Cesare Brandi, nel 1933, compilando il catalogo della collezione custodita dalla Pinacoteca Nazionale di Siena, li aveva chiamati “cimeli”: un termine forse divenuto oggi poco appropriato per definire, in una parola sola, i cartoni che Domenico Beccafumi (Domenico di Jacopo di Pace; Sovicille, 1484 circa – Siena, 1551) eseguì per il pavimento del Duomo di Siena, dal momento che adesso siamo soliti indicare col termine “cimelio” un qualunque feticcio appartenuto a una qualsiasi personalità un poco più nota rispetto alla media. All’epoca però s’intendeva per “cimelio” un oggetto antico e prezioso, degno delle massime cure: e in questo senso Brandi aveva ben colto il valore dei cartoni di Domenico Beccafumi, una sorpresa che la Pinacoteca Nazionale di Siena riserva al visitatore verso il finale di percorso, in una sala che raccoglie questi pezzi un tempo appartenuti alla collezione Spannocchi di Siena e oggi invece patrimonio di tutti. Tanto più preziosi in quanto unici cartoni sopravvissuti dell’intera impresa di quel sontuoso racconto di marmo che è il pavimento del Duomo di Siena.
Beccafumi è il massimo interprete senese del Manierismo: alla Pinacoteca Nazionale di Siena si va anche per apprezzare i succosi, rivoluzionari frutti della sua mente e della sua mano, per osservare i suoi lavori più noti, su tutti la Trinità, opera di straordinaria modernità che precede di circa dieci anni i capolavori che oggi più comunemente associamo al manierismo, quelli del Pontormo o del Rosso Fiorentino. Beccafumi è anche autore della porzione più innovativa e singolare del pavimento della Cattedrale Senese: realizzò i suoi cartoni tra il 1524 e il 1531, tracciando a inchiostro e carboncino, su questi grandi fogli, l’ideazione grafica per la parte che a lui spettò dell’impresa secolare del pavimento del Duomo. E oggi questi fogli sono ancora testimoni di quel legame diretto tra l’idea dell’artista, la sua elaborazione, e la traduzione materica dell’opera finita: un ponte fragile ma vivo, un ponte tra pensiero e pietra. Non si tratta tuttavia, in questo caso, di abbozzi tracciati nelle prime fasi: i cartoni sono disegni a grandezza naturale, strumenti tecnici che non mancano però di significativo valore artistico, destinati ai maestri scalpellini che, calandosi nella parte di pazienti traduttori, avrebbero dato forma e luce al commesso marmoreo. Questo straordinario sistema decorativo, che copre il pavimento della Cattedrale di Siena come un immenso tappeto di simboli e narrazioni, costituisce una delle imprese più originali del Rinascimento italiano, e i cartoni di Beccafumi ne sono una testimonianza diretta, preziosa e oggi rarissima.
Nel Rinascimento, l’utilizzo del cartone preparatorio era prassi comune nelle grandi botteghe artistiche. Ma nel caso di Beccafumi, si potrebbe dire che i cartoni non sono solo strumenti di lavoro: questi fogli svelano l’intima fucina creativa di un artista che non si limitava alla progettazione ma controllava con finezza ogni passaggio, dall’invenzione iconografica fino alla resa luministica. I tratti a carboncino, le tracce d’inchiostro, i dettagli accurati dei volti e delle espressioni restituiscono un’immagine autentica della sua mano.
Dopo aver ricevuto un primo pagamento nel 1524, Beccafumi cominciò a mettersi al lavoro sull’impresa con tutta probabilità l’anno successivo. Le cinque opere esposte alla Pinacoteca Nazionale di Siena documentano il grande riquadro con gli episodi di Mosè sul monte Sinai, posto oltre l’esagono centrale del pavimento, in direzione dell’altare maggiore. A queste s’aggiunge il cartone, non esposto, per il fregio sottostante, con episodio dello stesso racconto (Mosè che fa sgorgare l’acqua dalla roccia). Un tema tratto dall’Antico Testamento, con cui l’artista mise in scena momenti cruciali della storia del popolo ebraico: gli ebrei che attendono il ritorno di Mosè dal Sinai (l’unico dei cartoni esposto in una sala a parte), Mosè che riceve le tavole della legge, ancora il profeta che spezza le tavole della legge, Aronne che fabbrica il vitello d’oro, l’uccisione degli ebrei adoratori del vitello d’oro da parte dei leviti. L’intero ciclo si pone come un’architettura narrativa densa di significati religiosi e morali, ma anche come saggio magistrale di sperimentazione formale e tecnica.
L’artista, al servizio dell’Opera del Duomo per oltre trent’anni al fine di completare quest’impresa, seppe riformare l’estetica del pavimento con una sensibilità affatto nuova. Sfruttando la diversa colorazione dei marmi (il bianco, il grigio, il giallo) l’artista riuscì a ottenere effetti di luce e ombra di grande suggestione, anticipando, in certo modo, le future ricerche sugli effetti luministici dell’arte del Seicento. In questo contesto, i cartoni testimoniano come l’effetto visivo fosse già pensato in partenza, con un’attenta progettazione grafica del rapporto tra chiaro e scuro. Lo si nota soprattutto nel cartone con Mosè che riceve le tavole della legge sul Sinai, dove la resa luminosa, seppur appena accennata con pochi mezzi, è già efficacemente impostata.
Il fregio imponeva poi una sfida di carattere tecnico, pratico: quella di “rappresentare il miracolo dell’acqua che sgorga dalla roccia”, ha scritto la studiosa Francesca Scialla, dal momento che Beccafumi avrebbe dovuto lavorare “attorno alla natura della superficie a disposizione, una lunga striscia rettangolare racchiusa tra i pilastri che collegano lo spazio della cupola alla zona presbiteriale”. L’artista trovò una soluzione particolare, disponendo le figure in fila come fossero in processione, mettendo al centro Mosè, e soprattutto senza rinunciare alla singola caratterizzazione individuale dei personaggi, per quanto, nella traduzione in tarsie marmoree, parte dell’espressività che Beccafumi riuscì a infondere ai personaggi sui cartoni, sia andata per forza di cose perduta. I marmi serbano però quella sorprendente alternanza di luci e ombre che costituisce forse l’elemento che più cattura nella traduzione in pietra dei cartoni. Gli effetti seppero catturare anche lo stesso Giorgio Vasari, che nelle Vite riservò forti parole d’elogio per il fregio di Domenico Beccafumi: “questa fregiatura è tanto bella, che per cosa in questo genere non può esser fatta con più artifizio, atteso che l’ombre e gli sbattimenti che hanno queste figure sono più tosto maravigliosi che belli. Et ancora che tutta quest’opera, per la stravaganza del lavoro, sia bellissima, questa parte è tenuta la migliore e più bella”.
Fu proprio il fregio, secondo la ricostruzione di Francesca Scialla, che impegnò Beccafumi nelle prime fasi. Gli anni seguenti fino al 1531 furono impiegati per il riquadro, che cominciò a esser tradotto in marmo verso il 1529: gli scalpellini che ottennero l’incarico dovettero organizzare i cinque episodi disegnati da Beccafumi in un unico riquadro, su di un’unica superficie, mettendo al centro il monte Sinai e, attorno, come se l’intera storia dovesse ruotare attorno a quella montagna ch’è del resto centrale nel racconto biblico, tutte le scene. E in effetti il fulcro dell’intera narrazione è il vortice che compare sopra a Mosè, che simboleggia l’intervento divino, l’arrivo del Padreterno che consegna al profeta le tavole della legge. “Vale anche qui”, scrive Scialla, “l’imperativo del confronto tra disegni e commesso lapideo per poter apprezzare appieno l’invenzione nata dalla fantasia di Domenico Beccafumi, a vantaggio dei primi dove il passare dei secoli e la fragilità del supporto hanno minato la loro leggibilità”.
S’è detto che i cartoni erano anzitutto strumenti tecnici, dunque il loro destino non era quello di sopravvivere. Per la loro stessa natura di strumenti temporanei, funzionali alla trasposizione dell’opera in marmo, erano destinati a essere gettati o riutilizzati. Il caso però ha voluto che questi fogli si fossero conservati, non sappiamo perché. Probabilmente furono veduti sotto banco (l’Opera del Duomo di Siena avrebbe voluto infatti tenere per sé i cartoni) da Giovanni Battista Sozzini, stretto collaboratore di Beccafumi, e nel 1565 già figuravano nella collezione Spannocchi, una delle più prestigiose raccolte senesi. L’acquisto, attribuito a Tiburzio Spannocchi, ne garantì la conservazione in ambito privato, al riparo da dispersioni e danneggiamenti. Nei secoli successivi i cartoni furono tramandati di generazione in generazione, passando da Palazzo Spannocchi, in via della Sapienza, fino alla collezione Piccolomini Spannocchi, nata nel 1774 grazie al matrimonio tra Caterina Piccolomini di Modanella e Giuseppe Spannocchi. A un certo punto della loro storia, ci fu anche l’interessamento dei commissari inviati dal re d’Inghilterra, Carlo I, a cercare in Italia opere d’arte con cui rimpinguare le raccolte britanniche: questo almeno secondo quel che raccontava, nel 1649, un frate domenicano, Isidoro Ugurgieri Azzolini. I commissari, stando al racconto, offrirono a Pandolfo Spannocchi, nipote di Tiburzio, una cifra astronomica per entrare in possesso di quei fogli: Pandolfo rifiutò dicendo che riteneva d’esser più ricco e facoltoso tenendo i cartoni di Beccafumi a casa sua, che aggiungendo ai suoi averi i cinquemila scudi che i commissari inglesi gli avevano offerto.
Spostati nel 1825 nella chiesa di San Domenico, dove vennero ricoverati probabilmente per riscattarli dal cattivo stato di conservazione in cui versavano, e successivamente nell’Istituto di Belle Arti, entrarono ufficialmente nel patrimonio civico della città di Siena nel 1835. Oggi i cartoni sono esposti in una sala appositamente progettata per la loro conservazione e valorizzazione, dopo che in passato s’è rischiato forse anche di perdere questo patrimonio. La fragilità della carta su cui Beccafumi aveva lavorato, composta da più fogli giustapposti per raggiungere i grandi formati richiesti, ha imposto nel tempo diversi restauri, necessari per preservarli: il primo rimonta al 1939, ma i più consistenti vennero eseguiti tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta dall’Istituto Centrale del Restauro e dell’Istituto di Patologia del Libro di Roma. Altri restauri datano invece al 1990. Tuttavia, questa stessa delicatezza contribuisce al fascino dell’opera: ogni segno, ogni impronta dell’artista, appare nitido, umano, vicino.
I cartoni oggi esposti permettono un confronto diretto con le altre opere di Beccafumi presenti nella Pinacoteca. È evidente come l’artista, pur immerso nel clima del Manierismo, segua una traiettoria originale. Il suo tratto è nervoso, teatrale, dinamico, virtuoso, mosso. Le suggestioni ricavate dall’arte antica e dai grandi maestri fiorentini si fondono con una ricerca personale che punta al dinamismo, alla luce, all’espressività. In questo senso, il cartone non è solo bozzetto o strumento, ma spazio di invenzione e libertà. Nella sala che conserva i cartoni, il visitatore potrà cogliere nei fogli di Domenico Beccafumi ciò che nel marmo non si vede: un dettaglio del volto di Mosè, una piega drammatica del mantello, l’intensità di uno sguardo. Là dove il pavimento racconta con la pietra, il cartone racconta con il segno. È forse questa la caratteristica più interessante del dialogo a distanza tra le due opere, tra il cartone e il marmo, tra l’ideazione e l’esecuzione.
La sopravvivenza dei cartoni di Beccafumi, va aggiunto, non è un semplice fatto storico. La possiamo pensare, piuttosto, come una memoria viva del fare artistico, una finestra aperta sulla complessità e sulla grandezza di un’impresa collettiva che ha segnato la storia dell’arte senese e della quale i cartoni di Beccafumi sono testimoni preziosi, unico documento di una fase elaborativa di quell’incredibile pavimento in tarsie marmoree. Oggi, nella penombra silenziosa della sala, una delle sale più evocative della Pinacoteca Nazionale di Siena, quel gesto antico, il gesto della mano che fa scivolare il carbone sulla carta, invita tutti a cogliere la bellezza nella progettazione, a scoprire l’intelligenza d’una delle mani più originali e felici del Cinquecento, a scoprire il potere del disegno come idea che prende forma.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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