberino (ante 1627; olio su tela, 350 x 254 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Jacomo della Riviera, da Francesco Mignucci, Hic Domus. Stemma Barberini con veduta di Palestrina, dettaglio (1630-1631; lana e seta, 315 x 220 cm; Collezione privata)
Jacomo della Riviera, da Francesco Mignucci, Hic Domus. Stemma Barberini con veduta di Palestrina, dettaglio (1630-1631; lana e seta, 315 x 220 cm; Collezione privata)

Le imprese barberiniane del sole e delle api costituiscono il trait d’union tra le due parti della mostra: si sale e ci si dirige verso il Salone di Pietro da Cortona, fulcro del palazzo, nel quale è stata allestita una sezione della mostra dedicata ai lussuosi arazzi realizzati per i Barberini tra il 1627 e il 1679, e dove sono state sistemate per l’occasione tante sdraio da spiaggia, sulle quali ci si ferma (anche molto a lungo!) per vedere in posizione comoda il trionfo della Divina Provvidenza eseguito tra il 1632 e il 1639 da Pietro da Cortona, e dunque per fissare il sole dei Barberini proprio come se si fosse al mare: iniziativa lodevole e intelligente, sia per l’ironia neanche troppo velata che la caratterizza, sia per l’apprezzabile anticonformismo che oltretutto è funzionale a dare al pubblico delle sedute confortevoli. Si spera che rimangano. Nell’attigua Sala Ovale, uno dei dialoghi più intensi della mostra è quello tra il ritratto di Urbano VIII in marmo, capolavoro di Gian Lorenzo Bernini, e quello, sempre in marmo, con cui un virtuoso quale il carrarese Giuliano Finelli catturò l’immagine del letterato pistoiese Francesco Bracciolini, amicissimo del papa fin dalla gioventù: un’opera, in prestito dal Victoria and Albert Museum di Londra, che sorprende per la finissima resa naturalistica della pelliccia, per l’intensità dell’espressione, per la severità della presenza dell’effigiato.

I due ritratti introducono a un capitolo piuttosto interlocutorio sulla poesia e sulla retorica poste al servizio del papa (tra i volumi esposti non manca un’edizione delle poesie latine e greche scritte dallo stesso pontefice): si passa quindi a una sala dal carattere più spiccatamente politico, in cui s’affronta da una parte l’argomento dell’arte come mezzo che accompagnava le relazioni diplomatiche internazionali, e dall’altra il tema del mecenatismo dell’entourage del papa, risolto frettolosamente con una serie di ritratti di personaggi che gravitavano “Intorno all’alveare”, come da titolo della sezione, e con alcuni dipinti da loro commissionati: meritano un cenno il Ritrovamento di Mosè di Giovanni Francesco Romanelli, fautore d’un moderno classicismo di stampo raffaellesco, e tra gli artisti preferiti del cardinale Francesco Barberini al punto da ottenere fama internazionale (l’opera, proveniente dal museo del Castello di Compiègne in Francia, fa parte del ciclo sulle storie di Mosè eseguito per Anna d’Austria, destinato a decorare il palazzo del Louvre), e l’Allegoria dell’intelletto, della Memoria e della Volontà di Simon Vouet, commissionata da Marcello Sacchetti, depositario generale del papa. Nella scarna sezione sull’arte “diplomatica”, composta di sole quattro opere (ma tutte di grande importanza), da citare la Distruzione del tempio di Gerusalemme di Poussin, offerta dal cardinale Antonio Barberini a Johann Anton von Eggenberg, ambasciatore del Sacro Romano Impero, e il busto del cardinale Richelieu eseguito da Bernini, esposto vicino al Triplo ritratto del cardinale eseguito da Philippe de Champaigne e dalla sua bottega, problematico perché solo di recente la critica ha concluso, in maniera tuttavia non unanime, che l’opera dovette essere inviata da Parigi a Roma, come modello, per consentire a Francesco Mochi di lavorare alla sua statua di Richelieu. In mostra viene adeguatamente evidenziato non soltanto come i grandi artisti, a partire da Bernini, fossero al servizio della diplomazia, perché un ritratto di Bernini poteva spingere, come spiegano i pannelli in sala, anche a “contrarre un debito di favore con i ’padroni’ dell’artista e in ultimo con il papa stesso” (anche se non è detto che azioni simili portassero poi a risultati concreti), ma anche l’uso innovativo cui i Barberini sottoposero le opere d’arte per i loro fini diplomatici: venivano cioè scelti soggetti iconografici legati a temi d’attualità, con l’obiettivo implicito di tentare leve persuasive nei riguardi del destinatario. Il dipinto di Poussin, per esempio, era un dono all’imperatore Ferdinando III, ma era anche un avvertimento: serviva a ricordare a Ferdinando, che minacciava di espandersi nell’Italia settentrionale, che l’imperatore Tito aveva ordinato al suo esercito, invano, di non distruggere il Tempio di Gerusalemme, e si era poi pentito dell’atto d’empietà dei suoi. Se verso le battute conclusive la mostra perde un poco di mordente, il finale è di forte impatto scenografico, e non potrebbe essere altrimenti per una sezione intitolata “Il teatro degli stupori”, dedicata alle rappresentazioni pubbliche del potere dei Barberini: sfilano cinque grandi dipinti, ovvero le due grandi tele di Andrea Camassei restaurate per l’occasione (la Strage dei Niobidi e il Riposo di Diana), messe qui per dar conto dell’operato di uno dei più teatrali interpreti del mecenatismo barberiniano, e tre opere dedicate ad altrettanti, sontuosi eventi organizzati dalla famiglia, ovvero l’Ingresso di Urbano VIII alla chiesa del Gesù e la Giostra del Saracino, entrambi di Andrea Sacchi, e il Carosello per l’ingresso di Cristina di Svezia di Pietro Gagliardi, tutte opere che incollano il riguardante ai più minimi dettagli e soprattutto si fanno evidenti portatrici della potente retorica della famiglia e dimostrano come il palazzo che ospita la mostra avesse assunto le dimensioni d’una fastosissima reggia.

Gian Lorenzo Bernini, Busto del cardinale Richelieu (1640-1641; marmo, 82 x 65 x 33 cm; Parigi, Musée du Louvre)
Gian Lorenzo Bernini, Busto del cardinale Richelieu (1640-1641; marmo, 82 x 65 x 33 cm; Parigi, Musée du Louvre)
Nicolas Poussin, Distruzione del Tempio di Gerusalemme (1638; olio su tela, 147 x 198 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie)
Nicolas Poussin, Distruzione del Tempio di Gerusalemme (1638; olio su tela, 147 x 198 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie)
Andrea Camassei, La strage dei Niobidi (1630; olio su tela, 300 x 410 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Camassei, La strage dei Niobidi (1630; olio su tela, 300 x 410 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Camassei, Il riposo di Diana (1638-1639; olio su tela, 293 x 403 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Camassei, Il riposo di Diana (1638-1639; olio su tela, 293 x 403 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Sacchi, Celebrazioni per la Compagnia del Gesù (1641; olio su tela, 321 x 248 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)
Andrea Sacchi, Celebrazioni per la Compagnia del Gesù (1641; olio su tela, 321 x 248 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica - Palazzo Barberini)

La fine della mostra induce a domandarsi quali siano stati, nel concreto, i risultati della pervasiva propaganda del lungo pontificato di Urbano VIII. Il giudizio storico sul ventennio barberiniano è complesso, ma già Ludwig von Pastor, che fu tra i primi a studiare gli anni di Maffeo Barberini sotto tutti i profili, ebbe a scrivere che Urbano VIII “lasciò ai romani il detestabile ricordo di un papa manipolato dalla sua famiglia, avido di denaro e sempre pronto a imporre tasse mentre, per gli europei del tempo impegnati nella Guerra dei Trent’anni, incarnava la figura del traditore in tutti i campi” (questa la nomea che s’era guadagnato con la sua politica estera, segnata dalla vicinanza alla Francia e mascherata però sotto le mentite spoglie d’una apparente neutralità). Lo stesso studioso, tuttavia, riconobbe anche i suoi straordinarî meriti in fatto di politica culturale: con Urbano VIII, Roma diventò il principale centro di produzione culturale di tutta Europa, la capitale dell’arte che impose al mondo lo stile che gli artisti del papa avevano elaborato nelle imprese da lui commissionate, la città delle lettere e delle scienze. Questo probabilmente fu il lascito principale di papa Barberini: una propaganda che gli diede scarsi risultati politici, ma che ebbe l’effetto di marcare Roma in maniera indelebile, modellandola quasi a somiglianza d’un pontefice ch’era stato poeta e letterato, che aveva nutrito sinceri interessi per la scienza (malgrado le sue posizioni, da quelle progressiste della gioventù, si siano poi mantenute su di uno stretto tradizionalismo) e che amava le arti, ed elevandola a capitale culturale modello. Le ragioni del successo del progetto culturale barberiniano, che toccò tutti i campi, risiedono soprattutto nella capacità, da parte del pontefice, d’esser riuscito a coinvolgere una nutrita schiera d’artisti, intellettuali, scienziati e musicisti nella sua azione, e d’essersi oltretutto procurato i migliori.

I limiti dell’azione di Urbano VIII, invece, stanno soprattutto negli obiettivi ai quali le arti erano subordinate nel quadro del suo progetto politico. Lo riassume con efficacia Maurizia Cicconi nel catalogo laddove, riprendendo un’idea di Schütze (proposta in un saggio del 1998) che aveva avanzato un confronto tra Urbano VIII e Giulio II, afferma che Maffeo Barberini potrebbe esser definito “l’ultimo grande papa del Rinascimento”, da una parte perché intenzionato ad affermare il ruolo della Chiesa per tramite d’un primato culturale, e dall’altro per il suo volersi proporre come papa pacificatore, in grado di riportare armonia nella cristianità. I due papi erano però separati da un secolo di scontri, di guerre, di divisioni: nel mezzo, per dire, c’era stata la Riforma protestante. Per tagliar corto: niente sarebbe tornato come prima. E in questo senso si può guardare a Urbano VIII come a un pontefice sostanzialmente reazionario, poco preparato per affrontare le sfide che la modernità poneva al papato, e destinato dunque a perdere praticamente su tutti i fronti: l’esito non poté che essere una progressiva perdita di rilevanza internazionale dello Stato Pontificio. La vicenda storica, tuttavia, fatica a emergere dall’itinerario espositivo: giunge allora in soccorso il catalogo, ottimo strumento che centra molto meglio l’obiettivo di restituire al pubblico tutta la complessità del pontificato di Urbano VIII. Il maggior risultato dell’esposizione, semmai, è quello d’aver riportato a Palazzo Barberini opere che qui erano all’epoca di Maffeo e che poi sono finite in giro per il mondo, offrendo così al pubblico un’idea concreta della magnificenza del mecenatismo barberiniano.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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