Il Perugino negli affreschi del Collegio del Cambio: il Rinascimento classico e cristiano


Capolavoro del Perugino, gli affreschi della Sala delle Udienze nel Collegio del Cambioa a Perugia sono uno dei vertici del Rinascimento, soprattutto per la commistione di temi classici e cristiani.

Girando per la Sala delle Udienze del Nobile Collegio del Cambio di Perugia, si potrà facilmente individuare, sulla parete verso l’entrata, un autoritratto dell’autore degli affreschi, il Perugino (Pietro Vannucci; Città della Pieve, 1450 circa – Fontignano, 1523), e subito sotto la sua effigie, che ce lo restituisce in maniera realistica come un cinquantenne un poco appesantito, si troverà un’iscrizione che recita: “Petrus Perusinus Egregius / Pictor / Perdita si fuerat pingendi / hic rettulit artem / Si nusquam inventa est / hactenus ipse dedit”, e cioè “Pietro Perugino pittore egregio: se l’arte del dipingere era perduta, egli la recuperò, e se mai fino ad allora era stata inventata, egli la creò”. A tutta prima potrebbe apparirci non proprio una dichiarazione di modestia, insomma, anche se non dobbiamo leggerla come un’incensazione di se stesso: l’iscrizione infatti, molto probabilmente, venne dettata dall’umanista che ideò il programma iconografico della sala, Francesco Maturanazio (Perugia, 1443 – 1518), che pescò dalla tradizione classica e umanistica (in particolare da Plinio e da Petrarca) per elevare l’artista allo status di pittore divino, dal momento che nella tradizione classica era prerogativa delle divinità l’insegnamento delle arti ai mortali.

E in effetti già anticamente gli affreschi della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio erano ritenuti una delle opere migliori del Perugino, se non il suo capolavoro. Anche un detrattore del Perugino come Giorgio Vasari, nelle sue Vite, esprime un giudizio molto positivo nei confronti di questo ciclo di dipinti, rammentando come molti lo ritenessero il suo lavoro più importante: “Questa opera, che fu bellissima e lodata più che alcun’altra che da Pietro fusse in Perugia lavorata, è oggi dagl’uomini di quella città, per memoria d’un sì lodato artefice della patria loro, tenuta in pregio”. Il Perugino venne chiamato a decorare la Sala delle Udienze nel 1496. L’Arte del Cambio era una delle principali corporazioni professionali della Perugia quattrocentesca: era l’associazione che tutelava gli interessi dei cambiavalute (le banche, diremmo in termini contemporanei) e, assieme all’Arte della Mercanzia, era l’unica che aveva ricevuto il privilegio di poter aprire la propria sede direttamente dentro al Palazzo dei Priori, ovvero l’edificio simbolo delle virtù civiche della città, la sede del potere laico, il luogo che doveva rappresentare tutti i perugini. I locali del Collegio del Cambio si trovano al pianterreno di Palazzo dei Priori e la Sala delle Udienze era il luogo in cui i membri della corporazione si riunivano, ricevevano, discutevano delle loro attività. Il contratto per l’incarico del Perugino, a lungo sconosciuto, è stato rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Perugia e pubblicato nel 2013 sul Burlington Magazine da Alberto Maria Sartore: siglato nel 1496, il documento è stato fondamentale per chiarire la cronologia dei lavori e per avere contezza dei cambiamenti in corso d’opera, dal momento che a un certo punto il programma venne modificato. Non si tratta dell’accordo definitivo, ma di una bozza preliminare redatta in volgare dal notaio del Cambio, Pietro Paolo di ser Bartolomeo e reca la data dell’11 maggio 1496.

La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio con gli affreschi del Perugino (1498-1500)
La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio di Perugia con gli affreschi del Perugino (1498-1500)
La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio con gli affreschi del Perugino (1498-1500)
La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio di Perugia con gli affreschi del Perugino (1498-1500)

A rappresentare il Cambio erano due “uditori”, ovvero due funzionari di livello superiore, Amico Graziani e Mario Monaldi, che riferivano di aver avuto una riunione preliminare con il Perugino per definire i dettagli della decorazione (erano stati loro ad aver proposto al Cambio, nel mese di gennaio, il nome del pittore di Città della Pieve). Il documento comincia descrivendo gli elementi della volta, che doveva essere decorata con le immagini dei sette pianeti accompagnate da “animali” e altri “ornamenti”. Ognuno dei pianeti doveva essere dipinto in oro o argento, mentre gli “ornamenti” dovevano essere in “azzuro de la Magna”, ovvero in azzurrite tedesca. Il contratto descrive poi il programma delle quattro pareti partendo dalle due lunette della parete meridionale, ovvero quella opposta al monumentale “seggio” ligneo destinato a chi presiedeva le riunioni. In queste lunette il Perugino era chiamato a dipingere le quattro virtù cardinali e, sulla parete nord, le immagini di dodici personaggi illustri dell’antichità, senza che però fossero fornite ulteriori specifiche. Quanto alla parete occidentale, le indicazioni erano più precise: una Natività e una Trasfigurazione da eseguirsi a olio su tavola, con decorazioni in oro, in blu oltremare e in diversi altri preziosi pigmenti. Per terminare il lavoro, il Cambio concedeva al Perugino un anno dalla stipula del contratto: per la precisione, sei mesi per il soffitto e gli affreschi sulle pareti, e altri sei mesi per le parti in olio su tavola. La somma pattuita era di 350 ducati: 50 subito, 50 al completamento degli affreschi, 50 all’inizio delle opere su tavola, e infine 50 per ogni anno fino a raggiungere la somma completa (i pagamenti, con questo sistema, sarebbero andati avanti sino al 1507). Si trattava insomma di un contratto “particolarmente svantaggioso per il pittore”, come ha scritto Sartore. “Non soltanto era obbligato a completare l’intero programma entro l’anno (un lasso di tempo irrealistico, date le dimensioni e la complessità del ciclo, senza calcolare gli altri impegni firmati dal Perugino), ma 200 dei 350 ducati promessi furono pagati in rate annuali fisse di 50 ducati spalmate su quattro anni solo dopo che gli affreschi furono terminati”. Inoltre evidentemente l’artista andò incontro ad alcune penali dal momento che ritardò la consegna del ciclo, e che dalla firma del contratto i pagamenti durarono per quasi dieci anni.

L’Arte del Cambio intendeva avvalersi dei servigi di uno dei più importanti artisti in circolazione all’epoca, all’apice della sua carriera, peraltro in un periodo in cui era appena tornato a Perugia da Firenze ed era oberato d’impegni: nello stesso periodo, per esempio, attendeva alla realizzazione della Madonna della Confraternita della Consolazione, del Polittico di San Pietro, del Gonfalone della Giustizia e di altre opere che punteggiano l’epoca del suo successo. L’artista, dal canto suo, era comunque ben lieto di rimanere in città, tanto che nel 1496 incaricò un suo uomo di fiducia di gestire i suoi affari a Firenze: il Perugino ebbe così modo di organizzare al meglio il lavoro, che poté ovviamente contare su un’ampia collaborazione della bottega. Esiste peraltro un documento del 1496 che attesta l’affitto di un locale, a pochi passi dal Collegio del Cambio, da parte di un gruppo di artisti formato da Ludovico d’Angelo, Sinibaldo Ibi, Berto di Giovanni, Lattanzio di Giovanni ed Eusebio da San Giorgio: prima della scoperta del contratto per la Sala delle Udienze s’era parlato di una “società del 1496” fondata quasi per competere col Perugino, mentre a partire dal rinvenimento Sartore ha ipotizzato che in realtà non doveva trattarsi di un sodalizio che intendeva far concorrenza al maestro, ma forse era una “squadra di assistenti di cui il maestro necessitava per realizzare un ciclo così ambizioso”. Un ciclo che, come anticipato, subì delle modifiche in corso d’opera: la Natività e la Trasfigurazione, per esempio, furono infine dipinte ad affresco e non su tavola. Il Perugino comunque non cominciò subito a lavorare: trascorse infatti gran parte del 1497 tra Firenze e Fano, per dedicarsi in maniera intensiva alle pitture del Cambio a partire dal 1498. Il lavoro ebbe termine nel 1500, come attesta la data lasciata dall’artista sopra uno dei pilastri.

Come s’è visto, il contratto non approfondiva più di tanto il contenuto del ciclo. In effetti indicazioni più precise sarebbero giunte al pittore da una commissione incaricata di elaborare il tema iconografico: non si sa però se alla stipula del contratto il programma fosse già chiaro, oppure se fosse ancora in fase di discussione. È comunque noto da tempo che il raffinato programma iconografico si debba a Maturanzio, che immaginò una commistione di temi sacri e temi pagani, ispirandosi al De officis e al De inventione di Cicerone (di cui l’umanista perugino possedeva un incunabolo, oggi conservato alla Biblioteca Augusta di Perugia con numero d’inventario 296, dove si vedono annotazioni dello stesso Maturanzio legate proprio al ciclo del Cambio). In particolare, è nel De inventione che il grande oratore romano afferma che il diritto è espressione della ragione umana che trova accordo con la ragione naturale (ius naturale), e che la saggezza politica si fonda sull’esercizio delle virtù, definita da Cicerone (al libro II, capitolo 159) come “una disposizione della mente secondo natura e ragione”, formata da quattro parti, che coincidono con le virtù cardinali cristiane: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Altre fonti d’ispirazione per Maturanzio furono altri testi antichi come i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo, ma anche opere moderne quali l’Astrolabium di Johann Engel (latinizzato in Johannes Angelus), pubblicato nel 1494, oppure forse la diretta fonte di quest’ultimo, il calendario astrologico di Baccio Baldini, pubblicazione all’epoca piuttosto popolare e stampata in diverse edizioni, che l’artista potrebbe preso a modello per la raffigurazione dei pianeti. Il Perugino comunque non fu un semplice esecutore: possiamo infatti immaginarlo a dialogo con Maturanzio sulla scelta delle soluzioni iconografiche (per esempio, lo studioso Rudolf Hiller von Gaertringen gli attribuisce l’invenzione della combinazione degli eroi con le virtù e le iscrizioni, nata probabilmente dal confronto con l’umanista). L’idea di fondo del ciclo, che doveva fornire una sorta di esempio a chiunque entrasse in questa sala, come ha scritto Pietro Scarpellini, è che in Cristo “si realizzano compiutamente le virtù cardinali, esemplate dagli uomini famosi, in particolare la Giustizia che deve regolare l’attività pubblica nell’Udienza del Cambio”. L’uomo che voglia dunque avvicinarsi all’esempio di Cristo dovrà seguire le virtù degli antichi illustri, e farsi guidare dalle virtù cristiane, che vengono tutte rappresentante negli affreschi della Sala delle Udienze. L’unitarietà simbolica del ciclo si esprime dunque nella solidità e nell’armonia dell’impianto compositivo, che “svela così una concezione unitaria, che si manifesta in forme compatte e coerenti”.

Perugino, Autoritratto (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Autoritratto (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
L'autoritratto con l'iscrizione
L’autoritratto con l’iscrizione
Perugino, Catone Uticense (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Catone Uticense (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Padre Eterno con sibille e profeti (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Padre Eterno con sibille e profeti (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Natività (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Natività (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, <em>Trasfigurazione</em> (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)

A presiedere, per così dire, tutto il ciclo è la figura di Catone Uticense, simbolo di libertà (per il fatto che aveva preferito uccidersi piuttosto che accettare di vedere la repubblica sottomettersi a Giulio Cesare: questa è l’immagine dell’Uticense che ci è stata tramandata anche dalla Commedia di Dante Alighieri), figura storica apprezzata anche dal principale sostenitore del ciclo, Amico Graziani, che era peraltro amico di Maturanzio. È lui che introduce il visitatore alla lettura del ciclo, che può cominciare dalle pareti con le scene sacre: si parte dalla Trasfigurazione, l’episodio descritto nei vangeli di Matteo, Marco e Luca durante il quale Gesù, dopo aver condotto con sé i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte Tabor, cambiò aspetto mostrandosi assieme ai profeti Mosè ed Elia in una luce soprannaturale. Perugino dipinge Cristo in una mandorla, con uno schema collaudato: è al centro, i due profeti sono a fianco a lui in posizione simmetrica, inginocchiati su due nuvole, mentre il registro inferiore, che occupa una metà esatta della composizione, ospita i tre discepoli che osservano stupiti, con Giovanni che solleva una mano per ripararsi dal bagliore. Attorno alla figura di Cristo le scritte “Hic est filius meus dilectus” e “Domine bonum est nos hic esset”, ovvero “Questo è il figlio mio diletto” e “Signore, per noi è bene essere qui” (è la frase che avrebbe pronunciato Pietro dopo l’apparizione di Gesù tesa a mostrar loro un saggio della bellezza del paradiso, come si legge nel vangelo di Matteo). La scena della Trasfigurazione allude, secondo l’interpretazione dello studioso Elvio Lunghi, alla Fede, mentre la Carità è rappresentata dalla Natività: i personaggi (la Vergine, Gesù Bambino e san Giuseppe) sono raffigurati sotto un’architettura classica dalle alte colonne, decorate con motivi a grottesca, e anche qui sono disposti simmetricamente, a riprendere l’impostazione della scena omologa che l’artista aveva dipinto nella Cappella Sistina (poi rimossa per far posto al Giudizio universale di Michelangelo). Il Bambino è al centro, i genitori sono ai suoi lati, inginocchiati, mentre i pastori più indietro sono collocati a formare una piramide, con quello sulla sinistra che è controbilanciato, sul lato opposto, dal bue e dall’asinello. Dietro, la veduta si apre sul paesaggio umbro (intravediamo, in lontananza, l’onnipresente lago Trasimeno che il Perugino inseriva quasi sempre nei suoi scorci paesistici), dove compaiono tre angeli che intonano canti in lode a Cristo appena nato e, in basso sulla sinistra, osserviamo anche un pastore che sta conducendo il suo gregge. La parete attigua vede una grande lunetta con l’immagine dell’Eterno tra gli angeli sopra un gruppo di profeti e sibille, insieme che simboleggia la Speranza, la terza virtù teologale. La figura del Padreterno appare in un circolo dorato attorniato da tutte le gerarchie angeliche (angeli, cherubini e serafini), e sotto di lui, in un altro paesaggio con le colline dell’Umbria, si vedono i personaggi identificati dai loro cartigli: da sinistra a destra s’incontrano Isaia, Mosè, Daniele, Davide, Geremia e Salomone per il gruppo dei profeti, e poi le sibille Eritrea, Persica, Cumana, Libica, Tiburtina e Delfica. Tutti questi personaggi annunciano la venuta del figlio di Dio. Una curiosità: è l’unica delle scene il cui disegno fu riportato su parete con la tecnica dell’incisione e non con quella dello spolvero.

Le altre due scene sono raffigurate sulla parete di fronte. Entrambe seguono lo stesso schema: vi troviamo due delle quattro virtù cardinali assise in cielo, identificate, oltre che dai loro tipici attributi iconografici, dalle tavole sorrette da coppie di putti, e sotto di loro sei eroi dell’antichità. A sinistra, la Prudenza e la Giustizia (con i loro attributi: lo specchio e la spada) sono raffigurate sopra Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Furio Camillo, Pittaco e Traiano, mentre a destra, la Fortezza e la Temperanza (scudo e bastone la prima, le due brocche per “temperare” l’acqua la seconda) compaiono sopra altri sei eroi, ovvero Lucio Siconio, Leonida, Orazio Coclite, Publio Scipione, Pericle e Cincinnato.

La prudenza (prudentia) è per Cicerone “la conoscenza delle cose buone e cattive” e si compone di tre parti: memoria, intelligenza e capacità di previsione, incarnate rispettivamente da Fabio Massimo, Socrate e Numa Pompilio. L’iscrizione suggerisce di non fare cose di cui ci si potrebbe pentire, e di cercare piuttosto la verità. La giustizia (iustitia) viene invece definita nel De inventione come un “abito mentale che tutela il bene comune”, e risulta dallo ius naturae (il diritto naturale, ovvero quello che non discende dall’opinione, ma da un istinto innato che è fondato su religio, pietas, gratia, vindicatio, observantia e veritas: lo ius naturae è impersonato da Furio Camillo), dalla consuetudine, che stabilisce le cose utili (Pittaco), e dalla legge scritta (Traiano). Nell’iscrizione si legge che se al mondo nascessero uomini come i tre che impersonano le tre qualità della giustizia, non ci sarebbero più azioni malvagie. La fortezza (fortitudo) è secondo Cicerone “la capacità di affrontare i pericoli e di sopportare la fatica”. Le sue parti sono magnificentia (magnanimità, generosità), fidentia (sicurezza e fiducia in se stessi) patientia (pazienza) e perseverantia (perseveranza). La magnificentia è rappresentata da Lucio Siconio, la fidentia da Leonida, la patientia e la perseverantia da Orazio Coclite. Nell’iscrizione si può leggere che chi pratica la fortezza non ha niente da temere. Infine, la temperanza (temperantia) è nel De inventione descritta come “il controllo fermo e moderato della ragione sulla lussuria e su altri impulsi impropri”. Si compone di continentia (continenza), clementia (clemenza) e modestia (modestia), valori ai quali corrispondono i personaggi di Scipione l’Africano, di Pericle e di Cincinnato. Nell’iscrizione, la temperanza è identificata come una “dea” che può insegnare il controllo di se stessi. Secondo il summenzionato Elvio Lunghi, l’idea di interpretare gli affreschi come allusioni alle sette virtù cristiane potrebbe guardare al noto precedente dei dipinti che Sandro Botticelli e Piero del Pollaiolo eseguirono tra il 1469 e il 1470 per il Tribunale della Mercanzia di Firenze, l’istituto che giudicava i reati di carattere commerciale (ci si muove dunque nell’ambito in cui operava anche l’Arte del Cambio di Perugia), oggi tutti conservati agli Uffizi. E si tratterebbe di un programma pienamente conforme, come ha ben riassunto Stefania Gialdroni nel suo saggio Perugino’s Justice. The Frescoes for the Collegio del Cambio between Legal History, Iconography, and Iconology del 2022, all’ideale di Maturanzio del christianus vir “che deve perseguire virtù sia cardinali che teologali, sulla base del presupposto che il cristianesimo ha mostrato al mondo la vera giustizia e ricostruito la vita umana sui due pilastri fondamentali della pietas e dell’humanitas”. Secondo Gialdroni, il ciclo trasmette l’idea di giustizia dei banchieri perugini del Quattrocento: non tanto punire i delinquenti, quanto assicurare l’applicazione della legge in modo veloce e sulla base delle consuetudini mercantili e dell’equità. Lo Statuto del Cambio, approvato nel 1377, prevedeva infatti che i giudizi venissero applicati con rapidità, in maniera semplice e senza difficoltà (“summarie, simpliciter et de plano”) e secondo diritto, verità, equità e buone consuetudini (“de iure, veritate et equitate et secundum bonam consuetudinem”). La figura di Catone era dunque funzionale a invitare i membri del Collegio a “lasciarsi alle spalle le passioni personali per seguire la retta via. Questo”, scrive Gialdroni, “è il messaggio che i mercanti volevano dare, questa è l’immagine del diritto mercantile e della giustizia che volevano proiettare: niente scene violente, niente punizioni, niente riferimenti ai ‘libri della legge’ (cioè allo ius commune), ma piuttosto una sorta di armonia, un invito alla moderazione, o meglio alla ‘temperanza’”.

Perugino, Prudenza e Giustizia con Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Furio Camillo, Pittaco e Traiano (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Prudenza e Giustizia con Fabio Massimo, Socrate, Numa Pompilio, Furio Camillo, Pittaco e Traiano (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Fortezza e Temperanza con Lucio Sicinio, Leonida, Orazio Coclite, Publio Cornelio Scipione, Pericle e Cincinnato (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino, Fortezza e Temperanza con Lucio Sicinio, Leonida, Orazio Coclite, Publio Cornelio Scipione, Pericle e Cincinnato (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino (e collaboratori), volta con i Pianeti e decorazioni a grottesche (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
Perugino (e collaboratori), Volta con i Pianeti e decorazioni a grottesche (1498-1500; affresco; Perugia, Nobile Collegio del Cambio, Sala dell’Udienza)
La Trasfigurazione e la Natività
La Trasfigurazione e la Natività
Dettaglio della figura di Venere
Dettaglio della figura di Venere

Si rivolge infine lo sguardo verso l’alto a vedere le raffigurazioni dei sette pianeti, il cui influsso, secondo le credenze del tempo, poteva condizionare le attività umane. Nella raffigurazione dei pianeti, Hiller von Gaertringen, nel suo saggio pubblicato nel catalogo della mostra sul Perugino del cinquecentenario del 2023, ha ipotizzato la possibile presenza del Pinturicchio, che avrebbe collaborato alla realizzazione di queste immagini (e a suo avviso si potrebbe anche ravvisare l’aiuto del giovane Raffaello nel disegno della scena coi profeti e le sibille, che palesano posizioni più variate rispetto a quelle solite del Perugino, e un raggruppamento più denso: nei suoi collaboratori abituali non si riscontrano variazioni così marcate rispetto allo stile del maestro). Ecco dunque il Sole al centro (con il dio Apollo, associato a questo astro), Saturno, Giove e Marte sulla parete di fondo, e Mercurio, la Luna (con la dea Diana) e Venere che invece decorano la parte che sta sopra la finestra. Le divinità che presiedono i pianeti vengono tutte raffigurate su carri trainati da animali, come da una diffusa iconografia. Nelle cornici si dispiega inoltre tutta l’inventiva dell’artista che per gli “altri ornamenti” indicati dal contratto immaginò animali veri e fantastici, mascheroni, motivi vegetali, che tuttavia furono per la più parte eseguiti materialmente dai suoi collaboratori.

Il Perugino aveva terminato il suo lavoro impiegandoci più del tempo previsto, ma riuscì nell’impresa di dipingere uno dei più significativi lavori del Rinascimento, una delle opere che meglio incarnano l’idea umanistica di commistione tra elementi classici ed elementi cristiani, e seppe farlo senza offrire contributi particolarmente originali o novità dirompenti: dalla sua aveva la capacità di dar forma al pensiero più aggiornato del suo tempo con una pittura pacata, serena, elegante (i detrattori direbbero anche “ripetitiva”), tanto nelle figure quanto nel paesaggio, che non sconvolgeva né inquietava la sua clientela ma al contempo si dimostrava in linea con la modernità, grazie alla sua capacità, ha scritto Vittoria Garibaldi, “di trasporre i concetti letterari, umanistici e classici in immagini figurate, armoniche e pacate, fatte di silenzi ritmicamente alternati”. Per questo un grande studioso come Lionello Venturi definì il Perugino, nel suo volume sugli affreschi del Collegio del Cambio, come “il più tradizionale tra i pittori moderni e il più moderno fra i pittori tradizionali”. Si torna dunque da dove si era partiti: all’autoritratto del pittore. Non è l’immagine di un artista pieno di sé che si autocelebra in un’opera da lui eseguita. Il Perugino, come ha osservato Laura Teza, diventa intanto simbolo del riscatto d’un’intera città, ruolo sostanzialmente inedito per un artista, almeno a Perugia. Maturanzio, in una sua Oratio in qua laudes et origo Perusiae tractantur, presentava il Perugino “come celeberrimo esempio delle virtù intellettuali e fattive della patria perugina”, scrive Teza, “possibile exemplum per i sopiti ingegni della città, che non vive pienamente la sua grande stagione intellettuale perché inconsapevole del proprio valore”: l’artista diviene così, negli affreschi del Cambio, un “modello di virtù patria, la personificazione di un’arte ritrovata”, e ancora “espressione vivente di quelle virtù di sapienza, di forza, di dominio di sé necessarie all’esercizio del bene pubblico, richiamate all’attenzione di una città distratta”. Inoltre, l’autoritratto va letto come la testimonianza più evidente dell’apprezzamento che l’Arte del Cambio riservò al ciclo, tanto che gli uditori evidentemente concessero al Perugino, a pitture ultimate, di lasciare la sua effigie, proprio perché erano estremamente soddisfatti di come l’artista aveva portato a termine l’opera. E avevano ragione: poche altre opere di Pietro Vannucci raggiungono i vertici toccati nella Sala delle Udienze. E pochi altri cicli affrescati del tempo riescono a trasmetterci con altrettanta precisione le idee, le conoscenze, le aspettative e le speranze degli uomini del Rinascimento.

L’articolo è redatto nell’ambito di “Pillole di Perugino”, un progetto che fa parte delle iniziative per la divulgazione e diffusione della conoscenza della figura e dell’opera di Perugino selezionate dal Comitato Promotore delle celebrazioni per il quinto centenario della morte del pittore Pietro Vannucci detto “il Perugino”, costituito nel 2022 dal Ministero della Cultura. Il progetto, a cura della redazione di Finestre sull’Arte, è cofinanziato con i fondi messi a disposizione del Comitato dal Ministero.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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