Una dolcezza innata pervade le opere di Simone Cantarini (Pesaro, 1612 – 1648), pittore dei contrasti: inquieto e ribelle era l’uomo, delicata ed elegante la sua pittura. E nella sua arte, anche il sacro diventa poesia. O meglio: d’una pittura apertamente “elegiaca”, di elegie sacre parla Anna Maria Ambrosini Massari, specialista del pittore marchigiano, che assieme a Yuri Primarosa e a Luigi Gallo ha curato la mostra Simone Cantarini. Un giovane maestro (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, dal 23 maggio al 12 ottobre 2025). Cantarini fu pittore di complesse immagini religiose, alle quali seppe tuttavia infondere una “rinnovata lirica di gesti”, scrive Ambrosini Massari, “fatta di sguardi e silenzi, momenti intimi e quotidiani”. Si parla di elegie sacre “perché anche nel sacro si insinua quella forma di poesia che è soprattutto sfogo interiore e individuale, del cuore e del sentimento: nelle pale d’altare come nei dipinti da stanza si alza un canto sommesso, teatrale e vero, che sa modulare la voce più aulica di Guido Reni con quella più terrena del naturalismo post-caravaggesco”.
Nella pittura di Simone Cantarini anche il sacro, dunque, si fa poesia dell’anima. Lontano dall’enfasi monumentale di molta pittura seicentesca, la sua opera è attraversata da un’intensa vena elegiaca che tramuta la spiritualità in gesto intimo e quotidiano. Cantarini, nell’avanzare la propria idea di pittura sacra, s’inserisce nel solco di una ben definita linea urbinate, dacché eredita la dolcezza di Raffaello filtrata attraverso Federico Barocci, trasformandola tuttavia in un linguaggio nuovo, segnato da un lirismo emotivo ch’è capace di coniugare classicismo e naturalismo. La sua “elegia sacra” è una forma di poesia visiva fatta di piccoli gesti, sguardi intensi, di estasi e di malinconie. E tuttora la sua sua opera ci affascina per la sua capacità di tradurre il divino in sentimento, di rendere la spiritualità una forma raffinata di poesia. È una pittura che cerca di toccare il cuore prima ancora che la mente, un pittore che parla di sensazioni più che di dogmi. Il sacro, in Cantarini, difficilmente s’impone. Al contrario, affiora con discrezione nei volti assorti, nei panneggi appena mossi, negli spazi intimi che suggeriscono piuttosto che dichiarare. Anche le sue grandi pale d’altare sono attraversate da una tensione lirica che disinnesca ogni solennità accademica o trionfale. Il tono è sempre sommesso, la composizione calibrata tra luce e ombra, la scena carica di una dolcezza che si fa emozione trattenuta.
Alla base di questo stile sussiste una straordinaria capacità di sintesi tra gl’impulsi più diversi: l’eleganza di Guido Reni, il naturalismo degli affetti di Giovanni Francesco Guerrieri, le luci trasparenti di Orazio Gentileschi, persino la poesia classicista di Annibale Carracci e la grazia neoveneta alla Sassoferrato. Cantarini, tuttavia, non si limita ad assimilare: filtra, interpreta, reinventa alla luce d’un eclettismo che non si ferma al frammento ma cerca di fondere, che non esibisce erudizione ma cerca equilibrio. Ed è proprio in questo equilibrio che prende forma la sua elegia sacra, il suo canto interiore che trasforma la devozione in una meditazione sull’umano.
Già le prime opere, le opere giovanili, rivelano una visione tutta personale, anche quando i modelli appaiono riconoscibili: un Cantarini diciottenne, tra il 1630 e il 1632, dipingeva per la Pia Unione di Santa Barbara, congregazione che aveva sede nella chiesa di San Cassiano a Pesaro, la bella Madonna col Bambino in gloria tra i santi Barbara e Terenzio, che oggi s’ammira tra le sale della Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, dove si trova dal 2021, restituita dalla Pinacoteca di Brera che l’aveva in deposito dai tempi delle spoliazioni napoleoniche. In questo dipinto, a dispetto delle palesi suggestioni provenienti dagl’impasti neoveneti di Claudio Ridolfi e dal naturalismo di Giovanni Francesco Guerrieri, Cantarini denota già una tensione sentimentale tutta sua fondendo gli spunti in un linguaggio che, notava Daniele Benati, è sì acerbo, ma è comunque già personale: santa Barbara, col suo volto da adolescente, indica la scena celeste con un gesto misurato, mentre san Terenzio, che reca i tratti dell’artista diciottenne, forse addirittura un autoritratto, alza lo sguardo al cielo con toccante devozione. Gli angeli musicanti e i cherubini non esibiscono potenza, ma accompagnano con dolcezza l’apparizione. È un sacro ch’emoziona senza imporsi.
È coeva, forse di poco precedente, realizzata dopo un viaggio di studio a Venezia che rimonta al 1627, una Adorazione dei Magi che mostra l’assimilazione diretta dei grandi maestri veneti, soprattutto Veronese e Tiziano, con una sorprendente maturità (basterà pensare che fino al 1013, quando la scoperta d’alcune note d’archivio ha consentito d’immaginare una datazione precoce, l’Adorazione era ritenuta opera dell’estrema maturità), da leggere anche alla luce della lezione di Ludovico Carracci da cui derivano l’impaginazione ripartita su due registri e l’atmosfera cupa. Ma anche qui l’afflato elegiaco s’impone nell’aria: l’adorazione è raccontata non con lo sfarzo dei colori o l’imponenza della folla, quanto piuttosto attraverso ritratti intensi, gesti lievi, volti pensosi. Il Gesù bambino, dolcissimo, sembra già portare in sé la coscienza del sacrificio, osservato da una madre dai connotati quasi infantili, ch’è rappresentata, al pari del figlio, di profilo: è come se Cantarini abbia voluto renderci ancor più partecipi, farci assistere alla scena da un’angolazione insolita, farci diventare parte della storia. È una scena viva, ma senza concitazione, dove la spiritualità si avvicina alla gente, nei tratti realistici (si vedano quelli dei magi) e nelle espressioni dimesse ma familiari.
L’approdo maturo a Bologna è segnato da una somma libertà stilistica, dalla capacità di farsi interprete di un nuovo sentire religioso: l’Immacolata Concezione con i santi Giovanni evangelista, Nicola da Tolentino ed Eufemia, commissionata dalla famiglia Gavardini, è uno dei massimi saggi del Cantarini maturo. Uno dei più grandi esegeti di Cantarini, Andrea Emiliani, aveva coperto di lodi questo dipinto ritenendolo “quadro che incrocia con una finezza straordinaria prime emozioni marchigiane da Gentileschi, da Boscoli e perfino da Barocci per mescidarle poi con il Raffaello bolognese per eccellenza, e cioè con la Santa Cecilia di San Giovanni in Monte”: Cantarini è qui pittore che “mostra di aver ormai toccato il tempo di lasciar trasparire il renismo come un segno risolutivo dell’equazione tra virtù e bellezza”. La Vergine, sospesa tra le nubi, ha uno sguardo gonfio di lacrime, assorto, delicato. I santi attorno partecipano non con enfasi, ma con silenziosa adesione. La luce dorata, i panneggi vaporosi, il volto umano e delicato di sant’Eufemia, restituiscono un’atmosfera emozionale che trasforma l’immagine teologica in racconto interiore. Ed è un Cantarini che si fa anche pittore d’atmosfere, in equilibrio tra le Marche, il Veneto, l’Emilia, è pittore che alla realtà cruda, anche feriale, dei suoi personaggi cerca d’opporre una visione celeste che s’apre su un cielo dorato e che si ritroverà in uno degli apici della sua intera produzione, il San Giacomo in gloria, vertice del “renismo” del pittore pesarese, come aveva notato già Francesco Arcangeli, e dipinto emblematico in cui la figura del santo, in ascesa verso il cielo, si staglia contro la luce dorata. Cantarini rilegge la lezione di Guido Reni con originalità, guardando al contempo a Guido Cagnacci e alla sua Maddalena portata in cielo ch’è il precedente più immediato della composizione cantariniana: il santo non è una figura distante, ha una presenza fisica imponente, gli angeli quasi s’attorcigliano sotto le nuvole per reggere il peso di san Giacomo, le nuvole hanno una loro consistenza.
La tensione elegiaca si fa ancora più profonda dopo il soggiorno romano (tra il 1639 e il 1642): quel viaggio lascia su Simone Cantarini un’impronta profonda. Ispirato dalla Madonna dei Pellegrini di Caravaggio e dalle opere di Orazio Gentileschi, Cantarini riformula il suo stesso sacro, accentuandone gli aspetti umani. Ci sono comunque dei prodromi significativi, tutti sul tema della Sacra Famiglia. Tra i più precoci, per esempio, la Sacra Famiglia con santa Caterina da Siena, opera della Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, che ruota attorno a un’iconografia insolita (probabilmente, ipotizza la studiosa Maria Maddalena Paolini, una richiesta specifica della committenza): si vede infatti un drago che spalanca la bocca in direzione di Gesù Bambino (e ch’è però tenuto al guinzaglio da santa Caterina), e poi ancora gli occhiali da vista tenuti da san Giuseppe (che alludono forse alla sua conoscenza delle Scritture: è lo stesso motivo per il quale alle volte è raffigurato con un libro in mano), e la stessa verga fiorita che il Bambino dona a santa Caterina, allusione alle nozze tra Giuseppe e Maria e quindi simbolo del matrimonio mistico tra Gesù e la santa. Di tono domestico e dimesso è anche la Sacra Famiglia con san Giovannino che bacia la mano di Gesù della Galleria Borghese, che al pari della Sacra Famiglia con libro e rosa del 1638 circa è animata da una cifra poetica attenta alla quotidianità, sono dipinti dove la scena è costruita come un dialogo silenzioso di affetti: nell’opera della collezione Signoretti, Maria è assorta nella lettura, il Bambino le offre una rosa, Giuseppe assiste pensoso. Ogni gesto è simbolico ma anche intimo, e l’emozione si consuma nella penombra dorata, tra velature sottili e toni caldi, con un senso di dolce isolamento. Durante e dopo il soggiorno romano, questa vena s’intensifica al contatto col naturalismo caravaggesco. Sono anni in cui l’elegia sacra di Cantarini tende a farsi più raccolta. Le sue Sacre Famiglie sono piccoli capolavori domestici, pensati per la devozione privata. Qui, i toni di Cantarini trovano una dimensione congeniale nella vicinanza, nell’empatia, nel dialogo: san Giuseppe, per esempio, non è più spettatore ma partecipa quasi sempre attivamente, il Bambino gioca, la Madonna riflette. Le luci sono morbide, i colori tenui, le linee curve. L’arte diventa qui preghiera sussurrata, affetto quotidiano sublimato nella pittura. La mostra d’Urbino ha presentato uno splendido inedito, una Sacra Famiglia di privata collezione inglese: opera rigorosa dall’impatto paradossalmente monumentale e quotidiano allo stesso tempo, coi personaggi che paiono statue classiche ma trasudano familiarità, un’opera che, scrive Nikita de Vernejoul, è “permeata da un sottile equilibrio tra l’inclinazione naturalista di Cantarini e la tendenza idealista di Reni, [...] verosimilmente realizzata attorno al 1640, durante o appena dopo il suo presunto soggiorno romano”. Più trattenuta appare invece la Sacra Famiglia del Prado, improntata su di uno rigoroso classicismo, reniana e composta nelle due figure principali, la Madonna e il Bambino (lei è colta mentre osserva il riguardante: è l’unico caso in tutta la produzione di Cantarini, denota l’assimilazione della ritrattistica di Raffaello e della statuaria antica studiate a Roma), ma intensa e naturalistica nel brano di san Giuseppe che, un poco più indietro, è colto nell’atto quotidiano di leggere un libro. Si torna invece a un brano di dolce intimità con la Madonna della rosa, datata 1642: la Vergine riceve dal Bambino una rosa, simbolo dell’amore e del dolore, in una composizione purissima, quasi neoclassica, memore di Raffaello e Sassoferrato, ma ch’è tuttavia capace, nel suo nitore distillato, di trasmettere un senso di profonda malinconia. La stessa malinconia che rende viva la Sacra Famiglia che Cantarini dipinse in due varianti, una oggi alla Galleria Colonna, l’altra alla Galleria Corsini, sempre a Roma: “è in opere come queste”, scrive Yuri Primarosa, “che il giovane allievo sfidava il maestro, proponendo una felice alternativa al naturalismo depotenziato di stampo classicista e al più immediato approccio al vero di ascendenza caravaggesca. Mentre Reni correggeva la natura nuda e cruda con l’idea, Cantarini indagava nuove possibilità espressive compiacendosi degli affetti e dell’alternanza dei registri stilistici, delle tenebre che aggiungono senso alla luce”.
Simone Cantarini morì giovane, a trentasei anni, in circostanze mai del tutto chiarite, lasciando dietro di sé un’opera vasta, disseminata di dipinti finiti e non finiti, disegni rapidi e schizzi rapidi e fulminanti, incisioni raffinate. Eppure, nella sua breve parabola seppe definire un lessico personale che anticipa sensibilità più moderne: la malinconia romantica, il culto dell’intimità, la commozione quotidiana. Nelle sue figure si avverte la vibrazione della carne, il fremito dell’affetto, ma anche la coscienza della morte e della fragilità. Simone Cantarini non fu solo un epigono del classicismo né un semplice allievo di Guido Reni, come spesso è stato considerato, anche se ormai la sua statura è pienamente riconosciuta. “Oltre a interpretare meglio di ogni altro il linguaggio di Guido senza banalizzarlo”, scrive Yuri Primarosa, “Simone era in grado di tradurne gli stili in una maniera propria orientata in senso naturalistico, dando voce a figure di carne e sangue che rivivificavano il modello iniziale, al punto da permettergli di pretendere di essere considerato un ‘maestro [ancor] prima d’entrar nella scuola’”, come aveva osservato Carlo Cesare Malvasia già nel Seicento. L’aspetto interessante, suggerisce ancora Primarosa, è che rimane un mistero “come tale exploit potesse essersi verificato, sulla base di un contesto di partenza così defilato” quale fu quello in cui Simone Cantarini si formò e maturò dimostrando, come s’è visto, un talento precocissimo.
Cantarini ha lasciato poi una traccia sulla pittura successiva. I suoi allievi, da Flaminio Torri a Lorenzo Pasinelli, ne raccolsero il messaggio e lo diffusero, anche se talvolta smarrendone la tensione interiore. La sua influenza si avverte nei chiaroscuri sensuali, nei paesaggi arcadici, nei moti dell’anima che punteggiano la pittura emiliana ed europea della seconda metà del Seicento.
L’arte di Cantarini, specialmente nel sacro, assume un carattere quasi musicale: la modulazione degli affetti e delle luci diventa armonia, variazione sul tema. È questa l’essenza dell’elegia sacra che lo distingue: una spiritualità sussurrata, consapevolmente umana. Una pittura che, senza mai rinunciare alla bellezza, si fa testimonianza dei moti del cuore e della malinconia dell’esistere. Simone Cantarini, pur nella brevità della sua parabola artistica, seppe toccare corde profonde del sentire barocco, e lo fece non aderendo ciecamente ai dettami della scuola reniana, e neppure abbandonandosi totalmente al naturalismo di Caravaggio e seguaci, ma forgiando un linguaggio proprio, capace di coniugare la dolcezza con la verità, l’eleganza con il turbamento, la fede con l’interiorità. Una “elegia sacra”, appunto, che resta tra i contributi più alti e originali del Seicento italiano.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo