La “bellezza” ci è andata eccome, in quarantena: anzi, in tante città d'Italia è ancora inaccessibile


Ieri, durante la conferenza stampa per la prossima fase dell'emergenza sanitaria, il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha detto che la bellezza dell'Italia non è mai andata in quarantena: in realtà ci è andata eccome, e in molte città d'Italia lo è ancora.

“Dobbiamo concentrarci sul brand dell’Italia nel mondo, per promuovere l’incomparabile patrimonio artistico e naturale che possediamo. Perché in tutti questi mesi, lo dobbiamo dire con forza, la bellezza dell’Italia non è mai andata in quarantena”: sono queste alcune delle parole sulla cultura che il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha pronunciato ieri durante la conferenza stampa per illustrare i provvedimenti della prossima fase dell’emergenza sanitaria. Non ci soffermeremo troppo sui toni della comunicazione, e ci limitiamo a sperare che il presidente consideri presto l’idea di cambiare paroliere: evidentemente non bastava la gaffe sugli artisti che “ci fanno divertire e appassionare”, e serviva rincarare con un’espressione brutta e stantia come “brand Italia” e con la solita inutile, vuota, superata, insignificante retorica sulla bellezza. Ad ogni modo, ciò che ci sorprende di più è il contenuto dell’affermazione. Tocca purtroppo contraddire sonoramente il premier: non solo la “bellezza” dell’Italia è andata eccome in quarantena, ma in molte città d’Italia è tuttora in quarantena.

Giuseppe Conte durante la conferenza stampa di ieri
Giuseppe Conte durante la conferenza stampa di ieri

E non ci riferiamo solo al fatto che quella “bellezza” di cui tanti parlano ma che pochi frequentano è rimasta inaccessibile ai più, dacché eravamo tutti segregati in casa: il fatto è che i nostri luoghi della cultura sono stati tutti chiusi per provvedimento governativo, malgrado un decreto legge del 20 settembre 2015, il numero 146 (convertito in legge il 12 novembre dello stesso anno) abbia stabilito che l’apertura al pubblico dei musei e dei luoghi della cultura, così come individuati dal Codice dei Beni Culturali, rientri nei servizî pubblici essenziali. La legge 146 del 12 giugno 1990 identifica questi ultimi come quei servizî “volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione”.

È interessante rilevare che tutti i servizî pubblici essenziali definiti dalla legge del 1990 non hanno mai chiuso durante le lunghe settimane del confinamento: hanno continuato a funzionare, ovviamente, i servizî di tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona, non hanno mai smesso di lavorare i servizî per la cura dell’ambiente, la sanità, l’igiene pubblica, la protezione civile, lo smaltimento dei rifiuti, le dogane, la filiera dell’approvvigionamento energetico e delle risorse naturali, quella dei beni di prima necessità e le fabbriche che li producono, l’amministrazione della giustizia (seppure a rilento e con diverse limitazioni), i servizî di protezione ambientale e quelli di vigilanza sui beni culturali, i trasporti pubblici, la previdenza sociale, la pubblica istruzione (che ha lavorato in rete con enormi difficoltà, ma ha provato a garantire il servizio nei limiti del possibile), le poste, le telecomunicazioni, l’informazione pubblica. Si potrebbe obiettare affermando che molti servizî sono stati erogati solo online, ma è altrettanto agile far notare che, per i musei, la legge parla esplicitamente di “apertura al pubblico”: è possibile considerare le preziose ed encomiabili attività online di tanti musei una forma di apertura al pubblico? Cosa dire allora di quei musei che neppure hanno una presenza sui social, o hanno fatto attività ogni tanto, o non hanno neppure un sito web? Davvero non era possibile tenerli aperti prevedendo misure di contenimento del contagio? Perché è stato possibile recarsi in tutta sicurezza al supermercato o alle poste, e s’è deciso di chiudere i musei benché la loro apertura al pubblico sia considerata un servizio pubblico essenziale? È forse il caso di pensare che l’inclusione dei musei tra i servizî pubblici essenziali (decisione presa all’indomani di un’assemblea sindacale dei lavoratori del Colosseo che da mesi non percepivano gli straordinarî) sia stata presa non per garantire un servizio essenziale ai cittadini, ma per restringere il diritto di sciopero dei lavoratori?

Sono tutti argomenti di cui s’è discusso poco, malgrado sulla nostra testata e su altri canali il problema sia stato sollevato (i musei non andavano chiusi, ha scritto alcuni giorni fa su queste pagine il professor Massimo Cerulo, perché sono “i luoghi che aiutano a non perdere la memoria storica”, “a capire come si viene fuori dalle difficoltà” e “a non lasciarsi travolgere dalle notizie false”): evidentemente, l’accesso ai musei non rientra tra i beni di prima necessità. Potremmo forse farcene una ragione, anche se con estrema riluttanza: non è però accettabile che oggi, a più di due settimane dalla riapertura ufficiale dei musei, molti luoghi della cultura siano ancora chiusi e molta di quella “bellezza” di cui ha parlato Giuseppe Conte, in realtà, sia ancora in quarantena, isolata dalle sue comunità, inavvicinabile dai cittadini e dai turisti.

I musei statali stanno riaprendo alla spicciolata e la maggior parte di loro non è ancora tornata ad accogliere i visitatori. A oggi rimangono chiusi al pubblico siti di prim’ordine e di assoluta importanza: il Cenacolo Vinciano, la Pinacoteca Nazionale di Siena, il Museo Archeologico Nazionale di Siena, il Museo Nazionale di San Marco a Firenze, il Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, il Palazzo Reale di Pisa, i Musei Nazionali di Lucca, la Villa Lante di Viterbo. Per questi ultimi ancora non si conosce la data di riapertura. Il ministero non ha emanato un calendario con le date, né ha un elenco dei musei che hanno già riaperto, ma facendo le somme al momento sono aperti meno di 200 siti su quasi 500. E incredibilmente rimangono chiusi anche alcuni musei autonomi: per alcuni è già stato fissato il giorno del ritorno in attività (è il caso, per esempio, del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e del Museo Nazionale Romano, che riapriranno il 10 giugno), mentre per altri si sa che sono in corso i preparativi ma non si ha ancora un orizzonte temporale (come per Palazzo Reale a Genova).

Naturalmente ci aspettiamo che nel giro di poche settimane tutti i musei tornino a operare a pieno regime, ma appare del tutto evidente che, come spesso accade, sia mancata un’adeguata pianificazione: non sembra esserci stata una regia unica (certo, i musei autonomi e i poli museali decidono per se stessi sulle riaperture, ma quale immagine si dà a cittadini e turisti con questo continuo stillicidio di notizie, con musei che riaprono e altri per i quali neppure sappiamo se e quando riapriranno, con un ministero che neppure si degna di offrirci un calendario?), non si sa perché alcuni musei riaprono e altri no, dai piani alti del MiBACT non giungono risposte sufficienti. E allora, l’unica cosa che dobbiamo dire con forza, come vorrebbe il presidente Conte, è che moltissima bellezza è tuttora rinchiusa in quarantena, e gradiremmo che venisse liberata. E non è una gentile concessione: è un dovere della pubblica amministrazione garantire l’apertura dei nostri luoghi della cultura. Tanto più che si tratta d’un servizio pubblico essenziale.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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