Tra meno di un mese la mostra evento Caravaggio 2025 a Palazzo Barberini chiuderà i battenti. Ma è davvero ”uno dei progetti espositivi più ambiziosi mai dedicati all’opera di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio (1571-1610)”, come recita il comunicato stampa? Per una mostra sold out in meno di due mesi di apertura, ma anche per le consistenti recensioni apparse sulla stampa nazionale, la risposta sembrerebbe insindacabile. Ma, forse, vale la pena ricordare quello che scriveva Mauro Lucco, curatore dell’indimenticabile monografica dedicata ad Antonello da Messina a Roma alle Scuderie del Quirinale nel 2006: tra “gli indicatori del successo di una mostra, il numero dei visitatori è sicuramente il criterio più ovvio e con altrettanta certezza il meno importante”. Numeri e percentuali rappresentano indicatori al ribasso culturale che andrebbero ridimensionati, se non si vuole far soggiacere i progetti espositivi a un unico imperativo, quello economico. La ressa nelle sale, peraltro, rende evidente che sia stato sottostimato il valore della sostenibilità della visita. Niente di non prevedibile, dato che l’evento è stato organizzato in concomitanza del Giubileo. E allora, per correre ai ripari… in corsa, dal 29 maggio l’orario di apertura è stato esteso fino a mezzanotte dal giovedì alla domenica e dal 3 giugno, con la chiusura delle scuole, il lunedì mattina l’accesso in mostra è permesso non solo ai gruppi ma anche ai singoli visitatori.
Diciamo che l’interesse in massa del pubblico non è stato ripagato con altrettanta premura e la soluzione buona a tamponare non la si può trovare sempre. Per esempio, l’illuminazione adottata è stata pensata per un visitatore che stazioni al centro davanti ad essa, evitando quel gioco di riflessi che in altre mostre dedicate al Caravaggio interferisce con la corretta lettura delle superfici pittoriche. Una postazione privilegiata per godere della visione ottimale di ogni singola opera che nelle sale di Palazzo Barberini solo pochi fortunati, e per una frazione di secondi, riescono a guadagnarsi, e non senza fatica.
Del resto, quell’ambizioso fine del progetto su cui ci siamo interrogati in apertura difficilmente lo si riuscirebbe a far coincidere con la dichiarazione d’intenti nel testo di Keith Christiansen che apre il catalogo della mostra (Marsilio Arte), quando afferma che “il presente saggio si pone contro lo svilimento dell’immensa abilità artistica del Caravaggio e del suo successo di pittore […] a mero riflesso delle vicende esterne della sua biografia”. Francamente, dopo 72 anni di celebrazioni a partire dalla mostra di Roberto Longhi al Palazzo Reale di Milano nel 1951 che ne segnò la riscoperta moderna, voler ristabilire il valore dell’artista contro “il fascino della sua biografia” (cit.) suona come una finalità rivolta a un pubblico da soap opera più che ai visitatori di una mostra. Come pure non può che apparire anacronistica la dialettica intavolata a distanza di altrettanti anni con Berenson “riluttante ad ammettere” quella abilità artistica e successo del Merisi, che nessuno più si sognerebbe di non riconoscere come incontrovertibili.
Insomma, per misurare l’“ambizione” del progetto serve riflettere sulle scelte dei curatori Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon. Condividendo quanto già scritto da Federico Giannini, aggiungiamo qualche altra considerazione (anche rispetto alla recensione di chi scrive sulla Gazzetta del Sud del 3 giugno 2025), insieme a quella che riteniamo sia la lacuna più evidente di questa operazione a cui si riconosce, non c’è ombra di dubbio, il pregio di aver consentito preziosi raffronti da vicino tra 24 capolavori del maestro dai più prestigiosi musei del mondo (“le mostre acuiscono comunque l’esercizio dell’attribuzione”, scrive Claudio Strinati in catalogo). Tra di essi opere raramente accessibili, come la prima versione della Conversione di Saulo della cappella Cerasi, da una dimora privata, come pure l’unico dipinto murale del Merisi nel Casino Ludovisi, aperto in via straordinaria. E di ammirarli non in un altro luogo espositivo della capitale, ma proprio a Palazzo Barberini, con la più vasta collezione “caravaggista” al mondo, nonché luogo simbolo del legame tra Caravaggio e i suoi mecenati. Così, accanto al San Francesco in meditazione, al San Giovanni Battista, alla Giuditta e Oloferne e al Narciso, dalla collezione permanente delle Gallerie, “tornano a casa” i Bari, i Musici e la Santa Caterina d’Alessandria, appartenuti alle collezioni della famiglia.
Solo opere unanimemente (o quasi) riconosciute dalla critica di mano del Caravaggio, il genio che ha polemicamente infranto i presupposti dell’estetica rinascimentale. Nessun caravaggesco. Niente copie o derivati. Caravaggio è unico e incomparabile. Ecco, è questo che possiamo presumere avrebbe reso nelle intenzioni dei curatori la mostra una delle più ambiziose a lui mai dedicate, a differenza delle precedenti, a partire da quella di Longhi nel 1951. Anche rispetto a quelle che, invece, l’hanno affrontata la delicata questione delle copie antiche e delle repliche (Strinati ricorda quella a Napoli tra il 2004 e il 2005 e quella a Düsseldorf nel 2006-2007, dimenticando, però, quella a La Valletta nel 2007 e poi a Trapani nel 2007-2008, a cura di Sir Denis Mahon). Ma proprio per questo sarebbe stato preferibile un accorgimento espositivo che “staccasse” dalle altre le due opere ancora sub judice e su cui si è soffermata in modo particolare la giornata di studi ospitata a Palazzo Barberini il 16 giugno scorso: il Ritratto di Maffeo Barberini, già noto agli studiosi perché pubblicato, nel 1963, da Roberto Longhi sulla rivista Paragone e per la prima volta concesso in prestito da una collezione privata, e l’Ecce Homo ritrovato a Madrid nel 2021, per la prima volta in Italia. Quest’ultimo, nella sala con le opere di soggetto religioso eseguite tra Roma e Napoli dal Merisi all’apice del successo, si è fatto notare, peraltro, per la posizione defilata, in un angolo. Una collocazione che non sembra parlare in favore della recente attribuzione, già vacillante per quel Pilato quasi giustapposto al Cristo, vieppiù al cospetto della solida costruzione spaziale della Flagellazione di Cristo di Capodimonte postagli accanto.
Ma bisogna arrivare alla fine del percorso, nella sala successiva, per scoprire la vistosa lacuna della mostra, dove si contraddice quanto dichiarato nel comunicato stampa, secondo cui le quattro sezioni coprono l’intera parabola artistica del Merisi, dagli esordi romani nel 1595 (e non più nel 1592, come ricostruito da Rossella Vodret) fino alla morte a Porto Ercole nel 1610. In questa quarta e ultima sala dedicata alla rocambolesca fase finale della vita dell’artista, tra Malta, la Sicilia e di nuovo Napoli ci sono solo tre opere: il Ritratto di cavaliere di Malta, il San Giovanni Battista e il Martirio di Sant’Orsola. Assenti i dipinti del periodo siciliano, che insieme all’ultimo periodo napoletano costituiscono l’eredità più stimolante del Caravaggio. “Un capitolo di primaria importanza nell’arte del Seicento europeo”, sottolinea Giuseppe Porzio in catalogo.
E dire che, in questo caso, a giustificare le defezioni non si possono richiamare situazioni ostative legate alle condizioni conservative dei dipinti in questione. Il Seppellimento di Santa Lucia di Siracusa nel 2020 andò al Mart di Rovereto, occasione in cui l’Icr di Roma ne verificò la stabilità delle condizioni conservative, compatibili con il trasporto. Fatto sta che il Fec, che ne è proprietario, non ha avuto remore a inviare a Roma la Flagellazione di Napoli.
Non pervenuti pure i due capolavori del Museo Regionale Accascina di Messina: l’Adorazione dei Pastori e la Resurrezione di Lazzaro. La prima era stata sottoposta a un restauro conservativo, effettuato a “cantiere aperto” dall’ICR, Istituto Centrale per il Restauro, di Roma, nel periodo settembre 2009 – febbraio 2010, presso gli spazi della Camera dei deputati in via del Parlamento, per poi essere esposta alla grande mostra Caravaggio alle Scuderie del Quirinale in occasione del quattrocentenario dalla morte dell’artista. Il secondo, invece, nel 2012 a termine del restauro effettuato sempre dall’ICR, durato sette mesi, era stato in mostra al Museo di Roma a Palazzo Braschi. Il precedente intervento risaliva al 1951, mentre il nuovo si inseriva nel progetto generale di revisione dei restauri eseguiti dall’Istituto a partire dagli anni cinquanta, con l’obiettivo di approfondire le ricerche e sciogliere le problematiche all’epoca irrisolte. Questo grazie all’evoluzione dei metodi e dei materiali da impiegare per la pulitura e al supporto di metodi analitici che nel 1951 non erano disponibili; elementi che hanno permesso di ottenere risultati e approfondimenti conoscitivi e di restituire leggibilità all’opera.
Arriviamo ad oggi. È proprio in funzione della richiesta di prestito da Roma che, l’11 ottobre 2024, il CRPR, Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro di Palermo, su richiesta dell’allora direttore del Museo di Messina, Orazio Micali, forniva una relazione sullo stato conservativo della tela a seguito del sopralluogo eseguito il 13 settembre precedente dai tecnici del Centro e basato su un’analisi visiva macroscopica. Vi si legge, tra l’altro, che “gli strati pittorici appaiono discretamente adesi e coesi”, che “gli interventi estetici del 2012 non mostrano visibili alterazioni”, che “la tela mostra un tensionamento discreto e non si ravvisano né ondulazioni né deformazioni”, per concludere che la tela presentava “un discreto stato conservativo e attualmente non necessita di un intervento di restauro”. Unico suggerimento, “per un corretto monitoraggio nel tempo”, “l’allestimento di una struttura espositiva di ancoraggio mobile, che dia possibilità di ispezionare periodicamente lo stato di conservazione del verso dell’opera”.
Insomma, anche per quest’opera non sussistevano condizioni di “salute” incompatibili con un suo trasporto alla volta di Roma. Per inciso, la richiesta di una relazione tecnica dal museo messinese al CRPR per la sola Resurrezione ci dice indirettamente che l’intenzione in un primo momento fosse di accordare, comunque, il prestito, anche se solo unicamente per quella tela (evidentemente per non privare il museo di entrambi i Caravaggio). Ma, allora, perché alla fine l’opera non è partita?
Alla volta di Roma sono giunti capolavori dal Met di New York, dalla Royal Collection di Londa, dalla National Gallery of Ireland. Non dalla Sicilia, perché le opere di Caravaggio rientrano tra le 23 della Regione riconosciute nel 2013 come inamovibili. Una norma voluta dall’allora governo Crocetta in un contenzioso con alcuni musei statunitensi per chiudere i rubinetti del prestito facile. O almeno così si disse. In realtà, tutt’altro che “blinda prestiti”, la norma non fa altro che allentare le maglie del prestito proprio per quella ristretta lista di beni identificativi della Regione. Prevede, infatti, una deroga che sposta la valutazione di questioni specialistiche dai tecnici alla Giunta di Governo (dell’“atipicità” della normativa siciliana per i prestiti ce ne siamo già occupati a più riprese). In altre parole, è rimessa alla discrezionalità di assessori come quelli alla Salute, alla Famiglia o dell’Agricoltura, stabilire se una fragile pellicola pittorica possa affrontare un viaggio. È già successo: nel 2016 la Giunta superò il parere del direttore di palazzo Abatellis a Palermo per dare l’ok al prestito dell’Annunciata di Antonello da Messina, opera che rientra pure in quell’elenco. Quindi, bene ha fatto l’Assessore dei Beni culturali e Identità Siciliana, Francesco Scarpinato, a invertire il trend e non privare, ricorrendo a scorciatoie, il museo di Messina dei suoi capolavori identitari, che da soli valgono una visita.
Diversamente, se la normativa regionale fosse stata allineata a quella nazionale, un testimone dall’isola avrebbe reso un buon servizio alla causa romana, dove si avverte l’assenza di quella nuova visione sconvolgente maturata dal Caravaggio durante l’intervallo siciliano.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).